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Emilia Pérez e l’irriducibilità del corpo

da Emilia Perez

da Emilia Pérez, di Jacques Audiard

di Antonina E. Ferruzza Marchetta 

Un narcotrafficante, Manitas del Monte, ricco e malavitoso boss di un cartello Messicano, dal sorriso illuminato da una ultra-kitch dentatura in oro e dal naso pronunciato, assolda un’avvocatessa in crisi esistenziale, Rita Mora Castro, per farsi accompagnare nella realizzazione del suo sogno recondito: la transizione di genere da uomo a donna.

Dopo aver intercettato la figura idonea per attuare l’operazione chirurgica – un medico di Tel Aviv – viene inscenato un omicidio per far sì che le tracce delle vestigia maschili di Juan del Monte possano essere cancellate per dar luogo, finalmente, alla nascita di una nuova creatura: ribattezzatasi con il nome di Emilia Perez.

A nulla servono i pianti della moglie Jessi, fatta emigrare in Svizzera con prole al seguito, né la perplessità e il timore soffuso dell’avvocatessa/aiutante segreta Rita, Emilia è determinata a cominciare la sua nuova vita, con il motto incisivo, cantato prima dell’intervento: “Se il corpo cambia, cambia l’anima. Se l’anima cambia, cambia la cultura. Se la cultura cambia, cambia la società”. 

Il film, semplicisticamente etichettato come un musical/thriller, risulta più che altro un mélange inedito di generi – dalla telenovelas di stampo almodovariano, alla commedia, al dramma – imperniato su un sostrato mutuato dalla tecnica melodrammatica, nella quale il recitativo si mescola abilmente al registro cantato-parlato delicato e pregnante con un andamento della trama che si dipana in quattro atti fondamentali (scanditi in luoghi diversi: Città del Messico, Svizzera, Londra e nuovamente Mexico city). Tale natura polimorfica della pellicola – come dichiarato dallo stesso regista Jacques Audiard [1] – tende a ricalcare pedissequamente l’evoluzione psicologica ed emotiva del personaggio principale Emilia (interpretata dall’attrice trans Karla Sofia Gascòn) ma anche delle altre figure femminili che costellano il suo processo di cambiamento: Rita (Zoe Saldaña), Jessica (Selena Gomez), Epifanìa (Adriana Paz). 

Sarà stato probabilmente questo aspetto multiforme – suscitante un discreto senso di détournement nello spettatore – a fargli guadagnare il plauso della critica oltre a numerosi premi e riconoscimenti tra cui: il premio della Giuria di Cannes per il 2024, il Golden Globe per il miglior film o commedia musicale per il 2025, l’European Film Award per il miglior film del 2024, nonché il premio di Cannes alla miglior attrice femminile conferito alla protagonista (prima transgender insignita di tale premio nella storia) per non parlare delle tredici nomination agli Oscar del 2025. 

da Emilia Perez di Jacques Audiard

da Emilia Pérez di Jacques Audiard

Un altro tema cardine che ha suscitato un certo clamore tra gli spettatori – sia in senso positivo che negativo – e che vale la pena di porre in risalto è l’atteggiamento di denuncia sociale rispetto alle condizioni in cui versa lo Stato del Messico, imperversato da bande violente di narcos che rapiscono giovani condannandoli a morti atroci. La caduta dell’ideale democratico è indubbiamente un nucleo tematico che sta a cuore al regista, sebbene non vi sia alcun intento precipuo di creare un’opera di denuncia sociale ma piuttosto di architettare una sorta di epopea intorno ad un percorso di cambiamento esistenziale, che si serve del corpo e della voce per rappresentare concretamente – più che meramente psicologicamente – i vissuti della protagonista. 

Le zone sub-urbane della megalopoli messicana, affollate di passanti danzanti, abbandonano dunque il loro aspetto realistico per diventare amplificatori emotivi degli stati di solitudine, confusione, incertezza, bisogno di riscatto che accompagnano le evoluzioni dei caratteri femminili.

