di Pietro Simone Canale
Nella Tariffa doganale siciliana si scoprono merci esotiche, magiche e rare, delle quali oggi si è persa memoria anche a causa dell’omologazione dei consumi.
Il 1° settembre del 1802 entrava in vigore nel Regno di Sicilia la Tariffa generale da osservarsi in tutte le dogane di Sua Maestà, a seguito di un’importante e radicale riforma del sistema doganale marittimo siciliano. Da quel momento in poi tutti gli amministratori, i secreti e gli ufficiali di dogana, dai pesatori al credenziere, dal canniatore, colui che si occupava di misurare e valutare stoffe e tessuti, al cassiere, dovevano applicare le indicazioni e i prezzi previsti dalla riforma. L’introduzione delle nuove norme prevedeva che, per ogni merce in uscita dall’Isola o in ingresso, fosse applicato un dazio di 18 grani e 4 piccoli per ogni onza di valore [1]. Questo era fissato per legge e si doveva fare riferimento soltanto a ciò che era scritto nella Tariffa. Nessun ufficiale poteva più valutare arbitrariamente le merci che transitavano dai porti siciliani o che venivano introdotte nelle città siciliane. Il documento, di cui se ne conserva una copia a stampa presso il fondo della Secrezia dell’Archivio di Stato di Palermo [2], è composto da una preliminare spiegazione della riforma doganale e da un lungo elenco, diviso per categorie merceologiche, in cui sono riportati ogni tipo di genere alimentare, spezia, materia prima, tessuto e manufatto che i doganieri avrebbero potuto trovare nelle casse in transito per le dogane di mare siciliane.
Fiscalità e commercio
Per gli Stati di antico regime i dazi imposti sul movimento delle merci e sul commercio erano un’entrata fondamentale. Le imposte indirette avevano, infatti, il grande vantaggio di rendere i sovrani indipendenti economicamente, o quasi, dalle aristocrazie e dai parlamenti e dal peso politico di questi. Pertanto, stimolare il commercio e renderlo sicuro voleva dire per lo Stato assicurare un incremento dei proventi dei dazi. In questo caso a sorprendere non è l’onnipresente fiscalità, bensì l’estrema varietà e quantità di merci che, alla fine del Settecento, in un momento in cui non erano ancora del tutto evidenti gli effetti della rivoluzione industriale sul commercio, viaggiavano di porto in porto su piccole tartane, agili brigantini, veloci feluche per gli spostamenti sotto costa, grandi sciabecchi e potenti e maestosi clipper.
Importazioni ed esportazioni in Sicilia alla fine del Settecento
Nella Tariffa erano segnate tutte le produzioni siciliane dell’epoca che venivano estratte per fuori regno, dalla seta all’olio d’oliva, a lungo indispensabile per la lavorazione nell’industria tessile, dal vino alla cenere di soda, ingrediente principale per la produzione del sapone, dagli agrumi ai prodotti delle tonnare, dallo zolfo [3] al sommacco, usato da concerie e tintorie per dare ai capi diverse tonalità di colore: dal nero all’azzurro-verde e dal rosso al giallo. Erano presenti, poi, le merci che entravano nell’Isola, portate da mercanti da ogni dove, genovesi, veneziani, positanesi, bagnaroti, come i Florio [4], inglesi, come i Woodhouse, gli Ingham e i Whitaker (per citare i più noti) [5], marsigliesi, levantini, olandesi, ragusei, ma anche greci, armeni, americani, danesi e norvegesi.
Sfogliando le pagine del documento saltano agli occhi allora nomi bizzarri, sostantivi dal significato oscuro, sostanze misteriose di sapore quasi alchemico, oggetti fuori moda. Questo documento potrebbe sembrare il catalogo di un emporio per stregoni e maghe ed è evidente che leggere nella Tariffa il prezzo del sangue di drago, dello sterco del diavolo o dell’unghia della gran bestia possa far sorgere qualche interrogativo e solleticare le più fervide fantasie. Alla fine del secolo dei Lumi, il secolo del trionfo della ragione, sembra strano leggere ancora di unicorni, pelli di topo, occhi di granchio, polveri d’osso di cervo ed elitropia. Eppure, questi nomi bizzarri non devono stupire: talismani, medaglioni, polveri curatrici, intrugli con qualche presunta proprietà magica erano e sono ancora oggi un aspetto della cultura contadina e del folklore magico-religioso, ma erano anche merci immancabili nell’inventario della bottega di uno speziale. Un’interessante raccolta di questi reperti, ad esempio, si trova oggi nella collezione “Giuseppe Bellucci” del Museo archeologico di Perugia. Credenze popolari e rimedi pseudo-farmaceutici erano oggetto di commercio ancora nel XIX (e grazie all’e-commerce ancora oggi).
