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EDITORIALE

Per grazia ricevuta (ph. Valeria Laudani)

Per grazia ricevuta (ph. Valeria Laudani)

È vero, c’è un complotto, una congiura. Ma non ad opera delle ONG alleate di Soros che preparano la Grande Sostituzione etnica. È l’umanità che cospira contro se stessa, come scrive Vincenzo Guarrasi nel suo bel libro appena edito dal Museo Pasqualino, La tempesta perfetta, che raccoglie gran parte degli scritti dello studioso apparsi su questa rivista. Gli uomini, con “la loro scienza esatta finalizzata a perpetrare stragi”, sembrano ostinatamente e ottusamente impegnati a distruggere tutto ciò da cui dipende la loro stessa vita, avendo scelto di rimuovere le questioni o di risolverle con le guerre. Un immane e tragico suicidio collettivo. Una sistematica azione contro l’umanità ad opera della stessa umanità. Uno straordinario cumulo di crisi: dalle diaspore delle popolazioni in fuga da confitti e carestie alle rovinose mutazioni climatiche, agli squilibri economici e demografici, alla vulnerabilità delle democrazie, al moltiplicarsi delle oligarchie tecnocratiche, al crescere delle diseguaglianze, al trionfo dei sovranismi e dei populismi che spingono i cittadini a barattare la libertà con la sicurezza e seducono i poveri perché votino i ricchi. Tutto questo nel complessivo quadro del collasso dell’ecosistema e più in  generale dell’Antropocene.

Così si chiude un anno e se ne apre un altro gravido di inquietanti presagi e di rituali speranze. A segnarne il passaggio nella notte del 31 dicembre, mentre le reti televisive trasmettevano il discorso del presidente della Repubblica, l’ennesima strage in mare a poche miglia da Lampedusa: 20 dispersi e sette superstiti. Da tempo ormai i naufragi nel Mediterraneo scandiscono nella loro terribile serialità il calendario delle nostre giornate e l’elenco osceno delle nostre responsabilità. Ma la coincidenza temporale e simbolica di due eventi così vicini e così lontani – da un lato l’appello di un Capo dello Stato che parla di comunità aperte e solidali, e dall’altro il respingimento e perfino la condanna a morte per chi tenta di attraversare i confini – sembra voler plasticamente significare la rappresentazione di una schizofrenia e di una doppiezza politica, nel contesto di un Paese lacerato da una faglia profonda, da una insanabile cicatrice, da «un’allarmante forza centrifuga – per usare le parole di Mattarella –, capace di dividere, di allontanare, di radicalizzare le contrapposizioni».   

Quali speranze coltivare nella società afflitta dall’analfabetismo funzionale e intrappolata nella sindrome del “galleggiamento”, nella deriva di una frantumazione molecolare per cui ciascuno non si riconosce più nella reciprocità dei vincoli e negli obblighi nei confronti degli altri? Quale futuro progettare in un’Europa che ha calpestato – come scrive Pietro Clemente –«la nostra grande tradizione illuminista, umanistica e relativistica»,  tradendo e cancellando lo spirito federale dei padri fondatori esiliati dal fascismo a Ventotene e restaurando il primato degli avari egoismi nazionali? Quale spiraglio di luce cercare nella notte profonda del diritto internazionale, conculcato, irriso e negato? Sulla soglia del nuovo anno stentiamo a trovare buone ragioni che possano alimentare auspici e fiducia nell’attualità del presente e nella dittatura del presentismo. Forse ha ragione Tim Ingold che nel suo ultimo libro Il futuro alle spalle (Meltemi 2024) ci invita a ricercare quel che chiamiamo progresso non nell’orizzonte davanti a noi – assai confuso e problematico – ma nel patrimonio esperienziale del passato, nel capitale culturale identificato nelle vite di quanti ci hanno preceduto, nella “postura del ricordante” – direbbe Clemente – ovvero nella fitta trama di corrispondenze e connessioni che legano e stringono le diverse generazioni.

Del resto, su questi temi e sulla lettura antropologica del progresso Dialoghi Mediterranei ha aperto un ampio dibattito promosso da Fabio Dei che in questo numero replica a quanti sono intervenuti, ribadendo le critiche a quella filosofia della storia e a quel diffuso senso comune orientato verso il pessimismo culturale, «secondo cui la modernità e i suoi strumenti – come la ragione, la scienza, la tecnologia, il benessere, la democrazia – sarebbero la fonte di tutti i mali». Posizioni politiche e polarizzazioni ideologiche che starebbero «alla base dei primitivismi e degli ontologismi contemporanei», su cui vale sicuramente la pena continuare a ragionare e a discutere in una temperie segnata da svolte epocali se non apocalittiche.

