«Molto meglio Adua. Dovresti ringraziarmi, ti ho dato il nome della prima vittoria africana contro l’imperialismo. Io, tuo padre, stavo dalla parte giusta. E non devi mai credere il contrario. Io ho fatto solo cose giuste nella vita, unicamente cose giuste. […] Dentro il tuo nome c’è una battaglia, la mia… Non mi credi, forse? Osi dubitare di me?»
Zona settentrionale del Tigrè, primo marzo 1896, contingenti di italiani ed ascari presidiano il territorio circostante al comando del generale Oreste Baratieri. Dalla parte opposta, presso la città di Adua, il nemico è l’esercito abissino del negus Menelik II. Il Negus ha chiesto, nei mesi precedenti, la cessazione del trattato Uccialli ma il Governo italiano, forte del proprio successo militare non negozia. Settantamila unità abissine contro le sedicimila italiane diedero il via ad una sanguinosa battaglia con la perdita della metà dei soldati del contingente italiano. Una battaglia epica in cui gli insospettabili vincitori inflissero una ferita difficilmente sanabile, un’onta ed un affronto che spaccarono l’opinione pubblica che si divise tra chi preferiva tacere e dimenticare e chi invece inneggiò alla vendetta (cfr. Scego 2007/2008: 9-12). È questa Adua, dunque, una battaglia, un luogo, la memoria di una disfatta. Ma Adua è anche un nome, il nome di una donna protagonista dell’ultimo romanzo di Igiaba Scego (Giunti, 2015).
Scrittrice di seconda generazione, la Scego, di origini somale, è nata in Italia nel 1974. Cresciuta a Roma si laurea in Letterature straniere presso la Sapienza di Roma, consegue un dottorato di ricerca in pedagogia all’Università Roma Tre. L’esordio letterario avviene nel 2003, con il racconto Salsicce, con cui vince il premio letterario riservato agli scrittori migranti Eks&tra. Si aggiudica alcuni anni dopo il premio Mondello con La mia casa è dove sono (Rizzoli, 2010). Collabora con riviste che si occupano di migrazione, cultura e letteratura africana tra cui «Carta», «El-Ghibli», «Nigrizia». È uno sguardo multiprospettico quello di Igiaba Scego, sono occhi interessati all’attualità della società italiana, in quell’urgenza che la vede trasformata in terra d’immigrazione e nella difficoltà a confrontarsi con l’alterità, nel rapporto con le ex colonie, fino ad arrivare a più ampi ed onnicomprensivi scenari che abbracciano l’Europa e l’Africa, risalgono alla diaspora somala, denunciano la condizione della donna migrante (cfr. Proto Pisani, 2010). Una vivacità intellettuale che si muove dalla storia alla politica, dalla letteratura al giornalismo, dalla narrativa alla cronaca, capace di compenetrare svariate discipline per rendere conto di quei movimenti, quelle contraddizioni, le dinamiche sociali, le situazioni irrisolte e i vari ostacoli che i migranti, le seconde generazioni, ma non solo, affrontano, subiscono, superano, vivono.
E con il solito sguardo largo che la contraddistingue, intersecando tre diversi momenti storici – colonialismo italiano, gli anni settanta della Somalia e l’attualità dei migranti che attraversano il Mediterraneo – Igiaba Scego ci racconta di Adua, «la bella Adua» che seduta vicino all’elefantino del Bernini narra la sua storia: è una Vecchia Lira, una donna matura emigrata durante la dispersione somala degli anni settanta, giunta in Italia con un sogno caldo come può essere quello di qualsiasi ragazzina di diciasette anni che ama il cinema, la Roma della dolce vita, le stelle di Marylin Monroe, le scarpette rosse di Judy Garland, una ingenua ragazza che si immaginava la Ruby Dee somala che avrebbe lottato per i diritti civili delle donne senza cedere ai compromessi. Qualcuno aveva provato a spiegarle che gli italiani le avrebbero chiesto un prezzo, che le chimere non vanno seguite: esse hanno la testa di leone e una di capra sulla schiena, la coda di un drago, hanno artigli le Chimere e fauci grandi che agguantano ed uccidono, ma non le importava. Giunta al giro di boa, Adua tesse la trama della propria narrazione, della propria vita: dai primi ricordi nel villaggio dove viveva insieme alla sorella alla esperienza coniugale con Titanic, il «pischello made in Lampedusa», il marito comprato a saldo per provare l’ebbrezza di quei sentimenti virginali persi troppo presto. Confidandosi con l’elefantino la protagonista risale al difficile rapporto con il padre Zoppe, ultimo discendente di una famiglia di indovini ed interprete durante il regime fascista.