Anche La Lucecita – società no-profit di beneficienza creata per i familiari dei desaparecidos – non si configura semplicemente come un vessillo di una battaglia politica, ma piuttosto come il simbolo, archetipico, di una mutata sensibilità da parte di Emilia: che da efferato killer machista decide di convertirsi in magnanima filantropa, per riscattare il suo gravoso passato.

Un passato da cui difficilmente ci si può distaccare, e che ritorna ricorsivamente, come la pietra di Sisifo, sulle spalle del personaggio principale. Non è affare semplice infatti l’abbandono dei figli e della moglie, con cui Emilia tenta di riunirsi spacciandosi per una tìa, lontanamente imparentata con Juan Manitas. Ma l’odore della sua pelle rischia di fare sventare ogni piano – accuratamente premeditato e gestito con ingenti somme di denaro di cui dispone – quando uno dei bambini le dice ‘hueles como mi papà’. Inoltre il desiderio di Jessi di ricostruirsi una famiglia, con un altro criminale della droga, Gustavo, manda definitivamente all’aria l’idillio di ricongiungimento familiare intessuto nella mente di Emilia. La quale dopo aver tagliato i fondi agli sposini fuggiaschi, viene da questi rapita, e il suo destino viene nuovamente cambiato, tramutandola da carnefice, a benefattrice, a vittima. 

da Emilia Perez di Jacques Audiard

da Emilia Pérez di Jacques Audiard

Nonostante l’accento posto sugli effetti – inevitabili – delle proprie azioni pregresse, ciò che emerge dal film è uno slancio vitalistico proiettato verso l’avvenire, che affonda le sue radici nella questione spinosa – per la nostra contemporaneità – della caduta del patriarcato, del machismo, del virilismo efferato a favore del trionfo dei valori di una femminilità placida, riparativa, generativa e creativa. Tema a cui Audiard è profondamente legato sin dalle sue precedenti opere – Un sapore di Ruggine e Ossa, I Fratelli Sister, Parigi 13Arr – le quali ricalcano il tema del “regarder les hommes tomber” di cui questo film costituirebbe dunque una sorta di epilogo. 

Tuttavia la scelta di condensare questi simboli positivi attorno ad una figura sfumata e ambigua come quella di una transgender è una scelta oculata, dal significato piuttosto eloquente: il corpo si fa tramite, strumento materiale, di un’evoluzione più profonda, intrapsichica e interpersonale, che tocca gli abissi più reconditi della propria interiorità. La cultura Trans infatti si staglia quale stendardo in grado di accogliere l’intrinseca pluri-potenzialità del corpo e della psiche dell’uomo: luoghi che accolgono spinte e opposizioni spesso inconciliabili e contraddittorie – se non addirittura insondabili – con le quali ogni anima sensibile è costretta a fare i conti nel proprio quotidiano.

La risoluzione della Trans-genericità diviene dunque, in questo bizzarro pastiche di stili ed atmosfere, il contenitore più adeguato a raccogliere e sintetizzare dialetticamente la dinamica antagonista tra maschile e femminile, tra animus e anima, nel lessico di Jung. 

Inevitabile a questo punto è il rimando alle posizioni antropologiche di Francesco Remotti – di eco psicologica – che enfatizza il ruolo fittizio, parziale e temporale, di ogni qualsivoglia costruzione identitaria, la quale viene vividamente ed efficacemente paragonata ad ‘una coperta troppo corta’ [2] sotto la quale possiamo scorgere frammenti di pulsioni, desideri, costrutti, molteplici, cangianti e divergenti, ovvero richiamanti il concetto di Alterità. 