Valutata al prezzo di sei tarì, un’unghia della gran bestia poteva essere acquistata per le sue doti curative contro l’epilessia, e utilizzata portandone un frammento appeso al collo o all’anulare sinistro «che ha dritta corrispondenza al cuore». Altro non era che un pezzo dello zoccolo dell’alce, animale che si credeva affetto dal mal caduco [6]. Lo sterco del diavolo, o assafetida, è invece una sostanza resinosa «d’un’odor fetente, avvicinantesi all’aglio, ma più gagliardo, e dal gusto amaro, acre e mordente» [7], ricavata dalla pianta del laserpizio, proveniente dalla Persia e commerciata in Sicilia principalmente dagli inglesi. Questa droga era reperibile presso le botteghe degli speziali come rimedio nelle «coliche flatulenti, e nelle malattie isteriche», ma anche nella cura dei tumori e nei problemi di traspirazione.
Il sangue di drago, utilizzato per creare vernici e rudimentali paste dentifrice e commerciato prevalentemente dagli olandesi, è invece il nome generico dato ad alcuni estratti di piante tropicali di consistenza gommosa reperiti in diverse parti del mondo, dal Madagascar alle Canarie, al Brasile. Il nome bizzarro deriva dal colore rosso della sostanza che sgorga dalle incisioni fatte sulla corteccia dell’albero cosiddetto “drago” [8]. Occhi di granchio sono impropriamente dette quelle escrescenze nel carapace dei granchi di fiume ed erano ritenute in grado di purificare il sangue, curare i reni ed attenuare il vomito [9].
La commercializzazione di queste merci non deve meravigliare, ma fare riflettere piuttosto sulla complessità dei rapporti commerciali, sulla rete degli scambi che non risparmiavano già allora nessun luogo della Terra. In Sicilia si potevano acquistare il sanglarcano e la porcellana cinese, la polvere d’unicorno (di corno di rinoceronte) proveniente dall’isola di Sumatra, i fiori dell’elleboro del Centro Europa come rimedio per la follia, il sassafrasso dell’America Settentrionale, gli allucinogeni funghi di Malta o l’elitropia, «pietra di troppo gran vertù», della celebre novella di Calandrino. Allo stesso modo i prodotti siciliani venivano commercializzati altrove, dai pistacchi agli aranci, dal grano al vino ad uso madeira, che poi sarebbe diventato il marsala, consumato negli avamposti della marina britannica [10], dai prodotti delle tonnare [11] alla pasta di regolizia (liquirizia), dalle mandorle e dalla seta [12] alla cenere di soda. È questo uno degli aspetti più interessanti dell’età moderna.
Protoglobalizzazione e globalizzazione
Con le scoperte geografiche ebbe inizio lo scambio su lunghe distanze anche di merci non preziose in grandi quantità. Ciò modificò irrimediabilmente, non solo l’economia, ma anche i consumi, gli usi e le consuetudini della popolazione europea. Si pensi alla commercializzazione del tè, dello zucchero e del cotone [13]. Non a caso alcuni storici parlano di «protoglobalizzazione» nell’età moderna. È quindi inevitabile fare riferimento alla globalizzazione, ossia quel processo di integrazione che interessa le economie, le culture e il costume dell’intero pianeta. Tuttavia, il più delle volte, soprattutto nel parlare comune e nella diffusione mediatica, il termine viene usato in maniera errata o fuorviante, collegandolo o sovrapponendolo a omologazione, ma, esaminando attentamente il processo di globalizzazione, ci si rende conto quanto sia controvertibile questa associazione di parole. Il «rimpicciolimento odierno del pianeta» [14], avvenuto attraverso la rivoluzione dei trasporti e l’avvento dell’Internet, non è di per sé sinonimo di omologazione.
Omologazione, perdita e impoverimento lessicale
È bene dunque non semplificare troppo. Che sia facile oggi trovare merci e generi alimentari provenienti da ogni parte del mondo negli scaffali dei negozi nei quartieri delle nostre città è evidente. Eppure, paradossalmente le nostre scelte sui consumi si impoveriscono a causa di un’omologazione della domanda che porta ad ignorare le possibilità che la varietà generata dalla globalizzazione offre. Tutto ciò è forse più spesso legato a modelli e non a reali vantaggi economici. E, sebbene l’abbondanza contraddistingua il commercio e i consumi, appare venire meno la vivacità garantita dalla diversità, dalla biodiversità e dalla varietà. Basta dare un’occhiata all’elenco dei prodotti di seta e di lana contenuti nella Tariffa per rendersi conto della ricchezza di stoffe, tagli, lavorazioni in commercio ancora nel secolo scorso.