Al racconto di Adua si intreccia quello su Zoppe e, pagina dopo pagina, impareremo a conoscere questo giovane uomo pervicacemente ostinato nel seguire un miraggio fatto di libertà, lo vedremo imboccare strade sbagliate, spezzarsi sotto il peso della storia e trasformarsi nel padre autoritario e marziale, incapace di ogni tenerezza nei confronti della figlia. Un padre ed una figlia accumunati dallo stesso mordace desiderio: Roma, fagocitati dal medesimo mostro, due storie che s’incrociano e interagiscono disposte in rapporto dialogico, dove alle accuse dell’una rispondono le ragioni dell’altro, fino ad arrivare ad una risoluzione che pacifica coscienze e rivela somiglianze e affinità. È una narrazione certamente intima, quella tra un padre ed una figlia, ma al contempo narrazione che abbraccia un altrettanto fragile rapporto, quello tra la Somalia e l’Italia. Una storia taciuta e minimizzata, figlia del colonialismo, concepita e tenuta in grembo dall’Italia postunitaria, cullata dal ventennio fascista e abbandonata dopo la perdita del conflitto modiale. Igiaba Scego adotta e riconosce questa storia, assumendosi il difficile compito di decolonizzare e svezzare il pensiero, così che le sue parole, infrangendo il muro di silenzio innalzato dall’Italia dopo la sconfitta, s’incaricano di destrutturare i luoghi comuni, gli stereotipi e i clichè, di demolire quelle convinzioni normalizzate e tesaurizzate che compongono il triste legato dell’eredità coloniale: un patrimonio di beceri razzismi sempre attuali e subdolamente operanti ogni qualvolta la paura dell’altro diviene più forte. Impegno ed obiettivo assunto a poetica stessa della scrittrice, insieme strutturato di convinzioni stabilizzate che prende forma non solo in Adua ma permea l’intero corpus di scritti e di romanzi, un complesso di proposizioni teoriche poste a monte dell’attività di scrittura della Scego: basti leggere quanto scritto nella tesi di dottorato:
«Di fatto si può dire che la storia coloniale e le sue nefaste conseguenze sono state rimosse dal pensiero italiano. Questo paradosso ha creato una sfasatura culturale e psicologica che ha contrassegnato negativamente (e spesso ambiguamente) il rapporto dell’Italia con l’altro. Rapporto che mostra tutte le sue incrinature proprio in questo terzo millennio in cui l’Italia è diventata da paese di emigrazione (anche interna) a paese di immigrazione. Oggi insieme alla Spagna è l’Italia a detenere il più alto tasso di crescita della popolazione immigrata. È sempre l’Italia che vede crescere la sua popolazione scolastica grazie all’afflusso dei figli dei migranti nelle aule svuotate dal calo demografico. È necessario quindi colmare questa sfasatura per costruire una società del futuro che possa rispecchiarsi in una storia collettiva e interculturale. Questo è possibile infatti solo dopo un processo di decolonizzazione della memoria. Una decolonizzazione che parta da una presa di coscienza collettiva delle società (italiana e delle ex colonie) sul suo passato» (Scego 2007/2008: 6).
