Questo breve saggio si propone di presentare un quadro d’insieme dei flussi migratori verso l’estero verificatisi nel periodo fascista. Viene esaminata distintamente l’esperienza migratoria nell’Africa Orientale Italiana (Somalia, Eritrea e Etiopia) e quella in Libia. Si chiude con una valutazione del progetto (realizzato dal regime fascista ma concepito in data anteriore) di utilizzare le colonie come sbocco al surplus demografico dell’Italia di allora.
La riflessione sulla colonizzazione durante il periodo fascista e sul suo intreccio con l’emigrazione fu preceduta dai seguenti eventi: la presenza italiana in Eritrea, iniziata nel 1882; il protettorato italiano in Somalia prima nel periodo 1889-1908, poi diventato occupazione coloniale; le sconfitte subìte da parte dell’esercito etiope nel 1895 e nel 1896 presso Adua, quindi l’occupazione nel 1936 con la costituzione dell’Africa Orientale Italiana e la proclamazione dell’Impero, l’occupazione della Libia nel 1911 e la sua trasformazione in colonia (cfr. Gian Luca Podestà, L’emigrazione in Africa Orientale, con un’ampia bibliografia, http://www.ilcornodafrica.it/rds-01emigrazione.pdf).
L’occupazione coloniale di territori africani da parte dell’Italia avvenne quando altre nazioni europee avevano già stabilito il loro dominio: i francesi intervennero nel 1830 in Algeria e nel 1881 imposero il loro protettorato in Tunisia e Marocco, gli inglesi nel 1882 si affermarono in Egitto.
L’emigrazione nel periodo fascista (1922-1942)
Dopo la fase della grande emigrazione di massa a cavallo tra Ottocento e Novecento, nel periodo compreso tra le due guerre mondiali le migrazioni internazionali diminuirono e così anche i flussi degli italiani verso l’estero. Da un lato, complice la grande crisi degli anni ’30, i tradizionali Paesi di accoglienza approvarono leggi restrittive, come gli Stati Uniti con il Quota Act (1921 e 1924) che penalizzò le provenienze meridionali degli emigranti. D’altro lato, anche il regime fascista impose forti limitazioni all’esodo definitivo, mostrando di preferire i flussi a carattere temporaneo e prevedendo pene, con una legge del 1931 – una pena da 1 a 5 anni di carcere – e in più una multa, per chi istigava all’emigrazione con promesse false o avviando verso mete diverse da quelle volute dagli interessati.
Il numero medio degli espatri fu di 382 mila unità nel decennio 1911-1920 (nonostante l’interruzione durante gli anni di conflitto bellico dal 1916 al 1918) e poi scese a 285 mila nel decennio 1921-1930 e a 70 mila nel decennio 1931-1940. Protagonisti furono in prevalenza gli abitanti del Meridione (diretti in prevalenza oltreoceano), mentre la popolazione dell’Italia del Centro e del Nord-Est preferiva le destinazioni europee (la Francia era lo sbocco principale). Si trattava per la stragrande maggioranza di maschi con un basso livello di istruzione. Anche i profughi politici si diressero maggiormente verso le Americhe (Stati Uniti, Brasile e Argentina). In quel periodo fu molto importante la Prima Conferenza Internazionale dell’Emigrazione, che si svolse a Roma nel 1924 con la partecipazione di 58 Stati e l’obiettivo di promuovere l’adozione di una più adeguata regolamentazione giuridica.
La tendenza alla riduzione dei flussi in uscita conobbe due eccezioni. Da una parte, per diminuire la pressione demografica andarono incrementandosi gli espatri verso le colonie italiane in Africa: e questo è l’oggetto di approfondimento del presente articolo. D’altra parte, la preoccupante situazione economica portò nel 1930 a sottoscrivere un accordo con la Germania per trasferirvi mezzo milione di italiani. Tra il 1939 e il 1942 si ebbe anche un aumento dei rimpatri.
