Organizzazioni criminali, impunità, complicità, governo urbano
Ambientato in una “terra di mezzo” tra bene e male, dove la morale si sgretola, come fosse soggetta a un’inondazione o a un terremoto, Emilia Pérez, libero adattamento del romanzo Écoute di Boris Razon del 2018, decimo film del regista e sceneggiatore francese Jacques Audiard, presentato al 77º Festival di Cannes (nel 2024, e vincitore del premio della Giuria [1]), si apre con un’immagine di Ciudad de México, global city di classe Alpha [2], dal 2016 nota come Cdmx, abitata da più di 9 mln di persone (nel 2020).
Presa da lontano, mostrata di notte nell’incipit del film, mentre voci di donne scandiscono in musica nomi di elettrodomestici (simbolo del benessere), con la sua enorme distesa, nera e punteggiata di luci, l’immensa metropoli, (la zona metropolitana, la ZMCM, è composta da 41 comuni della conurbazione e conta circa 21 mln di abitanti nel 2010) [3], copre un’area di 50 km di larghezza e 35 km di lunghezza. Esito anche del cosiddetto “Milagro mexicano”, la città si espanse con intensità tra i ’50 e i ‘60 del Novecento, generando una conurbazione dilatata, caratterizzata da molte aree industriali che provocarono, insieme ad altre componenti di natura climatica e geografica, un forte inquinamento dell’intero comparto, in cui si registravano peraltro alti livelli di concentrazione demografica. Condizioni che in seguito portarono, dagli anni ’80, a un processo di decentralizzazione industriale in insediamenti vicini, tra cui Toluca, Santiago de Querétaro, Puebla [4].
Città del Messico risulta essere, come già accennato, tra le megalopoli più grandi al mondo per numero di abitanti, anche se con alcune flessioni, con una popolazione comunque in crescita, e con un PIL all’ottavo posto tra le metropoli del pianeta. Si tratta di una sconfinata distesa, di edifici e di persone che, nell’ultimo secolo, ha causato uno dei più grandi stravolgimenti ambientali e climatici e la conseguente fine di un ecosistema, dove è stata cancellata ogni forma di vita naturale pregressa.
Pur nel tentativo di arginare tali stravolgimenti, la crescita urbana e in particolare quella della cosiddetta “città informale”, ha indotto e messo in evidenza le condizioni di estrema povertà, la sperequazione sociale, il traffico veicolare (circa 4 mln di auto, attualmente) [5], la congestione, gli irrisolti relativi ai rifiuti, alla criminalità diffusa, alle mafie e al narcotraffico. Tale ultimo nodo, fulcro del film di Audiard, ha un impatto e una diffusione massiva per l’intero Messico, che può essere addirittura suddiviso attraverso la partizione delle aree di influenza dei principali cartelli.
Una presenza e un capitolo economico che hanno generato i maggiori problemi sociali, economici, umani, etici, socio-territoriali dello Stato, dando vita a una brutale e sanguinaria lotta dei cartelli contro il governo che tenta di opporsi sia al traffico, che ha nel Messico uno hub determinante, sia alla produzione di droghe (ingente soprattutto in Colombia). Tra il 1989 e la fine degli anni ’90 il conflitto ha raggiunto un’acme di violenza (tra i singoli cartelli in reciproca competizione, e tra i cartelli e le forze di governo), aumentata ulteriormente all’inizio del XXI secolo.
Secondo una stima del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti i guadagni all’ingrosso delle vendite di droga durante il primo decennio dei 2000, andavano da 13,6 a 48,4 miliardi di dollari l’anno, spostati clandestinamente dai narcotrafficanti tramite automobili e camion, come possiamo vedere in Emilia Pérez: per la sua posizione il Messico risulta infatti essere un punto di snodo nevralgico per le droghe destinate soprattutto agli Stati Uniti.
È opportuno, quindi, anche se in estrema sintesi, mettere in luce alcune questioni strutturali connesse al traffico e alla produzione di droga, tra i nuclei del film di Jacques Audiard. Se intorno al 2006, i cartelli messicani secondo la DEA (Drug Enforcement Administration) erano otto: Sinaloa, Cartello Jalisco Nueva Generación (CJNG), Beltrán-Leyva Organization (BLO), Los Zetas, Cartello del Golfo (CDG), Cartello di Juárez/La Línea (CDJ), La Familia Michoacana (LFM) e Los Caballeros Templarios (LCT), il fenomeno in Messico, come già accennato, ha origine alla fine degli anni ’80 quando un ex agente della polizia federale controllava interamente il commercio di droga in quello Stato, affidandone successivamente il traffico ad altre tre organizzazioni minori. Tra gli anni ’80 e ‘90 il cartello di Medellin di Pablo Escobar, di cui l’ex agente prima citato era l’uomo di punta, è stato il principale esportatore di cocaina a livello globale, trattando con le organizzazioni criminali di tutto il mondo (tra queste, mafia, ‘ndrangheta e camorra) [6].