E così maturata una presa di distanza dai fatti che nei tempi lunghi della storia ha originato la rimozione dell’evento e la costruzione di un confortante immaginario sintetizzabile nella lapidaria quanto superficiale formula italiani brava gente. Autorappresentazione rassicurante ma che mostra tutta la sua fragilità infrangendosi nella contemporaneità dei nostri giorni, sfasatura paradossale che ridesta nelle pratiche sociali e discorsive gli occulti dispositivi ideologici e retorici riconducibili alla propaganda coloniale. Secondo Igiaba Scego, per sanare la sfasatura occorre decolonizzare la memoria, sciogliere il paradosso opponendo ad esso argomentazioni logiche e inoppugnabili discese da una serrata analisi storica e dalla conseguente presa di coscienza. Progetto concretizzabile per mezzo degli studi postcoloniali e della letteratura migrante prodotta dai soggetti provenienti dalle ex colonie. Questi ultimi, contrastando ed integrando alla rappresentazione storica ufficiale autorappresentazioni differenti, avviano un proficuo processo di negoziazione e rielaborazione della memoria storica, e in questo senso Igiaba Scego è una delle voci più potenti e passionali. A proposito di Adua dichiara in un’ intervista:
«È da tempo che studio le radici del razzismo e la diffusione degli stereotipi. Sono partita con la “conquista” dell’America (non è stata una scoperta, ma una conquista) e sono approdata al neocolonialismo moderno, quello dei giorni nostri, dove l’Africa è sfruttata per le sue materie prime e dove gli africani sono privati dei diritti elementari. Ragiono molto su questi temi. Il libro nasce da questo mio sguardo “post-coloniale”. Uno sguardo che cerca nel suo piccolo di combattere contro le ingiustizie e le disuguaglianze. Adua nasce da questo. E c’era in me l’esigenza di far capire ai lettori che il presente è legato al passato. Se oggi arrivano i migranti in fuga da guerre alimentate anche dall’Occidente con la vendita delle armi e lo sfruttamento del suolo (penso, per esempio, al mio Paese d’origine usato dalle multinazionali come pattumiera per i rifiuti tossici) significa semplicemente che il colonialismo del passato ha posto le basi per il disastro odierno. L’Africa purtroppo non si è mai emancipata dal colonialismo. Questo è continuato sotto altre forme [...]» (Ciarapica, 2015).
La lettura di Adua educa il lettore ad assumere uno sguardo postcoloniale, educazione nel significato latino di ex ducere, del condurre, portare fuori. Come nel mito platonico della caverna in cui usciti dalla tenebre si raggiunge la conoscenza della realtà fenomenica, progressivamente così, Igiaba Scego, conduce il lettore fuori dall’oscurantismo odierno illuminando quelle zone d’ombra sulla retorica e sui comportamenti agiti nei confronti dell’altro.
Adua è quindi lettura critica sulla società, il cui obiettivo è demistificare, disvelare, decostruire, disinnescare i razzismi, una lettura che reclama verità, la voce piena da opporre al silenzio, i diritti della giustizia all’infamia della menzogna. Invito non unidirezionale ma appello bidirezionale che postula un aperto e franco dialogo, quello che leggiamo dal libro:
«La memoria era già persa. E trovavi sempre qualche Idris Shangani felice di raccontarti che sotto gli italiani non si era vissuti poi così male. Di solito erano ex ascari o ex madame. Ma poteva uno scricciolo come me capire quelle sfumature? Un padrone vale l’altro, questo era il succo. Magalo poi non era Mogadiscio, la storia a Magalo ci passava di sbieco. Non c’era nessun Abdullahi Ciise, anima dell’indipendenza somala, a indottrinarci. A spiegare al popolino di Magalo che il valore della nostra terra eravamo noi, cittadini africani, artefici del nostro destino. Nessuno ci aveva mai raccontato che il colonialismo era il male. Anche chi conosceva la verità ha taciuto. Mio padre, per esempio, ha taciuto».
Il processo di demistificazione avviene tramite l’analisi del corpo migrante, attenzione che si pone in linea con la poetica della scrittrice.
«Tra le questioni che si pone Igiaba Scego – scrive Combierati (2009:77) – c’è proprio quella di capire come il corpo agisca durante e dopo la migrazione, e quali siano gli effetti che la migrazione, l’esilio e la guerra producano su di esso».