L’esperienza migratoria nell’Africa Orientale Italiana
Dopo la sconfitta di Adua vennero varate regolamentazioni intese a scoraggiare l’arrivo in colonia di disoccupati, nullatenenti e anche avventurieri interessati a sfruttare il governo e gli indigeni. Svariati erano i mestieri degli italiani che si recavano nelle colonie, a partire dagli agricoltori. Nel periodo 1893-1895, nei territori già occupati, vennero curate coltivazioni tropicali come cotone, ricino, sisal, caffè e altri prodotti, utilizzando circa 314 mila ettari coltivabili. Vi erano poi artigiani, minatori, commercianti, operai specializzati e impiegati. L’80% circa degli operai era composto da manovali destinati ai lavori nelle opere pubbliche, mentre per la restante quota si trattava di autisti, portuali, muratori e addetti a varie industrie. Molti si riciclavano professionalmente per operare come piccoli imprenditori edili e cercavano di ottenere in appalto parte dei lavori necessari per le opere pubbliche.
Chi intraprendeva un’attività autonoma aveva grande inventiva e spirito di adattamento. Occupati in esercizi di piccole dimensioni, si trovavano sul posto anche impiegati delle banche, delle assicurazioni, delle imprese industriali e commerciali (complessivamente alcune decine di migliaia).
I lavori di manovalanza più dura venivano svolti esclusivamente dalla popolazione autoctona, stimata nell’Africa Orientale Italiana da alcuni storici fra gli 8 e i 12 milioni; da altri, più probabilmente, si trattava di 15- 20 milioni di persone. Secondo stime governative i civili italiani residenti nell’Impero (esclusi i militari, quindi), nell’agosto 1939, erano tra i 140 e 213 mila.
I primi a recarsi nell’Africa Orientale Italiana (alla fine dell’estate 1935), furono i contingenti degli operai che accompagnavano le truppe e si occupavano di costruire strade e altre opere pubbliche. Questi lavoratori, formati dal Commissariato per le Migrazioni e la Colonizzazione, provenivano dalle regioni a più alta densità demografica e maggiormente colpite dalla disoccupazione: in prevalenza dall’Emilia Romagna (patria del duce), la Sicilia, la Calabria e la Puglia (regione del segretario del partito Starace). Gli operai erano reclutati prevalentemente fra i braccianti agricoli ed erano privi di quelle capacità che avrebbero potuto essere utilizzate nel settore manifatturiero. Il trattamento economico di chi si recava nelle colonie era sensibilmente superiore ai livelli praticati in Italia, come attestato dai consistenti risparmi da loro depositati in banca, favoriti anche dalle scarse opportunità di spendere i soldi in loco. Dal 1937 gli operai impiegati nella costruzione delle opere pubbliche furono progressivamente rimpatriati e sostituiti da lavoratori indigeni. Anche gli autoctoni ricevevano retribuzioni apprezzabili, specialmente se in possesso di qualche abilità artigianale.
L’Eritrea e la città di Asmara
Ad Asmara, nel 1905, gli italiani erano 2.333 (di cui 834 militari), quasi tutti maschi e ciò favoriva il fenomeno del «madamismo», per cui gli italiani vivevano more uxorio con donne indigene. Solo dopo, con la prevalenza dei progetti stabili iniziarono i ricongiungimenti familiari e le donne arrivarono a incidere per un terzo sull’intera popolazione italiana. Al 31 dicembre 1935 Asmara contava una popolazione italiana di circa 4 mila unità, mentre quella africana si aggirava sulle 12 mila unità. All’inizio del 1939 gli italiani erano oltre 48 mila, mentre gli indigeni erano oltre 36 mila.
Asmara era diventata un vero e proprio polo di sviluppo dell’Impero fascista. Nuclei consistenti di italiani rimasero soprattutto in Eritrea (e in misura minore in Somalia), anche dopo la fine della guerra fino agli anni Settanta, quando la situazione politica del Corno d’Africa si aggravò.
La Somalia e il centro di Mogadiscio
Finito il primo conflitto mondiale, l’Italia, dopo un iniziale periodo di disinteresse, dedicò maggiore attenzione alla Somalia. Nel 1920 il principe Luigi di Savoia, duca degli Abruzzi, fu il promotore di una grande iniziativa di investimenti attraverso la Società Agricola Italo-Somala, sorta espressamente per valorizzare l’area dello Uebi Scebeli. Non mancava nei promotori dell’iniziativa l’intento di favorire l’emigrazione italiana, previa la formazione dei candidati all’espatrio. Nacquero una serie di piccole e medie aziende agricole, favorite dal fatto che le banane venivano commercializzate in regime di monopolio di Stato. Un problema serio fu quello di poter disporre in maniera adeguata di manodopera locale, che non mostrava alcuna propensione a lavorare per le aziende italiane. Gli abitanti della colonia erano circa 500 mila. Erano pochi gli italiani che decidevano di trasferirsi in Somalia e di restarvi: successivamente, venne loro imposta la permanenza presso l’azienda agricola.
