La rielezione del magnate Donald Trump a presidente degli Stati Uniti d’America mostra i tratti del potere inteso come gestione totalitaria. A quello politico ed economico si è unito, infatti, anche il potere digitale, che nell’ultimo decennio si è concentrato nelle mani di pochi colossi tecnologici. Un fenomeno che il direttore di Le Grand Continent, Gilles Gressani, ha già efficacemente definito “tecno-cesarismo”. Ad affiancare Trump ci sono, infatti, i due più potenti esponenti del “feudalesimo digitale”: Elon Musk e Mark Zuckerberg.
Il primo, fondatore di Tesla e proprietario di X, ha sostenuto economicamente e mediaticamente la corsa alla Casa Bianca di Trump. Non solo dollari, ma anche tweet contro gli avversari e per rilanciare ad esempio la campagna contro i migranti. Già nel 2022, dopo l’acquisto di Twitter, Musk decise di riattivare il profilo social di Trump, che era stato bloccato per “incitamento all’odio”, dopo l’assalto del 6 gennaio 2021 a Capitol Hill da parte di una folla di suoi sostenitori. Una decisione presa, a detta di Musk, in nome della “libertà di espressione”. Dal 20 gennaio è stato nominato capo del dipartimento dell’Efficienza governativa.
Zuckerberg, che governa invece la galassia digitale di Meta, si è perfino dovuto scusare con il 47° presidente degli Usa per averlo “bannato” nel 2021. Riammesso e risarcito, Trump sembra adesso perfino influenzare le politiche dei colossi digitali per quanto riguarda la moderazione dei contenuti. Sia X che Meta hanno recentemente deciso, infatti, di mettere fine al fact-checking: la verifica delle notizie diffuse tramite le piattaforme digitali. Una pratica che era stata introdotta per contrastare la disinformazione e il dilagare di fake news. Un processo di verifica che, valutando la fondatezza dei contenuti diffusi, aveva l’obiettivo di arginare anche la propaganda politica.
Adesso saranno gli utenti a dover verificare la veridicità delle informazioni pubblicate su Facebook, Instagram e X. Dove ormai da anni la disintermediazione consente agli esponenti politici, sia locali che nazionali, di fornire una narrazione dei fatti senza filtri, senza mediazione né verifica imparziale. Un’interazione diretta che favorisce inoltre la fidelizzazione di followers e aficionados.
Squarciato il velo della presunta neutralità tecnologica, i social media si mostrano dunque come strumenti al servizio del potere. Le informazioni diffuse rispondono sempre più a logiche dominanti e in grado di condizionare politicamente l’immaginario collettivo. Già tra il 2015 e il 2016 Facebook vendette a una società russa spazi pubblicitari utilizzati per influenzare l’opinione pubblica degli Usa in favore di Trump, che poi vinse le elezioni presidenziali del 2016.
Perché lo spazio, che sia reale o virtuale, non è mai un medium neutro. A teorizzarlo nel 1974 era stato il filosofo e geografo Henry Lefebvre che introdusse nel dibattito culturale i concetti di “spazi percepiti, spazi concepiti e spazi vissuti”. La “trialettica della spazialità” nella quale lo spazio non è più un semplice luogo di relazioni sociali ma è un fenomeno soggetto all’egemonia ideologica e all’uso politico. Consentendo agli utenti di esprimere le proprie opinioni, i social sono, infatti, diventati un’agorà virtuale. In cambio di palcoscenici su cui esibirsi, trattengono milioni di utenti all’interno di quello che Marc Augé chiama “lo spazio della surmodernità”, fatto di interazioni tra individui esposti alla “tentazione del narcisismo”. Perché partecipare ai sistemi di comunicazione elettronica è sentirsi parte di un network globale. E fa sviluppare un senso del luogo universale all’interno di una dimensione senza spazio. Quel fenomeno che il sociologo francese Jean Baudrillard ha definito “l’estasi della comunicazione”: l’abbandono del corpo in cambio di un’identità di superfice, fatta di schermi con uno slittamento alienante dall’essere all’apparire.
Effetto Trump tra egemonia digitale e polarizzazione
La strategia di comunicazione di Donald Trump è sfruttare al massimo la tendenza dei social alla polarizzazione del pensiero. Lo stile provocatorio e il linguaggio offensivo alimentano lo scontro, non il confronto. Le identità si strutturano così dentro una bolla costruita per somiglianza, al riparo dalla differenza. Estremizzare i toni del dibattito inoltre aumenta la fiducia dei sostenitori, ma anche la profondità del solco che separa dagli avversari. Nella visione dicotomica trumpiana non sono soltanto gli antagonisti politici, ma anche i media tradizionali, bollati come “nemici del popolo”. Nel mirino del presidente repubblicano è recentemente finita così anche l’agenzia di stampa Associated Press per essersi rifiutata di usare l’espressione “Golfo d’America” al posto di “Golfo del Messico”.
