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Emilia Pérez tra performatività e sovversione dell’identità di genere

da Emilia Perez

da Emilia Perez di Jacques Audiard

di Annamaria Clemente 

«Este caso, este caso, este caso / Señor presidente, señor juez / Honorables defensores de la familia de la difunta / Honorables colegas de la parte civil / Estimados miembros del jurado / Estoy de acuerdo con mis colegas de la fiscalía  / Este caso es un caso demasiado mundano / Es un caso de violencia». (Questo caso, questo caso, questo caso/ Signor presidente, signor giudice/ Onorevoli difensori della famiglia della defunta/ onorevoli colleghi della parte civile/ Stimati membri della giuria / Sono d’accordo con i miei colleghi dell’accusa/ Questo caso è un caso fin troppo ordinario/ È un caso di violenza). Sibila a denti stretti una indignata Zoe Saldaña, mentre batte freneticamente sulla tastiera di un pc. Non sappiamo nulla di lei e del suo personaggio, ma i sottotitoli della canzone scorrono, e i nostri occhi corrono dalle parole alla visione di un volto stanco e smunto, di un corpo esile segnato da stanchezze e frustrazioni profonde che narra molto più di quanto vorrebbe.

In pochi minuti dall’inizio della proiezione, chiamati al banco della giuria, inquadriamo il leitmotiv, la violenza, e la cornice narrativa, Città del Messico. Si apre così Emilia Pérez, film del regista francese Jacques Audiard, presentato al 77˚ Festival di Cannes, trionfatore ai Golden Globes e candidato a 13 premi Oscar. «De qué hablamos hoy y ahora?» È questa la martellante domanda che Rita Mora Castro (Zoe Saldaňa), praticante avvocata sottopagata, scrive nell’arringa commissionata dal capo a difesa di un cliente reo di aver ucciso la moglie. Il femminicidio retoricamente trasformato in suicidio assolve l’assassino, alimentando un clamore mediatico che catapulta l’anonima dottoranda nel cuore della scena pubblica nazionale e desta l’interesse di un misterioso uomo che le offre, telefonicamente, la possibilità di diventare ricca a patto di occuparsi di un caso non meglio identificato. L’offerta è allettante e sulle note di Todo y Nada Rita fa un bilancio: lo sfruttamento lavorativo, l’assenza della meritocrazia, le discriminazioni subite. La canzone diventa occasione di denuncia sociale, una ribellione contro le ingiustizie, il razzismo, il sessismo, la precarietà, segnando la prima trasformazione identitaria di uno dei personaggi della storia.

Sulla ripetizione ipnotica del nada, nada, nada, di chi è senza alcun diritto, ed il todo, della brama di ottenere tutto, Rita cambia il proprio destino recandosi all’incontro. ma l’appuntamento è un sequestro di persona e la giovane riconoscerà nel suo interlocutore il pericoloso narcotrafficante Juan Manitas Del Monte (Karla Sofía Gascón). Sopraffatta ascolterà Manitas premettere: «Si le digo de qué se trata, ya no hay vuelta atrás» – se le dico di cosa si tratta, non ci sarà più modo di tornare indietro – perché «Oírlo es aceptarlo» – ascoltare significa accettare: nel potere performativo della parola, il linguaggio funge da contratto implicito e come nei rituali che sanciscono identità e appartenenza ha potere trasformativo. Rita accetta e il narcotrafficante racconta del piano: vuole diventare donna. Rita dovrà cercare un medico e una struttura nel massimo riserbo affinché il processo di transizione già avviato vada a buon fine e per fare ciò avrà a disposizione le risorse illimitate di Manitas.

9788832901931Il film esplora vari temi quali l’identità di genere, il corpo trans come spazio di trasformazione e resistenza, le dinamiche di potere, offrendo la possibilità di una lettura interessante se osservati attraverso la teoria Queer e il pensiero post-strutturalista di Judith Butler. È noto come Butler scardini e decostruisca l’essenzialismo del concetto di genere, rifiutando l’idea che si nasca semplicemente uomini o donne, che il genere sia una datità naturale, realtà fissa e mera differenza sessuale primaria. Al contrario, il genere è una costruzione sociale che emerge dalla ripetizione di pratiche e atti che producono l’apparenza di una sessualità coerente e stabile nel tempo.

