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Emilia Pérez, ma perché?

cover_emiliaperez-1-1di Giulia Panfili 

Sono andata a vedere il film Emilia Pérez al cinema: un gesto e momento di libertà che mi sono concessa e che ha fatto sì che mi sedessi sulla poltrona della grande sala già fremente. Avrei potuto vederlo in streaming sul divano di casa, perché dopo essere stato presentato in anteprima al festival di Cannes, il film del 2024 diretto da Jacques Audiard ha debuttato nelle sale francesi ad agosto per poi arrivare a novembre negli Stati Uniti, in Canada e nel Regno Unito, prima al cinema e poi in streaming su Netflix.

Fortunatamente ho scelto di uscire e andare. Non sapevo di cosa trattasse Emilia Pérez e fin dal suo inizio sembrava dicesse balla, canta o non esisti. Mi ha sorpreso e ho tentennato nel lasciarmi andare e accettare la sfida del linguaggio musicato, cantato e ballato in contrasto con il recitato, chiedendomi più volte perché mai questa scelta? E in queste modalità? Come in una sorta di grido stridente e passo fuori tempo, lo stacco netto delle parti musicali era ancora più accentuato dalla fotografia di Paul Guilhaume che usa colori caldi e luminosi per le scene recitate, mentre accende le luci bianche e fredde sui personaggi che cantano e ballano, mostrando esplicitamente la finzione teatrale. Una scelta esplicita e coerente nell’evolversi della storia, che ad ogni modo non elude dal destabilizzare ed interrogarsi. Andiamo però per ordine. 

Il film racconta la storia di una giovane e ambiziosa avvocata Rita Mora Castro (magistralmente interpretata da Zoe Saldaña) che lavora in penombra per uno studio legale di Città del Messico. Riesce a far vincere al suo capo una causa importante, ampiamente seguita a livello mediatico, che camuffa un femminicidio attraverso una narrazione che si potrebbe dire tossica. A seguito di questo successo di cui Rita è insoddisfatta, viene anonimamente contattata per un compito imprecisato in cambio di una esorbitante somma di denaro che le potrà permettere di cambiare vita. Delusa della scarsa considerazione del suo lavoro, Rita si domanda 

Después de todo
¿Cuánto cuánto tiempo más agacharé la cabeza?
¿Cuánto cuánto tiempo más les lameré las botas?
¿Cuánto cuánto tiempo más les daré mi talento?
¿Cuánto cuánto tiempo más chambearé para nada? 

e decide di incontrare il cliente che l’ha segretamente ingaggiata e che si rivela essere il potente e temuto jefe del narcotraffico messicano Juan Manitas Del Monte. Il boss del cartello è deciso a realizzare il suo desiderio di sempre, ossia completare la transizione di genere e per questo vuole la collaborazione di Rita. Manitas sussurra a denti stretti. 

No deseo el deseo
Ni el ser deseado.
Que lo que “es” no no “sea”
yo solo deseo ser Ella.
 
Yo quiero otra cara,
yo quiero otra piel,
que el fondo de mi alma
huela como la miel. 

Dunque in completa segretezza Manitas si sottopone ad interventi chirurgici, inscena la propria morte ed inizia una nuova vita come Emilia Pérez (Karla Sofía Gascón). La vicenda si complica quando Emilia decide di riavvicinarsi alla famiglia che ha lasciato, cioè alla moglie Jessica (Selena Gomez) e i suoi due figli, presentandosi come una lontana cugina di Manitas che si è offerta di ospitarli e prendersi cura dei bambini. Jessi fa opposizione. 