Trump punta, infatti, a delegittimare il giornalismo tradizionale e indipendente, minando la fiducia degli elettori nell’informazione. Una strategia che sembra incoraggiare bugie e diffusione di fake news sui social con l’obiettivo di alimentare i pregiudizi. Bypassando il ruolo dei giornalisti, sfrutta gli effetti della disintermediazione digitale e il meccanismo psicologico del “pregiudizio di conferma”, secondo il quale si tende a preferire le informazioni che rafforzano le proprie convinzioni. Perché il potere, come faceva notare Antonio Gramsci nel secolo scorso, può essere esercitato subdolamente e con più efficacia attraverso l’egemonia, ovvero la messa in atto di un’intensa opera di direzione culturale e politica delle masse. E quella a cui assistiamo oggi è un’egemonia digitale che, servendosi di algoritmi e intelligenza artificiale, è in grado di esercitare un controllo ideologico nei confronti degli utenti, rinchiusi dentro le camere dell’eco.
Bolle informative a tenuta stagna, dove non c’è spazio per la diversità di pensiero. Perché la logica algoritmica che governa le interazioni sui nuovi media, attraverso il monitoraggio dei comportamenti in rete, è perfettamente in grado di orientare gli utenti, radicalizzandoli. Perché all’interno dell’echo-chambers il rischio di imbattersi nell’alterità è scongiurato. Le opinioni e gli interessi trovano solo conferme perché circoscritte in un ambito più omogeneo, dove i processi aggregativi si basano sull’omofilia. La diversità, che però esiste, finisce col polarizzarsi e diventare motivo di scontro, non di confronto. Così sembra diminuire sempre più la tolleranza per il “diverso” e per lo “straniero”, percepiti come qualcosa di insopportabile perché minano l’identità.
La “bolla” diventa una sorta di tribù di appartenenza. Un clan esteso e virtuale che, se sollecitato, è in grado però di diventare reale e di entrare in azione: così come avvenne con l’irruzione a Capitol Hill nel 2021, quando Trump venne sconfitto alle elezioni presidenziali. Una folla formata prevalentemente da bianchi, piccoli e grandi commercianti, militanti di estrema destra, razzisti e utenti dei social che diffondevano teorie del complotto. Sedicenti “patrioti” accomunati dalla rabbia e dalla volontà di impedire con la forza la ratifica delle elezioni vinte da Joe Biden. Il bilancio fu di cinque morti e decine di feriti. Cinque anni dopo, Trump, al suo primo giorno da Presidente degli Stati Uniti d’America, ha concesso la grazia agli imputati per quell’assalto. Li ha chiamati “ostaggi”, come se fossero prigionieri di un nemico. Ed invece sono, in qualche modo, i suoi ostaggi. Prigionieri di quella polarizzazione che da anni il magnate statunitense foraggia e cavalca. Perché, come spiegava Gramsci, una massa umana non si «distingue» e non diventa indipendente «per sé» senza organizzatori.
Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025
Riferimenti bibliografici
M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano, 2009
J. Baudrillard, L’altro visto da sé, Costa & Nolan, Milano, 1997
A. Biscardi, – V. Matera, Antropologia dei social media, Carocci, Roma, 2019
A. Gramsci, La formazione dell’uomo, Editori Riuniti, Roma, 1969
M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano, 2003
D. Mcquail, Sociologia dei media, Il Mulino, Bologna, 1994
D. Miller, Come il mondo ha cambiato i social media, Ledizioni, Milano, 2018
W. Quattrocchi, – A.Vicini, Misinformation, Franco Angeli, Milano, 2016
M. Panarari, L’egemonia sottoculturale, Einaudi, Torino, 2010
G. Statera, Introduzione alla sociologia delle comunicazioni di massa, Seam, Roma, 1998
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Leandro Salvia, giornalista freelance, vicesegretario provinciale dell’Associazione siciliana della Stampa, si occupa di cronaca e cura inoltre la comunicazione mediale di progetti del Terzo settore. Ha studiato all’università di Palermo, dove ha conseguito la laurea magistrale in Studi storici, antropologici e geografici con una tesi su «Identità mediali, funzioni e narrazioni nell’era dei social media». È docente di Comunicazione nell’ambito della Formazione professionale e del Lifelong Learning. Si interessa, in particolare, dell’impatto che la fruizione dei media ha sui processi di apprendimento e sulla costruzione identitaria. Dal 2019, con l’associazione Kaleidos Cultura e Natura, cura laboratori di scrittura giornalistica e uso consapevole dei social media nelle scuole della provincia palermitana.
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