La teoria della performatività di genere attinge dalla pragmatica e dalla teoria degli atti linguistici di John L. Austin concettualizzando il genere come qualcosa che si fa, un processo in divenire, che riprende il verbo centrale utilizzato da Simone de Beauvoir ne Il secondo sesso: «donne non si nasce, lo si diventa» (Beauvoir 1961: 271).  «La tesi che il genere sia performativo cercava di mostrare che ciò che consideriamo come un’essenza interiore del genere stesso è qualcosa che viene fabbricato attraverso una serie costante di atti, postulati attraverso la stilizzazione di genere del corpo. Così facendo, mostrava che quella che consideriamo una nostra caratteristica “interiore” è ciò che in realtà anticipiamo e produciamo attraverso determinati atti del corpo, al limite, un effetto allucinatorio di gesti naturalizzati» (Butler 2013: XIV).

Se il concetto di performatività mostra il genere come risultato di atti reiterati che producono l’effetto allucinatorio di un’essenza interiore, il sentirsi uomo o donna, Butler amplia la riflessione svelando il processo di naturalizzazione occultato nel costrutto stesso, processo che sostiene il sistema di potere eteronormativo. Tale sistema istituisce norme e gerarchie, definendo ciò che è accettabile – l’eterosessualità – e ciò che è deviante, ovvero le altre forme di orientamento sessuale. La ripetizione di atti performativi produce il genere ed è garante di un certo ordine sociale che premia la conformità e punisce la trasgressione, alimentando un meccanismo di regolazione e controllo sociale perpetuo.  «Dato che non c’è né un’“essenza” che il genere esprimi o esteriorizzi, né un ideale oggettivo cui il genere aspiri, e dato che il genere non è un fatto, sono i vari atti del genere a creare l’idea stessa del genere e senza quegli atti non ci sarebbe il genere. Il genere è, dunque, una costruzione che regolarmente occulta la propria genesi; il tacito accordo collettivo, che riguarda la performance, la produzione e il mantenimento di generi distinti e polarizzati quali finzioni culturali, è oscurato dalla credibilità di tali produzioni, e dalle punizioni che conseguono se non si acconsente a crederci; la costruzione ci «impone» di credere nella sua necessità e naturalità» (Butler 2013: 197-198).

In questa prospettiva, l’eterosessualità non è solo un orientamento, ma un dispositivo di potere che regola la sessualità attraverso norme e interdizioni, sostenendo meccanismi di esclusione che perpetuano un ordine patriarcale che marginalizza il femminile e identità sessuali non conformi. Il pensiero di Butler è sovversivo e complesso, e le implicazioni del suo argomentare non possono esaurirsi in questa sede, ma ciò che è pertinente alla nostra lettura è focalizzare il dato della reiterazione degli atti performativi, i quali trasformano un corpo biologico neutro in corpo sessuato, un processo che non si limita all’azione ma è reso possibile dalle pratiche discorsive che regolano, prescrivono e danno senso a tali atti, inscrivendoli in un sistema normativo di significazione. È attraverso tali atti e tali pratiche che il corpo assume il genere, diviene riconoscibile e acquista una posizione nel contesto sociale. Questo processo riguarda la differenziazione tra i corpi maschili e femminili, la sessualizzazione degli organi e le pratiche corporee. Persino il piacere sessuale è regolato da prescrizioni sociali che stabiliscono quali stimolazioni sono legittime e quali no, conformando il corpo ad un sistema normativo che regola il desiderio e la sua manifestazione.

9788858106761Tuttavia, se la performatività degli atti del genere impone il binarismo e rafforza strutture di potere, essa apre la possibilità alla stessa sovversione del sistema. Per Butler la performatività non è mai una mera riproduzione meccanica, ma un processo dinamico che, attraverso la reiterazione può generare alterazioni capaci di destabilizzare l’ordine normativo e sfidare le strutture di potere. Tali alterazioni sono concretizzate dalle soggettività queer, i transgender e i non binari, le drag queen e le drag king. Ed è proprio in questo movimento dialettico tra ripetizione e sovversione che i personaggi del film sembrano collocarsi, nel difficile compito di trovare il proprio posto e seguire i propri desideri in un mondo dominato dal potere e dalla violenza.   