Tanto più che oggi l’antropologia culturale è chiamata a concorrere alla comprensione di fenomeni complessi e dinamiche storiche fortemente condizionate dalle guerre in corso, da quello «spirito del polemos» che – come scrive Enzo Pace – «quando soffia, spazza via le mezze misure, spinge gli elementi che incontra ad ammucchiarsi gli uni contro gli altri. Fuori di metafora, la guerra si combatte sui campi di battaglia, ma prima ancora nelle menti delle persone che sono coinvolte». Da qui «la brutale semplificazione delle identità individuali e collettive degli opposti schieramenti», l’uso al singolare di formule come quella dell’antisemitismo o del sionismo e dell’antisionismo, «deformazioni della realtà sociale che lo spirito del polemos favorisce e acuisce. Sforzarsi di evitarlo è già un atto di resistenza alla deriva violenta della guerra».

Centrali in questo numero sono i contributi di riflessione sull’attualità dei conflitti, in Palestina come in Ucraina, sulla loro genesi ed evoluzione, sui significati e le prospettive della pace, sulle ragioni e le contraddizioni della non violenza e, più in generale, sui modi e sistemi possibili di convivenza. Diversi sono gli approcci, i punti di vista e le chiavi di interpretazione riconducibili ad aspetti storici, letterari, artistici, filosofici e teologici. Ma tutti gli interventi rispettano, a guardar bene, il criterio adottato da Roberto Settembre nella analitica argomentazione del suo saggio, la proposta cioè di passare «dalla realtà contingente della politica belligerante a una visione olistica dell’unico mondo nel quale vivono gli uni e gli altri, che non necessariamente dev’essere condannato alla mutua distruzione». Si chiede dunque uno sguardo più largo e meditato, ma anche più acuto e profondo, di quello irretito e inficiato dalle retoriche dello mainstream e dalle angustie settoriali delle discipline. In questa direzione si può leggere, per fare un solo esempio, lo scritto di Daniele Sicari che ci fa conoscere la storia preislamica di Gaza e ci aiuta a capire le stratificazioni di simboli e valori culturali plasmate da secolari processi di contatti, contaminazioni e influenze reciproche originati e sviluppati nell’area mediterranea.

Nello stesso solco di idee, di idealità e di obiettivi si muovono in fondo i contributi compresi in quell’insieme composito e brillante che costituisce “Il centro in periferia” con il suo “cannocchiale rovesciato” sui piccoli paesi, le cui storie e identità – osserva Pietro Clemente – «sono una prova epistemologica che dimostra l’inefficacia delle grandi teorie che arrogantemente credono di poter definire il mondo dentro concetti generali. Lo studio dei piccoli paesi rende evidente la centralità dello sguardo da vicino con la straordinaria capacità di mostrare tutte le variazioni. (…) È su questi piccoli mondi che si impiantano e si sperimentano teorie adeguate. (…) Più ci si addentra nella memoria, nei documenti, nelle vicende di piccole comunità e più l’Italia dei censimenti, del senso comune, delle statistiche che i politici usano a seconda della loro convenienza, si scolora, quasi scompare».

Dall’osservatorio privilegiato dei piccoli paesi si può meglio capire questo nostro Paese con le sue aree appartate e dimenticate, luoghi invisibili e lontani dalle narrazioni ufficiali, pezzi di una geografia fantasma. Tra le tante letture che in questo numero raccontano e denunciano le torsioni politiche dell’attualità spicca il report a cura dell’Associazione di volontariato laica Naga. Dialoghi Mediterranei ne pubblica integralmente il testo che con un cospicuo apparato di testimonianze e documenti getta luce sulle sistematiche violenze perpetrate nel CPR di Macomer in Sardegna. Una Guantanamo nostrana, tra le tante incistate e occultate nelle diverse strutture destinate ad ‘ospitare’ i richiedenti asilo. Un piccolo arcipelago gulag.