Che cosa è rimasto dell’amuerre di seta, del tabì di Bagdad, del castorino, del telittone, delle spichette, dei droghetti, della terzanella, delle tele di Kalikut, dei calancà, del buratto, della stamina, del barracano di pelo di cammello, degli albagi per i cappotti da sentinella e del dobletto di lino? L’omologazione provoca anche a un senso di perdita e impoverimento, così come l’incapacità di cogliere le caratteristiche e le qualità intrinseche dei prodotti che consumiamo, poiché non ne conosciamo, il più delle volte, la composizione, i modi di produzione e le vie percorse per giungere a noi.
Dialoghi Mediterranei, n. 51, settembre 2021
Note
[1] La moneta siciliana è l’onza di 30 tarì. Un tarì è di 20 grani, mentre il grano è di sei piccioli o piccoli.
[2] Archivio di Stato di Palermo, Secrezia, b. 2012, Tariffa generale.
[3] Sullo zolfo siciliano si veda la recente pubblicazione F. La Manna, «Usque ad coelum, usque ad inferos». Dal feudo all’allodio: la legislazione borbonica sulle miniere di zolfo, «Mediterranea. Ricerche storiche», 52 (2021): 445-466.
[4] Sul caso dei Florio originari di Bagnara si veda R. Giuffrida-R. Lentini, L’età dei Florio, Palermo, Sellerio editore, 1985: 17-28.
[5] Sul commercio degli inglesi in Sicilia rimando a M. D’Angelo, British trade and merchants in the Mid-Mediterranean. An alternative market during the napoleonic wars, in C. Vassallo-M. D’Angelo (a cura di), Anglo-Saxons in the Mediterranean. Commerce, Politics and Ideas (XVII-XX Centuries), Malta, University Press 2007: 97-114; R. Lentini, British merchants and goods in Palermo (1797-1816), in M. D’Angelo-G. Harlaftis-C. Vassallo (a cura di), Making waves in the Mediterranean. Sulle onde del Mediterraneo, Messina, Istituto di studi storici “Gaetano Salvemini”, 2010: 651-667; Id., La presenza degli Inglesi nell’economia siciliana, in R. Trevelyan, La storia dei Whitaker, Palermo, Sellerio, 1988: 115-146.
[6] A. Bacci, Le XII pietre preziose. Le quali per ordine di Dio nella santa legge adornavano il manto del gran sacerdote secondo la interpretazione di S. Ieronimo e S. Epifanio arcivescovo di Cipri, Roma, Appresso Giovanni Martinelli, 1587: 111-130.
[7] Dizionario di commercio dei signori fratelli Savary, che comprende la cognizione delle merci d’ogni paese; ovvero i principali, e i nuovi articoli risguardanti il commercio, l’economia rurale, le finanze, le arti, le manifatture, le fabbriche, la mineralogia, le droghe, le piante, le gemme ec. ec., accresciuto di varj importantissimi articoli, tratti dall’Enciclopedia, e dalle Memorie dell’accuratissimo mr. Garcin, ec., Tomo 1: AB-CL, Venezia, presso Giambatista Pasquali, 1770-1771: 111-113.
[8] ivi, 1771: 79-81.
[9] M. D’Angelo, Il commercio delle droghe in Sicilia. Una bottega messinese nel 1807, «Archivio Storico per la Sicilia Orientale», 78 (1982): 57-86.
[10] R. Lentini, Sicilie del vino nell’800. I Woodhouse, gli Ingham-Whitaker, il duca d’Aumale e i duchi di Salaparuta, Palermo, Palermo University Press, 2019.
[11] Id., Economia e storia delle tonnare in Sicilia, in V. Consolo, La pesca del tonno in Sicilia, Palermo, Sellerio editore, 1986: 32-56.
[12] S. Laudani, La Sicilia della seta. Economia, società e politica, Catanzaro, Meridiana Libri, 1996; A. Morreale, Manifatture di seta a Palermo. Baroni e mercanti, filatori e tessitori, mastre e lavoranti (1550-1650), Palermo, Torri del Vento, 2021.
[13] M. Fusaro, Reti commerciali e traffici globali in età moderna, Roma-Bari, Laterza, 2008.
[14] D. Harvey, La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano 1993: 295-296.
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Pietro Simone Canale, dottore di ricerca in “Studi storici, geografici e delle relazioni internazionali” dell’Università del Salento. Attualmente è insegnante di filosofia e storia al liceo. Ha pubblicato per «Itinerari di ricerca storica», la e-review «Mediaeval Sophia», e altre riviste.
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