L’opposizione degli Stati Uniti, maggiormente localizzata tra la Florida e i Caraibi, spinse le organizzazioni colombiane a formare varie partnership con i trafficanti messicani per trasportare la cocaina via terra, dal Messico verso gli Stati Uniti, facilitati dalla precedente struttura organizzativa di distribuzione, dato che il Messico era stato per lungo tempo una delle principali fonti di eroina, di cannabis e di metanfetamine. Durante gli anni ‘80 le organizzazioni messicane consolidarono le proprie reti organizzative divenendo affidabili nel trasporto della cocaina colombiana oltre confine. In una prima fase le bande messicane venivano pagate in contanti per i servizi di trasporto, ma alla fine degli anni ‘80 i gruppi messicani e i trafficanti colombiani optarono per la cessione di parte degli stupefacenti ai trafficati. Ai trasportatori messicani veniva abitualmente ceduta una quantità di droga compresa tra il 35% e il 50% per ciascuna spedizione di cocaina. Ciò portò le organizzazioni messicane a esser coinvolte nella distribuzione, oltre che nel trasporto, divenendo a loro volta trafficanti e spacciatori.
Come in ogni organizzazione “mafiosa” e criminale che gestisce enorme potere e un’impensabile quantità di denaro, sussistono guerre intestine e di successione per i vuoti di potere, corruzione dei funzionari, e dinamiche di escalation della violenza che hanno provocato un’altissima quantità di vittime, molte di esse scomparse (molte non ufficialmente segnalate, per le intimidazioni degli stessi narcotrafficanti pronti a uccidere intere famiglie se avessero denunciato).
Alcuni studi mettono in luce quanto l’aumento della violenza sia causato anche dalla perdita del ruolo politico alla fine degli anni ’80 del Partito Rivoluzionario Istituzionale che per una lunga fase aveva stretto accordi impliciti con i cartelli [7]. Questi, ancor più dai primi anni del XXI secolo, mirano a sostituirsi al governo, imponendo un monopolio con la forza delle armi e delle proprie leggi, puntando anche sull’intimidazione e sul terrore, filmando alcune esecuzioni su youtube, gettando brandelli di corpi in locali affollati, organizzando attacchi terroristici (come a Morelia, ad esempio, nel settembre del 2008).
Se i cartelli hanno aumentato la cooperazione con le bande di strada e con quelle carcerarie degli Stati Uniti, ampliando le loro reti di distribuzione all’interno del Paese nordamericano, negli anni tra il 2017 e il 2018 il tasso di criminalità e il numero di morti sono cresciuti in modo esponenziale: nel 2017 si contano circa 12.500 vittime (morte per uccisione sia tra e dai narcotrafficanti che tra i poliziotti), e l’anno successivo 10.000 vittime in più (15.973 solo nei primi sei mesi). Appare utile sottolineare, purtroppo, quanto questo oscuro “capitolo” abbia un “indotto”, costituito anche dal traffico di armi da fuoco, giubbotti anti-proiettile, lanciagranate, disponibili sul mercato nero, contrabbandati dal Guatemala, dal mare o rubati alla polizia e ai militari. Numerose armi vengono acquistate da donne senza precedenti penali (in Messico è costituzionalmente permesso di possedere armi da fuoco) e poi trasferite ai trafficanti con l’ausilio di parenti, fidanzati, o di reti di ausilio all’organizzazione criminale. Tra queste armi, alcune semiautomatiche vengono convertite in mitragliatrici e in fucili d’assalto con un selettore di fuoco.
Condizioni che danno vita a una realtà estremamente difficile che ha portato anche l’esercito messicano a commettere violazioni dei diritti umani con arresti illegali, torture, stupri, esecuzioni extragiudiziali, o fabbricazione di prove [8].
Ulteriore effetto risiede nello sfruttamento dei migranti che tentano di trasferirsi negli Stati Uniti. Attraverso estorsioni, sequestri di persona, ricatti, prostituzione forzata, i migranti sono costretti a unirsi alle organizzazioni criminali o a fare da esca alle frontiere per impegnare le forze dell’ordine o, in alcuni casi, vengono uccisi per il traffico di organi o sono coinvolti da gruppi di pedofili. L’alternativa tra l’essere complice o l’essere eliminato riguarda, però, un vasto insieme di soggetti sia che ricoprano un ruolo sociale o istituzionale, sia che siano semplici cittadini o migranti.