Nella complessità dei fili che si intrecciano e si dipanano scorrendo il copioso sommario dialogano ancora una volta autori e autrici dalle diverse competenze, voci provenienti da mondi lontani, una pluralità di ricognizioni e sollecitazioni culturali promosse da una vasta rassegna critica di libri. In questa antologia trova spazio il ricordo di due figure eminenti della sociologia italiana, recentemente scomparse: Franco Ferrarotti e Arnaldo Nesti. Due personalità diverse: inquieto e  pugnace il primo, più mite e pure eretico il secondo, interpreti di scuole intellettuali diverse ma entrambi maestri di vita e di pensiero che nella loro generosità hanno trovato il tempo di collaborare con Dialoghi Mediterranei. Ne testimoniano il ricordo allievi e colleghi. 

Di notevole interesse non solo antropologico è il testo dell’intervista di Francesco Faeta che rispondendo alla domande di Domenico Sabino disegna un vivido e intenso ritratto di Annabella Rossi che è anche un illuminante frammento della storia degli studi negli anni febbrili del secondo dopoguerra. Ne emerge la passione politica della studiosa, il suo anticonformismo e il difficile rapporto con l’accademia, l’impegno alla promozione della coscienza civile e alla emancipazione dei poveri, il suo lavoro pioneristico di etnografa e di fotografa sul terreno, la sua lettura dall’interno del fenomeno del tarantismo nell’opera Lettera da una tarantata, in cui – annota Faeta – «mette in gioco se stessa in un primo esperimento di solidarietà femminile interclassista e trasversale».

Non meno stimolante è l’invito a rileggere Danilo Dolci che Salvatore Costantino propone in pagine che ricostruiscono la formidabile rete di azione collettiva e cooperativa dal basso progettata e realizzata dal sociologo triestino in un territorio ostico quale quello della Sicilia occidentale. Attualizzando il carattere interdisciplinare del pensiero e della prassi anche in relazione al suo magistero sulla pace e sulla non violenza, Costantino richiama i contatti e le connessioni di Dolci con figure importanti della sociologia europea come Joan Galtung  e Jürgen Habermas e recupera il valore innovativo della cooperazione che «tra le scienze è tanto più necessaria quanto più è in grado di agire non solo sulla qualità e sull’uso delle tecnologie ma anche sulla politica, sull’economia, sulla cultura, sui processi educativi e sulla ricerca, nonché sulla qualità della formazione delle classi dirigenti e delle politiche pubbliche. Questa cooperazione è ancora fondamentale per affrontare adeguatamente e tempestivamente i problemi e le contraddizioni della cosiddetta società digitale».

Dentro il grande mosaico di questo numero ci sono infine tra i tanti contributi quelli che documentano la presenza degli italiani e il ruolo della lingua italiana nel mondo (in Spagna, in Iran, in Ucraina e in Romania), le recensioni all’ultimo film di Gabriele Muccino, Fino alla fine, nonché il consueto e prezioso album fotografico che chiude il sommario come in una elegante cornice. Tra le fotografie d’autore recuperate da musei e archivi privati si segnalano quelle di un’artista olandese, che giunta nel 1950 in Italia a Sestri Levante si innamora della luce mediterranea che inonda le strade e le case dei pescatori fino a farne «il luogo della contaminazione tra realtà e immaginazione, territorio liminare, ma anche centro radiante e spazio intenso di storie e di riflessioni», scrive Silvia Mazzucchelli. Così da tradurre l’ordine fiammingo della composizione degli interni nel realismo luminoso del mondo classico.

Altre sono le immagini che inaugurano la cronaca del nuovo anno, tra le quali quelle lugubri e inquietanti che mostrano le parate dei camerati in camicia nera e a braccio teso radunati nel quartiere Tuscolano a Roma nella liturgia del “Presente”, come in un filmato dell’Istituto Luce di un secolo fa. Senza enfatizzare né minimizzare il significato di queste macabre esibizioni, il futuro di questo nostro Paese sembra restare ancora avviluppato nelle spire del suo tragico e irrisolto passato. Forse bisognerà guardare l’orizzonte dell’anno appena cominciato come i naviganti guardano al mare, con speranza e timore, trepidazione e cognizione. Come Hanna Arendt ha scritto nei versi di una poesia citata da Roberto Settembre in conclusione al suo denso saggio:

«Noi partiamo ogni volta/sul mare, /ogni volta/con fede nel bel tempo. /Ogni volta il mare impone la sua volontà, /e ogni volta la salvezza e la morte/sfuggono alle previsioni». 

Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
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