Una disamina che non viene tradita in Adua ma, al contrario, assunta a leitmotiv narrativo, tanto da presentare quasi dei corpi in vitro in cui è possibile sperimentare esami autoptici e verificare tutta la ferocia e la violenza della guerra coloniale. Prima con il corpo di Zoppe, il quale sarà, non solo pesantemente umiliato ma desogettivizzato, non uomo ma oggetto, un corpo che è solo decodificatore utile a tradurre, e successivamente con il corpo di Adua che paradossalmente, in un salto temporale che va dagli anni trenta ai settanta del Novecento subirà l’eco dell’immaginario coloniale italiano sulla donna africana.
Tutta l’ideologia coloniale che, costruita su una visione asimmetrica, promuoveva una visione bipolare del mondo, un cosmo spartito tra i colonizzatori, detentori del potere investiti di attributi positivi, e chi lo subiva, i colonizzati spogliati di ogni connotazione umana e reificati nel dominio del subumano, la ritroviamo nel discorso del conte Anselmi: «civilizzare i selvaggi toccherebbe a noi, siamo noi che dobbiamo portare sulle spalle questo pesante fardello», accenti di un malcelato razzismo di stampo paternalistico raffigurante la razza inferiore, selvaggia, da civilizzare. Sono proprio le parole del conte, a sua volta stereotipo del decadente lascivo, raccoglitore di esotismo e apostolo della superiorità razziale, a restituire alcuni dei capisaldi dell’ideologia razzista di stampo coloniale ed imperiale: dalla rappresentazione dell’Africa come terra languida e indolente – «l’Africa è così lenta», «in questa città i sensi ballano, caro ragazzo», «gli arabi costano poco e sono molto efficienti, non come quei pigri degli abissini» – fino all’esternalizzazione dell’immaginario sessista: «E poi, ammiccante, gli aveva fatto l’occhiolino i bisogni corporali vanno assecondati. Queste piccole etiopi sono come il buon vino delle colline, basta mezzo fiaschetto per star bene per i dieci anni successivi».
In particolare, nella costruzione dell’immaginario collettivo sull’Africa, la rappresentazione del corpo femminile unitamente alle metafore sessuali, che trasponevano simbolicamente la disponibilità territoriale alla godibilità del corpo delle donne, riproducenti iperbolicamente le relazioni di potere, costituirono un formidabile mezzo per legittimare la conquista e fornirono una forte spinta motivazionale per gli uomini che dovevano intraprendere la guerra. Una rappresentazione dell’alterità estremamente allettante veicolata attraverso fotografie e cartoline dal forte impatto emotivo:
«Ma… è che muoio dalla voglia di giacere con una bella abissina. A Roma ho trovato certe fotine che proprio mi hanno invogliato».
La bella abissina, la regina di Saba o ancora la Venere nera, un corpo languidamente adagiato, promessa di delizia ed abbondanza,
«Moretta che sei schiava tra gli schiavi, [...] faccetta nera, bell’abissina, aspetta e spera che già l’ora s’avvicina, [...] perchè la legge nostra è schiavitù d’amore».
Razzismi e sessismi che hanno modificato la percezione del corpo femminile nero e i cui esiti sono ancora impliciti nelle icone contemporanee normalizzate che ad uno sguardo superficiale risultano apparentemente innocue ma il cui significato originario è altamente offensivo e degradante.
«Ancora oggi, quando le modelle nere appaiono sulle riviste di moda e nella pubblicità, i loro corpi servono a rappresentare una sessualità selvaggia e animalesca. Queste immagini non sono poi così lontane dalle cartoline coloniali, che ritraevano le donne del Corno d’Africa col corpo seminudo, passivamente adagiato su pelli di animali, in pose attraenti e sensuali che lasciavano presupporre la loro disponibilità a soddisfare il desiderio sessuale dei soldati italiani» (Sabelli 2010: 110-111).
Adua vedrà il proprio corpo divenire teatro per la messa in scena di un tale immaginario, denigrata ed umiliata, si sentirà cantare «cento volte» Faccetta nera. «Sdraiata su una pelle di vacca mi mostro oscenamente a un mondo ignaro», «le mie unghie sono affilate come gli artigli di una fiera leonessa»: così verrà lanciata nel mondo cinematografico, interpretando Elo, la Femina Somala, citazione del romanzo coloniale di Gino Mitrano Sani, che ha per oggetto la relazione more uxorio, il madamato, tra un soldato italiano e una indigena e da cui emerge la rappresentazione della donna come essere inferiore, bestiale, oggetto da dominare e possedere. E così Adua, come migliaia di altre, verrà spogliata della propria interiorità, dall’essere donna diverrà oggetto, stereotipo, sarà Elo, fino a quando imparerà a narrarsi da sé, a raccontare, perchè solo questa sembra l’unica via per liberarsi e liberare.