Inoltre, in Messico, nel tempo, come ci racconta il film del regista francese, sono state scoperte varie fosse comuni dove erano stati gettati non solo i clandestini, mentre la Commissione nazionale per i diritti umani del Messico (Comisión Nacional de los Derechos Humanos, CNDH) nota che 11mila immigrati sono stati rapiti in sei mesi nel corso del 2010 dai cartelli della droga [9]. Diventa in tal senso utile riflettere sul dato relativo ai desaparecidos messicani (tra essi giovani poliziotti attivisti/e, giornalisti/e, donne, oltre ai migranti e ai clandestini), altro snodo sollevato dal film. L’agenzia di stampa spagnola, la Efe, ha stimato che oltre 82mila persone fossero scomparse tra il 2006 e il 2021, mentre «The New York Times» portava la cifra quasi a 100mila, pubblicando alcuni dati su vari reportage. Tra essi uno [10], corredato dalle immagini raccolte dal fotografo Fred Ramos che mostra sia gli indumenti dei “sepolti senza nome”, spesso ritrovati nel deserto sia, appunto, i resti, riversati nelle fosse comuni (ne sono state trovate oltre 4mila). Tali cataste disordinate di spoglie – poi consegnate alle famiglie che desiderano ritrovare quel che rimane delle salme dei loro cari, per poter vivere una chiusura emozionale necessaria al superamento del lutto – vengono esaminate, grazie a un costante lavoro di alcune organizzazioni (tra esse il Regional Center for Human Identification in Coahuila, Mexico), di antropologi e di genetisti forensi, impegnati, quando possibile, nell’identificazione, spesso difficilissima per il deterioramento o la dimensione esigua dei resti.
Se Angélica Durán-Martínez, docente di scienze politiche all’Università del Massachusetts, ed esperta di violenza in America Latina aveva dichiarato al «New York Times» come «la scomparsa è forse la forma più estrema di sofferenza per i parenti delle vittime», appare chiaro come il regista abbia inserito questo aspetto nel suo film, facendo agire la questione dei desaparecidos in Messico (vd. contributo di Ferruzza) come un detonatore narrativo e un pretesto per determinare l’inversione del percorso esistenziale di Emilia, il cui nome, forse niente affatto casuale, derivando dal latino aemŭlus (rivale, competitore, antagonista, seguace, imitatore, emulo), denuncia alcune sfumature della personalità duale e complessa della protagonista.
Dal 1964 a oggi sono oltre 243mila le persone scomparse, e di esse di 99mila non si è saputo più nulla. Tra questi il 41% erano donne. Tra esse Debhani Escobar, 18 anni, studentessa di giurisprudenza, attivista per i diritti delle donne e per la parità di genere. A questo va aggiunto che nei primi due mesi del 2022 in Messico sono stati denunciati 155 femminicidi, frutto di relazioni tossiche (come afferma Panfili nel suo commento) e di culture patriarcali.
Emilia, tra passato e presente: “Yo solo deseo ser Ella”
Nel 1950 Luis Buñuel, nel suo drammatico Los Olvidados (I dimenticati, titolo italiano I figli della violenza), vincitore del premio alla miglior regia al Festival di Cannes del 1951, documento sociologico sul crimine, sulla mancanza di opportunità e sulla città contemporanea, racconta Città del Messico, rendendo comprensibili le condizioni umane, le dinamiche insite nello sviluppo urbano in quella fase già avviato, e il rapporto tra la periferica città “informale”, dove vivono per strada tre ragazzi: Pedro, Ojinto ed El Jaibo e il centro urbano caratterizzato dai nuovi ricchi e da una più rapace classe borghese.
L’incipit de Los Olvidados recitato da una voce fuori campo, dice: «nascosti dietro gli imponenti edifici di una grande città moderna come New York, Londra, Parigi, vi sono abissi di miseria che celano bambini affamati, sporchi, abbandonati a se stessi. Un fertile terreno per futuri delinquenti. Sebbene la società cerchi di porre rimedio a questi mali, il risultato dei suoi sforzi è ancora molto limitato. Solo in futuro noi potremmo sperare di indicare la strada a questi ragazzi in modo che essi si possano inserire utilmente nella società. Messico, una grande e moderna città non fa eccezione a questa regola universale». Los Olvidados (prosegue la voce off durante l’incipit) «basato sull’esperienza della vita reale, non è un film ottimista e lascia la soluzione del problema alle forze del progresso dei nostri tempi», disegna con chiarezza la città marginale, le periferie con i casermoni residenziali, la bassa densità delle baraccopoli e degli slum, l’efferatezza di alcune scelte forzate da condizioni pesanti che ancora ritroveremo nel film di Audiard.