Bienvenida
Para servirle a usted
¡Me caga!
Ahora no me chinguen!
Primita
Brincaré la pared
Querida
Extinguiré mi sed
Bienvenida. 
da Emilia Perez, di Jacques Audriad

da Emilia Perez, di Jacques Audriad

Nel frattempo, Emilia crea un’organizzazione no-profit che, sfruttando i suoi contatti con i narcotrafficanti incarcerati, identifica le vittime del cartello e riconsegna i corpi ai familiari per la sepoltura. L’ente in cui Emilia e Rita collaborano, lavora senza sosta e cresce esponenzialmente con finanziamenti anche di potenti e corrotti. Quando Jessi confida ad Emilia che ha intenzione di sposarsi con un amante che ha ripreso a frequentare e di trasferirsi con lui e i figli in una nuova casa, Emilia diventa aggressiva, le taglia i fondi, fa minacciare l’amante. Ne consegue che Emilia viene rapita per chiederne il riscatto a Rita e la storia si trasforma in un thriller dai tratti parossistici che volgono a tragico epilogo. Una storia folle, al limite dell’inverosimile, ricca di colpi di scena, che ha trovato una forma unica incaricata di veicolarla. 

Il film nasce da un capitolo del libro Écoute di Boris Razon, liberamente sviluppato dal regista durante il periodo della pandemia. L’idea iniziale insieme all’amico e co-sceneggiatore Thomas Bidegain era quella di costruire la sceneggiatura come un libro d’opera in quattro atti, in spagnolo e con qualche intermezzo in inglese. Poi è diventato un film cantato e a colori che sembra ammiccare tanto al film musicale Les Parapluies de Cherbourg di Jacques Demy quanto al cinema di Pedro Almodóvar. Risultato di questo ardito esperimento è un’opera delirante le cui immagini, pervase da euforia cromatica, si combinano a musiche e coreografie altrettanto esuberanti dove ogni momento e dialogo cruciale è cantato e spesso ballato. Le canzoni sono della cantautrice francese Camille Dalmais, le musiche di Clément Ducol e le coreografie di Damien Jalet. Un film melodrammatico che attraverso musiche, corpi, luci e colori opera sulla realtà una radicale trasformazione.

Ma perché proprio così? continuo a domandarmi. Forse perché la musica dà voce, permettendo di affermare ciò che altrimenti non si riuscirebbe? Forse perché il corpo performativo è attestazione del sono qui, esisto e agisco? 

Le protagoniste stesse di questo film, donne che cercano la propria strada e libertà, sono chiamate ad affrontare trasformazioni, prima fra tutte l’affermazione di genere di Emilia. Come sull’onda della fenomenologia del corporeo e della militanza femminista, quando Rita è a Tel Aviv per incontrare il medico chirurgo che farà le operazioni, dissente con il dottore e fa riflettere sul fatto che il corpo è uno spazio di interrelazione potenzialmente sovversivo. Invita perciò il medico a prendere coscienza di come il corpo sia un possibile laboratorio di pratiche e di attivismo. 

Changing the body, changes Society
Changing Society, changes the soul
Changing the soul, changes Society
Changing Society, changes it all
(…)
Doctor,
You don’t know what it’s like to be a Queen
When you were born to strive and raised to kill
You’d better Dance or Die
Ladies and Gentlemen
and everyone in between
And every body
no one has
ever been
I’ll never let you down! 

Il corpo si può abitare in maniera diversa e può forgiare mente, spazio pubblico e ambiente in nuove modalità. Sullo specifico della rappresentazione transgender nel film, organizzazioni e comunità LGBTQI+ come la statunitense GLAAD (Gay & Lesbian Alliance Against Defamation) che ha lo scopo di contrastare omofobia e discriminazione di genere proprio promuovendo un’accurata rappresentazione delle persone LGBTQI+ nei media, non riconoscono questo film come un possibile riferimento cinematografico per le persone trans. Basta pensare alla canzone “dal pene alla vaginaaaaaaa” e ai diversi interventi chirurgici di affermazione del genere cui Emilia si sottopone in una sola seduta, per trovarsi d’accordo. Secondo GLAAD appunto il film Emilia Pérez non è una buona rappresentazione, piuttosto «un ritratto profondamente retrogrado di una donna trans, che ricicla gli stereotipi, i luoghi comuni e i cliché trans di un passato non così lontano» (https://glaad.org/emilia-perez-is-not-good-trans-representation/). Questi stereotipi si possono brevemente riassumere in: la donna trans assassina, tragica, psicopatica; la donna trans che abbandona moglie e figli per intraprendere la transizione; la transizione trattata come una morte; deadnaming e misgendering nei momenti cruciali; la donna trans descritta come metà maschio e metà femmina (https://www.autostraddle.com/emilia-perez-trans-review/ ). 