L’amministrazione municipale di Mogadiscio iniziò a operare nel 1936. Qui gli italiani, al 31 dicembre 1939, risultarono essere 24 mila unità, mentre gli autoctoni erano circa 60 mila.
L’Etiopia e la capitale Addis Abeba
Un caso particolare fu quello di Addis Abeba. Si concepì inizialmente un piano regolatore grandioso: al centro gli uffici amministrativi, poi le residenze degli italiani, poi distanziate da un parco quelle degli indigeni. Parteciparono all’elaborazione del progetto anche ingegneri e architetti di fama internazionali come Le Corbusier (del quale si conserva un bozzetto). Il nuovo centro doveva essere un simbolo della potenza della nuova Italia fascista. Addis Abeba, scelta come capitale dell’Impero, avrebbe dovuto divenire, secondo il duce, la più bella e avveniristica città dell’Africa, il faro della nuova civiltà fascista. Mussolini stesso approvò nel 1939 la versione definitiva del progetto, che era simile a quello realizzato alcuni decenni dopo nella Repubblica Sudafricana. Comunque, il piano non decollò perché la guerra causò l’interruzione di tutti i lavori in corso. Alla data del 24 ottobre 1939 la popolazione italiana era pari a 35.441 unità, di cui solo 5.209 le donne (14,7%). Oltre agli italiani vi erano 1500 stranieri. La popolazione autoctona era stimata a circa 124 mila unità.
Il 5 novembre 1911 la Libia passò sotto la sovranità dell’Italia e si pose fine all’occupazione ottomana stabilita dal 1551 (Cfr. Franco Pittau, Antonio Ricci, La Libia e i flussi migratori. Da paese di insediamento a paese di smistamento, in Idos, Circolo di Studi Diplomatici, “Mediterraneo: geopolitica, migrazioni e sviluppo. Scenari attuali, statistiche, prospettive”, in Affari Sociali Internazionali nn. 33-4/2025: 114-127). I primi trasferimenti di italiani diretti verso l’oasi di Tripoli, avvennero già nel 1911. Flussi più consistenti si determinarono dopo il conflitto mondiale, specialmente a partire dal 1925, favoriti dall’acquisizione da parte del demanio dei terreni incolti.
Il Regio decreto del 7 giugno 1928, n. 1695, stabilì facilitazioni per le concessioni agricole, pastorali e industriali in Tripolitania e in Cirenaica, subordinate però all’impiego di famiglie contadine italiane.
Il Regio decreto del 29 luglio 1928, n. 2433, dispose l’erogazione di contributi statali a favore della colonizzazione demografica in quelle aree. Il rapporto di lavoro con le imprese del settore agricolo venne successivamente stabilito per legge tramite contratti-tipo (per mezzadri, salariati compartecipanti, operai fissi, avventizi, ecc.).
L’industria conobbe, invece, in Libia uno sviluppo molto limitato: la più grande azienda industriale è la Manifattura tabacchi di Tripoli con circa 200 operai e una produzione annua di circa mezzo milione di chilogrammi. Maggiore attenzione venne dedicata al settore agricolo, nonostante le difficoltà che esso comportava. Le condizioni ambientali erano tra le più dure, perché caratterizzate da una scarsa piovosità e dalla mancanza pressoché totale di idrografia. Nell’estate del 1936 le mandrie dei libici vennero trasportate via mare dalle autorità italiane perché un’eccezionale siccità ne minacciò l’esistenza. Nonostante le avverse condizioni, la tenacia del lavoro italiano ebbe la meglio: «Nel 1933 lavoravano in Tripolitania oltre 1.500 famiglie di agricoltori con fattorie, aziende piccole, medie ed anche di grande estensione» (V. Briani, Il lavoro italiano in Africa, Ministero degli Affari Esteri, Roma, 1980: 120; Ministero Affari Esteri, Aspetti e problemi dell’emigrazione italiana all’estero nel 1967, IPZS).