In modo intenso e autentico, più di quanto non riesca a dimostrare Emilia Pérez, il film di L. Buñuel, aragonese ma naturalizzato messicano (vi emigrò nel 1940), mostra alcune vittime sacrificali e la loro parabola discendente, senza scampo. Entrambi i film, pur distanti temporalmente, trattano di “scarti”: il cadavere del giovane Pedro, gettato in una discarica, rimanda ai desaparesidos uccisi dai cartelli e abbandonati senza riguardo nelle fosse comuni. Il corpo del boss della droga, Manitas Del Monte, viene trasformato ed “eliminato” simbolicamente, quasi fosse un ulteriore scarto, come se cambiando il corpo si cambiasse anche l’anima, come affermato in Lady, uno dei brani della colonna sonora interpretato da Zoe Saldaña e Mark Ivanir, l’avvocata e il chirurgo che opererà il narcotrafficante. Il corpo, centrale nel film di Audiard, come sostiene Giulia Panfili nella sua recensione, diviene «un possibile laboratorio di pratiche e di attivismo». Il corpo, come afferma Antonina Ferruzza «si fa tramite, strumento materiale, di un’evoluzione più profonda, intrapsichica e interpersonale, che tocca gli abissi più reconditi della propria interiorità».
Al di là dell’origine e delle contingenze dell’orrore, un orrore comune è presente nei due film: lo sprezzo per la vita e per i diritti, in un contesto dove il governo, la regola, la legalità vengono scalzati ed erosi, dove la anomalia del quotidiano sostituisce ogni idea e azione legale e ogni organizzazione morale. E dove neppure l’inversione del proprio percorso di vita, il rinnovato desiderio di genitorialità (in Emilia), riesce a costruire una reale redenzione che estingua il passato e le sue pesanti colpe.
Il racconto di Jacques Audiard, più edulcorato di quello di Luis Buñuel, ma pur nella tragicità del finale, meno disfattista, punta a rappresentare il dualismo presente in ognuno di noi, vero nodo focale del racconto.
Molti degli elementi narrativi, il narcotraffico, la brutale violenza, gli spazi cupi dei territori di bordo dove Rita incontra Manitas Del Monte, prima della sua trasformazione, sono effetti di quella storia umana devastante narrata da Buñuel, nel solco del consolidamento tra il ’30 e i ’40, quando il regime post rivoluzione messicana (importante stagione che spinse, peraltro, alcuni artisti a recuperare la forma del muralismo preispanico) [11] punta a costruire le basi per un nuovo governo istituzionale, e a edificare opere pubbliche e infrastrutture coinvolgendo architetti e ingegneri, mentre il flusso migratorio porta negli anni ’50 la città a 3,1 mln di abitanti distribuiti su una superficie di 250 km quadrati, e al ridisegno di forme differenti di partnership pubblico-privato, che contribuirono al repentino sviluppo urbano.
È in quella fase che si delinea quel fuori controllo che interessò e travolse gli aspetti urbani e sociali: la città dilagava senza regole in modo informale, abitata dai marginali, dai dimenticati, appunto, che vivevano in porzioni di periferia ignorata, mentre in altre aree, anche lontane dal centro, sorgevano complessi extra urbani, come quelli di El Pedregal (pianificato da Luis Barragán), della Città Universitaria nella zona sud, o della Ciudad Satelite.
La città informale, teatro del film di Audiard (per ciò che attiene il Messico), si sviluppa con processi di crescita che esulano qualunque norma urbanistica: abusivismo, bassa densità, consumo di suolo, assenza di spazi pubblici e di verde, vendite illegali e irregolari, mancanza di urbanizzazione primaria.
Molte aree urbane, infatti, si svilupparono a partire dalla suddivisione irregolare del suolo da parte di imprenditori immobiliari che si appropriavano in modo illecito di ampi territori, e dalla successiva invasione di occupanti abusivi, privi di abitazione. La speculazione immobiliare come già accennato prescindeva dall’obbligo, legale, di fornire a tali aree servizi e infrastrutture. Territori esterni, da poco bonificati si trasformarono così in grandi agglomerati con milioni di abitanti: edifici bassi che si estendono ai bordi della megalopoli, tra paesaggi sterili e grandi “infrastrutture grigie” sviluppatesi anche dopo la prima occupazione.