Adua è un romanzo prezioso che restitusce tutta la complessità delle relazioni tra Somalia ed Italia. Se infatti da un lato assistiamo al persistere dell’immaginario coloniale, dall’altro vengono rese evidenti alcune delle contaminazioni apportate nei territori delle ex colonie, come i cambiamenti nel nome delle strade o le varie targhe commemorative “Per perpetua gloria di Roma” affisse sui monumenti o su quel cinema che attraverso i film muove la protagonista a sviluppare un attaccamento verso l’Italia e Roma, o ancora il riferimento a Gianni Morandi che Adua ascolta grazie a delle musicassette di contrabbando, o ancora la massiccia presenza di italiani a Magalo prima del golpe di Siad Barre. Ma è Piazza dei Cinquecento, quella piazza romana dedicata ai cinquecento soldati italiani caduti durante la guerra di Dogali nel 1887 e divenuta una «strana Somalia che era cresciuta nelle retrovie di quel quartiere ferroviario», a restituire metaforicamente tutto quel carico di senso e quella complessità nascosta nella relazione quasi carnale ed illegittima tra i due Paesi.
Stessa complessità viene restituita anche nel rapporto tra Adua e Titanic, un rapporto sentimentale e conflittuale: «Solo quando si arrabbia mi chiama Vecchia Lira. È così che i giovani Titanic chiamano le donne della diaspora. Usano nei nostri confronti la stessa violenza che noi usiamo nei loro. Non è bello chiamare un ragazzo che ha rischiato la vita in mare con il nome di una nave che è affondata. Una volta mio marito me l’ha pure detto: Io lo so che “Titanic” è un film dove tutti muoiono. Ma ricordati sempre che io non sono morto». Potremmo notare il tentativo di abbattere altri stereotipi, quelli che tendono a rappresentare la visione duale e manichea che separa i migranti, amalgama indistinta, da noi. La conflittualità interna ai membri della stessa comunità rivela quanto nella prassi le dinamiche siano molto più varie e complesse, ma soprattutto restituisce tutta la carica umana che i processi di stereotipizzazione appiattiscono. Stupisce Igiaba Scego con il suo romanzo che mentre destruttura i preconcetti riconsegna ai concetti inquinati i significati e ai soggetti offesi la dignità umana.
Dialoghi Mediterranei, n.17, gennaio 2016
Riferimenti bibliografici
Ciarapica G., Igiaba Scego ci racconta la sua «Adua», 15 ottobre 2015, http://thefielder.net/15/10/2015/igiaba-scego-ci-racconta-la-sua-adua/
Comberiati D., La quarta sponda: scrittrici in viaggio, Caravan edizioni, Roma, 2009
Proto Pisani A., «Igiaba Scego, scrittrice post coloniale in Italia», in “Italies [En ligne]”, 14| 2010: 427-449, consultabile al sito http://italies.revues.org/4042
Sabelli S., L’eredità del colonialismo nelle rappresentazioni contemporanee del corpo femminile nero, in “Zapruder. Storie in movimento. Brava gente. Memoria e rappresentazione del colonialismo”, a cura di Elena Petricola e Andrea Zoppi, n. 23, settembre-dicembre 2010: 106-115
Scego I., La ricostruzione dell’immaginario violato in tre scrittrici italofane del Corno d’Africa. Aspetti teorici, pedagogici e percorsi di lettura, tesi di dottorato, Università degli Studi Roma Tre, a.a. 2007/2008
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Annamaria Clemente, giovane laureata in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo, è interessata ai legami e alle reciproche influenze tra la disciplina antropologica e il campo letterario. Si occupa in particolare di seguire autori, tendenze e stili della letteratura delle migrazioni.
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