A partire dal 1937, per effetto delle concezioni politico-militari dell’epoca, si attuò una colonizzazione contadina intensiva che, nel biennio 1938-1939, vide 20 mila coloni trasferirsi dall’Italia; contemporaneamente vi fu un massiccio intervento nel settore delle infrastrutture. La comunità italiana continuò a crescere e nel 1939 è stimata nell’ordine di 110 mila persone (circa il 15% della popolazione totale). Non si mancò di dedicare particolare cura all’attrezzatura sanitaria, prima pressoché inesistente, allestendo e rendendo operativi 7 centri ospedalieri, 10 infermerie e 80 ambulatori, talvolta anche nelle più piccole località abitate.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale
Dopo i drammatici eventi del secondo conflitto mondiale, che posero fine all’occupazione italiana, trascorsero sei anni prima che la Libia potesse accedere all’indipendenza. Nel periodo dal 1949 al 1951 venne retta da un commissario delle Nazioni Unite, con la risoluzione n. 288/V del 15 dicembre 1950 dell’Assemblea Generale dell’Onu, la cui applicazione prevedeva la salvaguardia dei beni mobili e immobili degli italiani. Il punto venne ripreso anche nell’accordo italo-libico del 1955, ratificato in Italia con la legge del 17 agosto 1957 n. 843, che regolava le questioni pendenti, incluso un risarcimento alla Libia da parte italiana. Quindi, il 24 dicembre 1951 venne proclamata l’indipendenza sotto forma di monarchia federale delle province di Cirenaica, Tripolitania e Fezzan. Il Paese venne accolto nella Lega Araba nel 1952 e nelle Nazioni Unite nel 1956. Il 27 aprile 1963 la Libia diventò uno Stato unitario.
In un primo periodo il nuovo Stato (1.759.740 chilometri quadrati con una bassa densità di popolazione) si rivelò estremamente povero di risorse e bisognoso dell’aiuto esterno. A partire dai primi anni sessanta, la scoperta di consistenti giacimenti di petrolio e il loro sfruttamento portò la Libia ad essere uno dei più grandi produttori nel mondo, si spopolarono le campagne, vennero costruiti oleodotti e gasdotti e si liberarono delle risorse da investire nel settore delle infrastrutture e dei lavori pubblici. Quindi, all’inizio degli anni settanta, si determinò un sostanziale cambiamento nella direzione politica del Paese, destinata a esercitare la sua influenza anche sui flussi migratori.
Dopo l’accesso all’indipendenza la collettività italiana rimase consistente, anche se diminuita rispetto al passato: 47 mila nel 1954, 42 mila nel 1956, 38 mila nel 1958, quasi tutti residenti nella Tripolitania, per circa la metà nei centri urbani (e specialmente a Tripoli, la città più popolosa). Si trattava di agricoltori, commercianti, artigiani, addetti a piccole attività industriali e professionisti. Nel 1960 l’area coltivata da agricoltori italiani ammontava a circa 210mila ettari, pari al 55% della terra più adatta all’utilizzazione agricola (383mila ettari).
Nel dopoguerra risultò, invece, notevolmente diminuita la presenza degli ebrei: questi, che erano 28 mila nel 1936, erano appena 5 mila nel 1954, essendo la maggior parte di essi emigrati verso il nuovo Stato di Israele. Negli anni sessanta i rimpatri dalla Libia prevalsero sugli espatri (una tendenza questa comune a tutta l’Africa). La maggior cura delle autorità italiane in quegli anni consistette nel coordinare le attività a favore dei profughi e dei rimpatriati dai Paesi africani al fine di facilitare il loro reinserimento, di cui si occupò la legge del 4 marzo 1952, n. 137 e quindi la legge del 25 febbraio 1963, n. 319.
A partire dal 1965 cominciarono a verificarsi nuove caratteristiche nei flussi migratori. In quell’anno, «su una popolazione totale di circa 1 milione 500 mila abitanti nel Regno di Libia, la collettività italiana contava circa 26mila unità, in prevalenza concentrata nella circoscrizione consolare di Tripoli, composta per la maggior parte di vecchi coloni e proprietari agricoli e, per il resto, da imprenditori industriali, impiegati, professionisti, commercianti, artigiani e operai. Nel complesso le loro condizioni erano soddisfacenti, favorite anche dalla prosperità che il Paese stava attraversando» (Ministero Affari Esteri, Aspetti e problemi dell’emigrazione italiana all’estero nel 1967, IPZS, Roma, 1968: 56).