Storia di trasformazione e cambiamento, con una terribile conclusione che chiude il cerchio dov’era iniziato, a Città del Messico, Emilia Pérez ci mette a contatto diretto con alcune delle tragiche e contemporanee realtà sociali, umane, emozionali, che esulano dal macro-fenomeno del narcotraffico o dalla transizione di genere, afferma Annamaria Clemente nel suo pezzo: «la transizione non è solo un processo individuale, è un atto di reinscrizione nel mondo attraverso il quale rinarrare la propria storia inserendola come filo di un intreccio di memorie condivise con altre donne, una riscrittura del proprio destino».
Entrambi i temi, il narcotraffico e la transizione, sono contemporanei e, anche per tale ragione, avvincono e seducono critica, spettatori e spettatrici, tanto quanto le scelte estetiche del film, la fotografia, la musica, le coreografie, i costumi, i volti, le parole sussurrate. La complessità e gli intrecci sono narrati, però, da un team interamente outsider (la produzione e il regista sono francesi) ridisegnando non solo la cifra cinematografica dello stesso autore [12], ma riarticolando, in una certa misura, le dinamiche del musical tradizionale hollywoodiano. Il film, infatti, propone interessanti coreografie che mettono in scena il corpo («corpo trans come spazio di trasformazione e resistenza», come afferma Annamaria Clemente nel suo pezzo) trasfigurando in danza le azioni quotidiane (grazie al lavoro del coreografo franco-belga Damiel Jalet), complice una solida impalcatura musicale niente affatto subalterna, costituita da una colonna sonora scritta dal compositore Clément Ducol e da un insieme di brani [13] (vd. contributo di Clemente), parte sostanziale della narrazione filmica. Questi – che hanno un indiscusso valore narrativo ed esplicativo, sintetizzando le questioni che attraversano il complesso territorio materiale, umano, sociale, e personale, narrato dal film – sono stati composti dalla cantautrice francese Camille, moglie del musicista, dallo stesso Ducol, e dal regista Jacques Audiard, che hanno scritto i testi.
Numerosi gli attori e le attrici, tra queste Zoe Saldaña (nata nel 1978 nel New Jersey, di origine dominicana e portoricana), Selena Gomez (nata nel Texas nel 1992, da padre messicano e madre di origine italiana), e Karla Sofia Gascon (nata a Madrid nel 1972), prima attrice transgender [14] (ha iniziato il suo percorso di transizione all’età di 46 anni) nominata all’Oscar come miglior attrice, ma “scaricata” in toto da Netflix (tra i produttori) perché tacciata di posizioni ultraconservatrici emerse a causa di alcuni tweet “razzisti” scritti tra il 2020 e 2021e poi cancellati, dopo aver porto le scuse a islamici e cinesi (oggetto dei tweet).
La produzione del film è interamente francese; l’ambientazione messicana, a parte le visioni del landscape urbano, è ricostruita in teatri di posa francesi, con un cast di attori prevalentemente spagnoli, come appunto la madrilena Gascon, o americani che non parlano in modo adeguato il messicano. Tale “leggerezza” nel trattare la cultura locale è stata oggetto di feroci critiche e di parodie sul web o sul quotidiano spagnolo «El Pais» dove sono state pubblicate numerose opinioni che segnalano quanto la regia di Emilia Pérez sia stata poco brillante, rappresentando in modo discutibile un boss feroce che vuole trasformarsi in una donna tenera, seppur determinata.
Autori o attivisti, tra cui Rodrigo Prieto, direttore della fotografia di numerosi film di Iñarritu (tra cui Amores Perros, ambientato Messico), hanno criticato con forza il film, pur apprezzandone la cifra musicale. Sottolineando quanto non assumere uno scenografo o uno stilista messicano, o almeno alcuni consulenti locali, abbia reso “inautentica” la storia espressa spesso con alcuni stereotipi (come peraltro affermano Anna Fici e Bianca Navarra nei loro commenti al film). Anche l’attivista trans dominicana, Mikaelah Drullard, ha contestato sia il musical affermando che non fosse credibile immaginare i genitori dei 43 studenti scomparsi nel 2014 ad Ayotzinapa cantare a un tavolo “Dove sono i miei figli che l’esercito ha fatto sparire?”, sia la celebrazione della vagino-plastica quale “forma di redenzione per il carnefice”. Per l’attivista trans il film è il risultato dell’ignoranza eurocentrica della popolazione bianca, da cui deriva l’ottima accoglienza (a Cannes il film ha ricevuto un’ovazione di quasi dieci minuti, al termine dell’anteprima) in Europa e negli Stati Uniti. Frutto, quindi, secondo alcuni, di una visione coloniale (è utile ricordare che gli spagnoli giunsero a Iztapalapa, una delle 16 delegazioni che compongono oggi Citta del Messico, nel luglio del 1519) e di una costruzione frettolosa e non curata, il film non ha raccolto unanimi consensi. Tra le opposizioni più nette quella del critico cinematografico Ernesto Diezmartínez che ha parlato di esecuzione goffa e di direzione approssimativa degli attori. E del comico Eugenio Derbez, che ha demolito con durezza l’interpretazione di Selena Gomez, la pop singer che ha interpretato Jessica del Monte, moglie del brutale narcotrafficante.