«Vi è tensione tra identità e alterità: l’identità – si è visto – si costruisce a scapito dell’alterità, riducendo drasticamente le potenzialità alternative; è interesse perciò dell’identità schiacciare, far scomparire dall’orizzonte l’alterità. […] questo gesto di separazione, allontanamento, di rifiuto, e persino di negazione dell’alterità non giunge mai a un suo totale compimento o realizzazione. L’identità respinge; ma l’alterità riaffiora. L’alterità viene spesso emarginata; ma essa riemerge in modo prepotente e invincibile. Vi è da chiedersi se l’emarginazione e la negazione dell’alterità non siano gesti dovuti al fatto che l’alterità si annida nel cuore stesso dell’identità, non già semplicemente ai bordi, bensì nelle stesse ragioni intrinseche dell’Identità» [3]. 

Anche il lavoro di Umberto Galimberti ne Il Corpo [4] ci aiuta a decifrare ulteriormente il tentativo di Audiard di restituire al corpo – inteso in senso psichico – la sua valenza costitutivamente simbolica, la riduzione a questo di tutte le spinte diaboliche [5] in virtù della ricostruzione di un unicuum organico. 

«Come ‘significato fluttuante’ il corpo con-fonde i codici con quella operazione simbolica che consiste nel com-porre (sym-bàllein) quelle disgiunzioni in cui ogni codice si articola quando divide il vero dal falso, il bene e il male, il bello e il brutto, Dio e il mondo, lo spirito e la materia, ottenendo quella bivalenza dove il positivo e il negativo si rispecchiano, producendo quella realtà immaginaria da cui traggono la loro origine tutte le ‘speculazioni’» [6]. 

9788807882371_quarta-jpg-800x800_q75-1In Emilia Perez siamo dunque sospinti, quasi costretti, a speculare – in senso etimologico – a rispecchiarci nel caleidoscopio di possibilità insite in ognuno dei personaggi femminili, ricostruendo – senza soluzione di continuità – il coro di personalità che le abitano dentro di noi.  Non possiamo, inoltre, che scivolare nella seduzione della femminilizzazione dell’uomo – evidente in Juan/Emilia – che conferisce un tocco di sottile erotismo, proprio in virtù del valore inafferrabile e archetipico della riunione androginica degli opposti. 

Seguendo le parole di Jung «quando si presenta una situazione che corrisponde ad un dato archetipo, allora l’archetipo viene attivato e si manifesta come una coercizione che, come una forza istintiva, si fa strada contro ogni ragione e volontà oppure produce un conflitto di dimensioni patologiche, cioè una nevrosi». [7] In questa storia vediamo dispiegarsi la prima possibilità cui allude lo psicanalista, ovvero una realizzazione a-critica, pura, istintiva di una pulsione profonda, intima sia in Emilia che nelle altre figure femminili. 

Elemento che viene inoltre evidenziato dalla scelta di arricchire la narrazione con danze – ora bacchiche, ora melanconiche, ora riflessive – e canti, realizzati con il sostegno di Damien Jalet (coreografo) Camille (cantautrice) e Clement Ducol (musicista). Questa componente pone in enfasi la dimensione istintuale irrinunciabile del processo di metamorfosi che attua la protagonista. L’espressione corporea infatti – oltre a richiamare il tema della transizione di genere – non ha un mero valore coreografico, di riempimento, ma conferisce profondità e spessore emotivo, esasperando – tramite la voce e la gestualità – il sentire dei personaggi. Del resto ciò è confermato dalle movenze dei ballerini che mimano – quasi fossero all’interno di una pièce di teatro-danza – fedelmente i contenuti delle canzoni attraverso i movimenti del corpo. 

i__id8753_mw600__1xQuesta attenzione alla prossemica e alla corporeità richiama ad un concetto fondamentale esaminato da Ellen Dissanayake [8] intorno alle potenzialità evolutive connesse al fare arte, intesa quale modalità – più che artefatto, oggetto – attraverso la quale trasfigurare il reale, l’ordinario, in extra-ordinario. Tale processo del making special impregna profondamente la struttura del musical, lasciando emergere il valore delle arti temporali quali mezzo elaborato da sapiens in tempi preistorici – attraverso il rituale, ma anche le interazioni madre-bambino – per sconfiggere le incertezze, elaborare le aspettative, scandire i momenti di transizione e al contempo rafforzare la coesione sociale. Tale processo di artification (di fare arte) è reso palese attraverso il ricorso alla stilizzazione, stereotipia, ripetizioni  di movimenti, gesti, espressioni e voci. 