Nel 1965 aumentò il numero degli italiani alle dipendenze di imprese italiane operanti in Libia per l’attuazione di grandi opere pubbliche. Vennero anche avviati negoziati per regolare le questioni assicurative ancora pendenti. Lo stesso anno invece fece mancare la tranquillità ai cittadini italiani di religione ebraica: a Tripoli scoppiarono numerosi incidenti che provocarono danni alle loro proprietà, per cui molti preferirono rimpatriare. Nel 1968 26.825 lavoratori risultavano alle dipendenze delle imprese italiane, di cui ben 23 mila nella circoscrizione di Tripoli, dove erano numerose e importanti le commesse loro affidate: ad esempio, per l’ampliamento dei porti di Tripoli e di Homs, la costruzione di silos, acquedotti, ospedali, case popolari ed edifici vari.
Il dinamismo migratorio subì un arresto nell’anno successivo. Infatti, nel 1969 vi fu il golpe militare guidato dal colonello Gheddafi. Nel 1970 vennero confiscate tutte le proprietà appartenenti agli italiani e ai membri delle collettività straniere venne chiesto di lasciare il Paese. Si attuò la nazionalizzazione dei beni con la confisca di fabbriche, officine, aziende commerciali e industriali possedute. In quell’anno rimpatriarono 20 mila italiani, costretti a rinunciare ai frutti di un duro lavoro durato mezzo secolo. Rimasero sul posto solo le imprese italiane con i loro dipendenti (1.350 persone).
Nel 1977 entrò in vigore in Libia un nuovo ordinamento statale definito “Stato socialista delle masse” e, nell’anno successivo, vennero nazionalizzate anche le case. Nel 1981 gli italiani, circa 16 mila, si configuravano come una comunità di tipo nuovo. Si trattava in prevalenza di personale al seguito delle aziende, più equamente insediati tra Tripoli e Bengasi, all’ottavo posto tra le comunità straniere sul posto, la prima tra quelle occidentali. Nel 1986, a seguito di un embargo governativo, la comunità italiana si ridusse a un terzo. Negli anni ’90 furono intense le relazioni bilaterali e una fruttuosa collaborazione portò alla sottoscrizione di un accordo di amicizia e di collaborazione nel 2008, ma nel Paese iniziò la guerra civile sotto l’impulso degli estremisti islamici e poi seguirono periodi di embargo internazionale, una vera e propria azione bellica contro il colonnello Gheddafi che esitò nella sua uccisione nel 2011, l’inasprimento della guerra civile, il tentativo finora non riuscito di trovare una composizione tra le varie fazioni e il coinvolgimento di trafficanti di manodopera libici nei flussi migatori diretti verso l’Italia in provenienza da diversi Paesi del Sub-Sahara
Le colonie come sbocco migratorio: una valutazione complessiva
L’emigrazione, inizialmente trascurata nell’occupazione coloniale, venne poi ritenuta molto importante (unitamente agli interessi commerciali e politici che coinvolgeva), perché, specialmente con riferimento alla Libia, si pensava che le terre occupate avessero la possibilità di accogliere un gran numero di emigrati italiani. Questa fu la tesi sostenuta da Agostino Depretis (dal 1876 al 1887 più volte presidente del Consiglio dei ministri). Sulla stessa linea si collocò anche Francesco Crispi, presidente del Consiglio nel periodo 1893-1896, che fu poi apprezzato dal fascismo come un anticipatore in ragione della sua volontà di annettere l’Etiopia all’Italia, per deviarvi i flussi degli emigrati italiani in corso verso l’America. Queste attese, però, non erano state basate su studi di fattibilità: il divario tra le aspettative e la realtà si scoprì sul posto quando si constatò che la maggior parte delle risorse messe a disposizione dall’Italia erano necessarie per la copertura delle spese militari.