Di contro altri autorevoli soggetti, come Guillermo del Toro, Pati Chapoy, conduttore del programma di intrattenimento Ventaneando o lo sceneggiatore Issa López, hanno definito il film francese un capolavoro, mentre anche sui social media (soprattutto su X) proliferano abbondanti critiche negative che rendono il film un cuneo divisivo e controverso.
Durante un’intervista rilasciata a «El País», Jacques Audiard ha reagito alle dure accuse per aver trattato in modo poco sensibile il tema della violenza e delle sparizioni, sostenendo, molto opportunamente, di non aver scritto e girato un film sui narcotrafficanti o su una redenzione dal narcotraffico, ma di aver voluto raccontare la storia di una persona che vuole cambiare interamente la propria vita.
I temi presenti nel film, radicati alla condizione urbana e nazionale solo in apparenza, possono essere letti, comunque, in termini sovrastrutturali: la violenza, i rapporti tra i generi, la transizione, lo stesso traffico di armi e di droga, riguardano condizioni, relazioni, sentimenti universali: etica, identità percepite, desiderate, riconosciute, emozioni profonde, genitorialità. Secondo tale prospettiva persino il luogo e l’aspetto fattuale della vicenda diventano pretesti pur fornendo credibilità agli eventi.
Anche l’inumano narcotrafficante che ha sulla coscienza centinaia di morti, arricchito attraverso la droga, diventa in tal senso, un espediente narrativo per mostrare quanto ogni persona sia invece profondamente umana, contraddittoria, quanto provi sentimenti antitetici, tra amore ed efferatezza, violenza e tenerezza estrema, totale sprezzo per la vita e attenzione amorevole per gli altri, e agisca secondo tale profonda dualità che dilania e fa soffrire, oltre il desiderio e oltre ogni morale.
Quanto emerge dal racconto non mira a mostrare la santificazione della protagonista, o la sua redenzione, quanto un percorso di vita che passa da una specifica identificazione, dalla scoperta del proprio “centro” all’intero ridisegno della propria esistenza e della propria identità, facendo i conti con ciò che si desidera e ciò che si perde, malgrado la ricchezza, le possibilità, la volontà di controllo. Tale percorso mobile, la vita ci scavalca e ci sovrasta con i suoi imprevisti, è insito non solo nella storia di Emilia Pérez /Juan “Manitas” Del Monte, la protagonista, ma riguarda tutte le donne e in genere il desiderio di essere donna, la propria percezione e il “femminile” (come correttamente notano Anna Fici e Bianca Navarra nei loro contributi). Riguarda quindi anche l’avvocata, Rita Mora Castro e la moglie del boss, Jessica Del Monte, Jessi, fragile, amorevole, efferata. Tre, in realtà quattro donne che si misurano con la propria duplicità. Con il passato che, in definitiva, non riesce a essere realmente integrato e trasformato. Forse ognuna di esse pur anelando di vivere nel presente, dimenticando quanto accaduto prima, deve accogliere, ascoltare, arrendersi: “ascoltare è accettare”, dice l’avvocata Rita Mora Castro.
Anch’essa, infatti, ascolta e soprattutto vive le proprie contraddizioni e, pur abborrendo la violenza di genere, fin dall’inizio del film difende un uomo che, pur uccidendo la moglie, viene assolto grazie all’intervento della stessa avvocata, che convince la giuria a considerare la morte della vittima come suicidio. Pur odiando la violenza e lo sfruttamento, diviene “sorella” di una persona che, macchiata di molti delitti, si fa donna, per volontà.
Come in un rito pagano, dopo un fuoco che tutto annienta, il simulacro di Emilia, fondatrice de La Lucecita – società no-profit creata per le famiglie dei desaparecidos – sfila, ai suoi funerali, mentre centinaia di donne, tra cui Epifania (la sua donna amata) l’accompagnano, cantando: «(…) al compañero de viaje, Sus ojos el paisaje más hermoso, El ventilador parece más corto, Y tal vez tú eres el único que lo entiende, Y la decepcionaste sin seguirla, Sin tocar su mano (…)».
Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025
Note
[1]La giuria del 77º Festival di Cannes, presieduta da Greta Gerwig, era composta dalla sceneggiatrice e fotografa turca Ebru Ceylan, dall’attrice americana Lily Gladstone, dall’attrice francese Eva Green, dalla regista e sceneggiatrice libanese Nadine Labaki, dal regista e sceneggiatore spagnolo Juan Antonio Bayona, dall’attore Pierfrancesco Favino, dal regista giapponese Koreeda Hirokazu e dall’attore e produttore francese Omar Sy.
[2] Il Globalization and World Cities Research Network, un organismo che studia le relazioni tra le città mondiali o globali nel contesto della globalizzazione, è nato nel dipartimento di Geografia dell’Università di Loughborough nel Regno Unito ed è stato fondato nel 1998 da Peter J. Taylor che, con Jon Beaverstock e Richard G. Smith, rivedono e aggiornano la classificazione semestrale del GaWC delle città del mondo in livelli “Alfa” (con quattro sottocategorie), “Beta” (con tre sottocategorie) e “Gamma” (con tre sottocategorie), in base alla loro connessione internazionale, alla estensione e al loro ruolo. Diventa interessante riflettere sulla necessità di aggiornare l’elenco e la valutazione delle città globali, che configurano un macrosistema in costante evoluzione. La sociologa Saskia Sassen, pioniera dell’argomento, nel 1991 ha infatti attestato che le uniche che potessero essere definite come città globali fossero New York e Tokyo, affermando successivamente (in Global Networks, Linked Cities, Routledge, 2002) che, studiando l’architettura delle reti dove le metropoli sono inserite, numerose altre città hanno raggiunto il rango di global cities, tra esse Hong Kong, Shanghai, Dubai, Città del Messico e Sao Paulo in America Latina. «One of the components of the global capital market is stock markets. The late 1980s and early 1990s saw the addition of markets such as Buenos Aires, Sao Paulo, Mexico City, Bangkok, Taipei, Moscow, and growing numbers of non-national firms listed in most of these markets. The growing number of stock markets has contributed to raise the capital that can be mobilized through these markets, reflected in the sharp worldwide growth of stock market capitalization which reached over US$ 24 trillion in 2000 and USS 36 trillion in 2001. This globally integrated stock market which makes possible the circulation of publicly listed shares around the globe in seconds is embedded in a grid of very material, physical, strategic places». S. Sassen, The Global City: introducing a Concept, del 2005, testo disponibile al sito: https://www.columbia.edu/~sjs2/PDFs/globalcity.introconcept.2005.pdf.
[3] World Population Review, World City Populations 2023, https:/ /worldpopulationreview.com/world-cities. Città del Messico è al 13o posto, preceduta da Pechino e seguita da Canton. La prima è Shanghai, la seconda Tokyo, la terza Giacarta (rispettivamente 41 354 149 ab; 39 105 000 ab.; 35 386 000 ab., nel 2021).
[4] La decentralizzazione industriale ha favorito la crescita produttiva nella fascia nord della repubblica messicana dove, dagli anni Novanta, si sono stabilite numerose imprese di cosmetica. La forte componente industriale aveva, nei primi anni 2000, un peso sul PIL, rappresentando infatti il l 16,23% del PIL totale della produzione industriale messicana. In città di rilievo i mercati, tra essi la Central de Abastos che è il centro di distribuzione di prodotti alimentari più importante del Messico.
[5] Devpost, Mexico City, Mobility Challenge https://mexicocity-mobility.devpost.com/details/resources.
[6] Di interesse una serie (è possibile vederla in streaming su Prime): Il Mondo dei Narcos, introdotta e commentata da Roberto Saviano, del 2018, Stagione 1, 4 episodi: titoli degli episodi: Il mercato del sesso di Medellin; Il cartello di Sinaloa; La guerra di Sinaloa; Il viaggio oltre il confine.
[7] J. Bussey, Drug lords rose to power when Mexicans ousted old government, in «McClatchy Newspaper», 15 set. 2008.
[8]L. Freeman, Troubling Patterns: The Mexican Military and the War on Drugs, Washington, D.C., Latin America Working Group, September 2002; Human Rights Watch, Military Injustice: Mexico’s Failure to Punish Army Abuses, New York, Human Rights Watch, December 2001; Reuters, “Peasants in Rural Mexico Claim Army Brutality,” 17 November 2003.
[9] Vd. More than 11,000 migrants abducted in Mexico; testo disponibile al sito:
https://www.bbc.com/news/world-latin-america-12549484.