Il richiamo alla fisicità è dunque pervasivo – quasi scomposto – si declina infatti non soltanto nel tema della transizione e nel richiamo alla danza nelle scene di musical, ma anche nella cura meticolosa della gestualità e dei dettagli – l’inquadratura sui fianchi dell’amante di Emilia, Epifania, che incede nel suo studio con un jeans impreziosito da posticci brillantini, i volti di bambini senza denti che cantano sconsolati di fronte cinepresa, Rita che si stringe attorno alle sue stesse braccia per esorcizzare la paura, i sicari di Emilia che si preparano a riscattarla inscenando una sorta di rituale di guerra. Ma anche gli spazi diventano luoghi-corpi da assaporare e toccare con lo sguardo: dai cupi blu e neri della parte iniziale, in cui troneggia una sensazione di desolazione e solitudine, ai rossi accesi dell’arredamento della casa di Emilia, alla Madonna indigena, avvolta nel suo mantello-mandorla, elemento di protezione e redenzione. 

Si potrebbe concludere dicendo che dalla sensazione di un corpo estraneo e disabitato, immerso in atmosfere di non luoghi, pervase da infelicità, frustrazione, amore e morte, si passa ad una presa di consapevolezza, ad un embodiment del corpo e dello spazio che adesso si fanno ricchi di colori, festosi, brulicanti di vita, in tutte le sue indistricabili contraddizioni. 

L’epilogo tragico, con un incidente che vede perire i protagonisti del triangolo amoroso Emilia-Gustavo-Jessi (resasi conto ormai dell’identità del marito) suggella questa parabola di opposizioni inconciliabili, senza però lasciarci un retrogusto amaro in bocca. Ciò che doveva compiersi si è compiuto. Rita, da avvocatessa frustrata diviene madre adottiva dei bambini della coppia defunta, diventando dunque erede di questo thriller dai toni mirabolanti e caleidoscopici. La processione finale con il simulacro di Rita – avente le sembianze della Madonna messicana – chiude con una nota speranzosa questa lotta contro il determinismo biologico e sociale, invocando una presenza superiore affinché possa proteggere e conservare la memoria – ciò che resta del corpo – di un’eroina moderna. 

Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025 
Note
[1]     Intervista Netxlif a Jacques Audiard da parte di Guillermo del Toro, dicembre 2024.
[2]    Remotti Francesco, Contro L’identità, Editori Laterza, Bari, 2008.
[3]    Ibidem: 61-62.
[4]    Galimberti Umberto, Il Corpo, Universale Economica Feltrinelli, Milano, 2017.
[5]     Dal greco dia-ballo: divido, separo.
[6]    Galimberti Umberto, Il Corpo, Universale Economica Feltrinelli, Milano, 2017: 11.
[7]    Jung Carl Gustav, L’analisi dei sogni, gli Archetipi dell’Inconscio, La sincronicità, Bollati Boringhieri, Torino, 2018: 162.
[8]    Dissanayake Ellen, L’infanzia dell’estetica. L’origine evolutiva delle pratiche artistiche, a cura di Fabio Desideri e Mariagrazia Portera, Mimesis, Milano, 2015.
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Antonina E. Ferruzza Marchetta, dottoressa in Lettere Moderne, presso l’Università di Bologna, laureanda alla magistrale in Psicologia Clinica dell’Infanzia e dell’Adolescenza e al Master di ArtiTerapie e Terapie Espressive – con specializzazione in danzaterapia – alla Cattolica di Milano. I suoi interessi culturali si incentrano sul rapporto tra linguaggio, psiche e corporeità, declinati attraverso diverse discipline di matrice artistica. È practitioner del Metodo Feldekrais (somatica), insegnante e danzatrice di un derivato contemporaneo della bellydance, e ha collaborato con la rivista Balarm.

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