Neppure la disastrosa sconfitta di Adua fece venire meno il sogno coloniale, anche perché nella prima decade del XX secolo l’esodo degli italiani raggiunse il suo apice. Si trattava di una sorta di imperativo categorico, condiviso da politici e studiosi, tutti convinti che nelle colonie si potesse arrivare all’autosufficienza alimentare e, anzi, produrre anche un surplus da collocare nei mercati esteri. Il presidente del Consiglio, Francesco Saverio Nitti (1919-1920) sottolineò che, per uscire dalla crisi conseguente alla prima guerra mondiale, l’Italia era chiamata a risolvere due problemi gravissimi: la carenza di materie prime e l’eccesso di manodopera.
Dopo la conquista dell’Etiopia e la proclamazione dell’impero (9 maggio 1936), il regime fascista precisò il suo piano di colonizzazione demografica, ritenuto non assimilabile a quello delle altre potenze coloniali. Non si poteva concepire la creazione dell’impero fascista senza un’emigrazione attraverso lo spostamento di una massa di italiani, destinati ad aumentare fino a superare la popolazione autoctona. Si ritenne che questa nuova concezione dell’Italia oltremare fosse portatrice di civiltà, motivo per cui i coloni dovevano possedere speciali qualità fisiche e soprattutto spirituali sull’esempio dei coloni dell’Impero romano.
Il nuovo Impero voluto dal fascismo veniva considerato lo strumento per conseguire questi valori, basati sulla consapevolezza in concreto abbastanza scarsa se si tiene conto dei frequentissimi rapporti sessuali con le donne del posto. A partire dal 1938 Mussolini decise di rallentare il processo di colonizzazione, sia per non incrementare la rivolta della varie bande di ribelli e sia anche perché non vi erano più risorse disponibili per sostenere i nuovi arrivi.
L’emigrazione in Africa consentì di alleviare parzialmente (non nella misura sperata) il livello di disoccupazione in Italia. Il modello di colonizzazione demografica avrebbe potuto perdurare (peraltro non per lungo tempo) solo con un forte intervento della spesa pubblica. Alla fine il governo fascista ridusse gli investimenti e sollecitò maggiormente uno sviluppo capitalistico che non pesasse sui fondi pubblici. Guardando i fatti, a posteriori, si conferma la convinzione che non era possibile favorire con la colonizzazione una emigrazione di massa. Era più realistico, invece, gestire una colonia economica di tipo classico, con un certo numero di italiani a dirigere le maestranze locali e la prospettiva di collocare all’estero gran parte dei prodotti. Il sogno di una “nuova Italia d’oltremare” era irrealistica, contrastata inizialmente dai fattori critici incontrati in loco e poi spazzata via dalla conquista dell’indipendenza degli ex territori coloniali.
Conclusioni
Lo studio dei flussi migratori verso le colonie italiane nel periodo fascista mostra che i trasferimenti, pur non essendo stati pari alle attese iniziali, furono tutt’altro che trascurabili anche se costosi per le finanze pubbliche e dagli effetti non duraturi in quanto legati al colonialismo, destinato a finire dopo la seconda guerra mondiale. Spicca una distinzione tra gli insediamenti realizzati nell’Africa Orientale Italiana, quasi del tutto scomparsi subito dopo il conflitto mondiale, e quelli in Libia, rimasti per un periodo non trascurabile attraverso i pionieri di quella emigrazione e poi continuati con i flussi al seguito delle aziende italiane chiamate a occuparsi delle infrastrutture e dell’estrazione del petrolio in quel Paese.
Gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso risultano fortemente segnati dal ritorno dei profughi dagli ex territori coloniali e negli anni ’70 è iniziato anche il movimento migratorio in senso inverso, caratterizzato da nordafricani e originari del Corno d’Africa venuti in Italia non solo come lavoratori ma anche come richiedenti asilo. Uno scenario, quindi completamente ribaltato!
La Libia è implicata in questo nuovo scenario non come Stato da cui si emigra bensì come terra attraverso la quale passano i migranti di altri Paesi interessati a raggiungere l’Europa. In questo contesto si richiedono nuove politiche migratorie, che l’Unione Europea e i singoli Stati membri fanno fatica a elaborare, tenendo conto che all’Europa è vicino il continente africano e in particolare la sponda sud del Mediterraneo. Anche dal periodo qui esaminato, come dall’intera storia dell’emigrazione italiana, ricaviamo degli spunti utili innanzi tutto per considerare il fenomeno migratorio costitutivo dell’esperienza dei popoli e, quindi, per studiare previsioni a medio termine che superino le emergenze e siano durature nei loro effetti.