[10] E. Rodriguez Mega, photo by F. Ramos, Mexico Dispatch, Here in Mexico, They Hardly Find Anybody, Jan, 4, 2025, «The New York Times».
[11] Artisti come Diego Rivera, José Clemente Orozco e David Alfaro Siqueiros, ripresero questa forma espressiva, parte della tradizione preispanica, di facile comprensione e utile a veicolare idee e valori marxisti. A questi autori va aggiunta la grande Frida Kahlo, nata nella periferia di Città del Messico.
[12] Nato a Parigi, nel 1952, Audiard ha vinto numerosi premi, al Festival di Cannes, tra cui la Palma d’oro per Dheepan – Una nuova vita, si è aggiudicato il Grand Prix Speciale della Giuria per Il profeta, il Premio della Giuria per Emilia Pérez (che ha ricevuto tredici candidature all’Oscar; vd. nota 1) e il Prix du scénario per Un héros très discret. Ha vinto inoltre quattro Premi César e per il film Il profeta si è aggiudicato un Premio BAFTA e un National Board of Review, ricevendo la candidatura all’Oscar al miglior film straniero.
[13] I brani e gli/le interpreti: “Subiendo (Part 1)” di Camille, Clément Ducol e Mexican Choir; “El Alegato” di Zoe Saldaña; “Todo y Nada” di Zoe Saldaña; “El Encuentro” di Karla Sofía Gascón; “Lady” di Zoe Saldaña & Mark Ivanir; “Deseo” di Camille & Karla Sofía Gascón; “Swing Supreme” di Robbie Williams; “Por Casualidad” di Camille, Karla Sofía Gascón e Zoe Saldaña; “Bienvenida” di Selena Gomez; “Mis Siete Hermanas y Yo” di Xiomara Ahumada Quito; “Papá” di Juan Pablo Monterrubio & Karla Sofía Gascón; “Para” di Aitza Terán, Iván Ruiz de Velasco e Mexican Choir; “Amor a Primera Vista” di Belinda, Lalo e Los Ángeles Azules; “El Mal” di Camille, Zoe Saldaña e Karla Sofía Gascón; “El Mal” di Camille, Zoe Saldaña e Karla Sofía Gascón; “Mi Camino” di Selena Gomez; “El Trio” di Karla Sofía Gascón & Zoe Saldaña; “Perdóname” di Camille & Karla Sofía Gascón; “Las Dama que Pasan” di Adriana Paz & Mexican Choir.
[14] Vd. Carlos Gascón, Karsia. Una historia extraordinaria, Editorial Urano México, 2018.
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Flavia Schiavo, architetto, architetto del paesaggio e PhD in Pianificazione Territoriale. Prof.ssa Associata presso la Università degli Studi di Palermo, insegna Urbanistica (Laurea in Urban Design per la città in transizione) e Laboratorio di Progettazione urbanistica (Corso di Laurea in Architettura). È componente del Collegio dei docenti del Dottorato di ricerca in Architettura, Arti e Pianificazione. Ha al proprio attivo numerose pubblicazioni (saggi e monografie), in italiano, spagnolo e in inglese, che sviluppano articolati temi di ricerca: fonti non convenzionali (letteratura e cinema per interpretare città e territorio); linguaggio urbanistico; partecipazione, conflitti, azioni e pratiche bottom-up in ambito urbano; parchi e giardini; sviluppo e questioni sociali, economiche e antropologiche nel contesto della Rivoluzione Industriale; arte, culture urbane e contaminazioni. Tra i titoli delle monografie: Parigi, Barcellona, Firenze: forma e racconto, 2004, Sellerio, Palermo; Tutti i Nomi di Barcellona, 2005, FrancoAngeli, Milano; Piccoli giardini. Percorsi civici a New York City, 2017, Castelvecchi, Roma; Lettere dall’America, 2019, Torri del Vento, Palermo; New York: entre la tierra y el cielo, Ediciones Asimétricas, Iniciativa Digital Politècnica, Barcelona, Madrid, 2021; Lo schermo trasparente. Cinema e Città, Castelvecchi, Roma, 2022; Nata per correre. New York City tra il XIX e gli inizi del XX secolo, Aracne, Roma, 2023; 8 lezioni newyorchesi. La Democrazia delle Città, la Democrazia della natura, Il Sileno edizioni, Cosenza, 2023. Fa parte di Comitati scientifici di prestigiose collane editoriali (FrancoAngeli) e di Riviste del settore. Ha organizzato seminari, simposi, meeting, convegni nazionali e internazionali e ha condotto lunghi periodi di ricerca in Italia e all’estero, in Europa (UAB, Barcellona) e recentemente negli Stati Uniti (Columbia University, New York City).
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