Per approfondire ulteriormente, nel documentario Disclosure (2020) viene esaminato il modo in cui film e televisione hanno diffuso storie distorte e diffamatorie sulle persone transgender per oltre 100 anni: «per molto tempo, il modo in cui le persone trans sono state rappresentate sullo schermo ha dato a intendere che non siamo reali, che siamo malati di mente, che non esistiamo». E ancora nel documentario un’intervistata dice che «c’è una sola soluzione a quasi tutti i problemi dei media sui transgender: ne servono altri. In quel modo, una sporadica raffigurazione imbarazzante non avrebbe tanta importanza, perché non sarebbe l’unica». A tal proposito vale la pena menzionare un nuovo documentario Will & Harper (2024) in cui una donna transgender condivide, in viaggio con un amico, la propria storia con parole e sentire propri. 

locandinaAppurato che nel caso di Emilia Pérez non abbiamo certamente a che fare con un documentario, si può stare al gioco di una trama tutta colpi di scena e buchi, e di personaggi stilizzati, costellata di temi e linguaggi contemporanei, con l’intento di vivere un’esperienza avvincente e fuori dall’ordinario. Allo stesso tempo credo che sullo schermo siano collocate tematiche e culture che si ha il dovere etico di ricercare e approfondire, altrimenti ne traspare una visione ingenua se non stereotipata. Già nei precedenti film come Il Profeta (2009), Dheepan – una nuova vita (2015), I fratelli Sisters (2018), il regista Jacques Audiard si dice interessato al confine tra un prima e un dopo, e si domanda “cosa accade quando si è proprio sul confine, proprio sulla linea, né prima né dopo?”  L’antropologo Victor Turner direbbe che è un tempo del «non più» e del «non ancora». Questo tempo sospeso in Emilia Pérez non c’è. Il ritmo è incalzante e temi importanti che meriterebbero essere approfonditi vengono toccati en passant, come fossimo in uno scrolling sui social. “Voglio amarmi come vorrei mi amassero”: una delle frasi cantate da Jessi, da tatuarsi. 

Volgendo a conclusione, sulle note della versione cubana di Les Passantes di Georges Brassens e Antoine Pol nel finale del film – unica scena girata davvero in Messico – una processione canta l’elogio funebre di Emilia e celebra la sua lotta per la verità. Credo voglia essere una scena di bellezza, redenzione e libertà, ma avrei preferito di gran lunga che tutto finisse nel tetro thriller di poco prima. Questa scelta di regia è come dicesse: Emilia è assolta e/o ha ingannato tutti, compresa se stessa. Forse anch’io mi sono sentita manipolata, dovendo ancora una volta chiudere un occhio per non far venir meno quell’ implicito contratto tra film e spettatore. 

Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025

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Giulia Panfili vive attualmente a Roma. Ha studiato antropologia visiva a Lisbona e ha concluso il dottorato in antropologia, politiche e immagini della cultura, museologia con una tesi di ricerca etnografica in Indonesia sul wayang come patrimonio immateriale dell’umanità. Ha partecipato a convegni di antropologia e arte in Portogallo, Brasile, Inghilterra, Indonesia, e a mostre collettive di fotografia, illustrazione e stampa grafica presso gallerie e festival in Italia, Spagna, Portogallo, Indonesia. Tornando in Italia ha frequentato la Scuola Romana del Fumetto, dedicandosi quindi a disegno e illustrazione, con cui ha elaborato parte della tesi di dottorato. Ha approfondito in seguito tecniche e linguaggi della fotografia e del documentario audiovisivo con corsi formativi e progetti vincitori di bandi di concorso. 

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