Nel film è possibile osservare come l’ingranaggio della performatività e la costruzione dell’identità sessuale di Manitas/Emilia si sviluppino indagando sia la performance di Emilia e interrogando retroattivamente la strategia adattiva del fu Manitas, il quale per sopravvivere alla criminalità afferma di essersi conformato ad essa esercitando il dominio del terrore. Emilia con la transizione consegue la femminilità, incarnandola chirurgicamente ed esibendola attraverso una serie di atti performativi precipui al genere: nell’abbigliamento, negli ornamenti, nelle acconciature, nell’espressività corporea fatta di oscillazione dei fianchi e gesti aggraziati, nell’espressione emotiva totalmente imperniata sulla dolcezza e l’altruismo. Emblematica la scena delle dimissioni dalla clinica in cui l’ex Manitas e la non-ancora Emilia siede sul letto mostrando le spalle nude, indossa un reggiseno, intenta a simulare una presentazione e modulare la voce: «Piacere, io sono Emilia Pérez». Il soggetto guarda di fronte a sé, al panorama oltre la finestra proiettando il suo sguardo all’esterno verso un futuro immaginario, non mostra il viso e noi possiamo solo osservare il suo corpo, un corpo biologico dotato di attributi sessuali specifici ma non ancora denotato culturalmente.

Le prove dell’atto del presentarsi rimarca la tensione tra la materia biologica appena plasmata e l’identità sociale, la maschera da legittimare socialmente. La scena enfatizza il ruolo delle convenzioni culturali nel definire il femminile e la femminilità, in particolare per mezzo della voce conformata al genere, alla persona da creare. Emilia non si limita a incarnare il sesso e costruisce attivamente uno spazio in cui riconoscersi. Progenitrice di un mondo nuovo crea una genealogia femminile che si sottrae alla tradizionale trasmissione patriarcale: tesse un legame confidenziale con Rita; instaura un dialogo con Jessi (Selena Gomez), ignara ex moglie richiamata in Messico insieme ai figli con la complicità di Rita; tenta di costruire con entrambe le donne e il personale della casa una famiglia queer; fonda una ONG, La Lucecita, luogo per sedare rimorsi, assolvere peccati e orizzonte di riconoscimento ispirato a forme nuove di relazione e solidarietà femminile.

La transizione non è solo un processo individuale, è un atto di reinscrizione nel mondo attraverso il quale rinarrare la propria storia inserendola come filo di un intreccio di memorie condivise con altre donne, una riscrittura del proprio destino che si sovrappone ai corpi dei figli, dei mariti, dei padri, dei nipoti – ai tanti desasparecidos – a cui offre un ritorno, un nome, un riconoscimento nel fluire della memoria. Anche le immagini evocano la necessità di un sodalizio femminile. Il primo vero dialogo tra Rita ed Emilia avviene la sera dell’arrivo dei bambini, quando la prima riprende bonariamente la seconda per non essersi contenuta nel manifestare affetto. É il modo in cui Audiard crea la scena a renderla altamente simbolica: non siamo lì con loro, ma sbirciamo dall’esterno vedendo solo una finestra illuminata. Sentiamo le loro voci, come se fossero raccolte in un unico grembo, nell’utero della casa da cui usciranno come sorelle. A ciò si aggiunge il modo in cui Emilia si pone nei confronti dei figli con la naturalezza di una madre, innescando la rabbia di una Jessi inconsapevole. Intrappolata in un gioco di potere che le sfugge sarà proprio lei ad infrangere il mondo di plastica di Emila e far riemergere la violenza di Manitas acquetata, ma non troppo, sul fondo della coscienza.

i__id5995_mw600__1xIl rapporto fra le due offre uno spazio per ripensare al modo in cui riproduciamo e giudichiamo i ruoli sociali del genere. Se Emilia esaudisce il proprio Deseo, quel diritto di esistere nella propria verità, nel «Yo solo deseo ser ell», Jessie seguendo il proprio cammino di donna che si accetta nonostante le contraddizioni si configura paradossalmente come antagonista. Contattando l’ex amante e trascurando i figli, eccedendo nei comportamenti e manifestando senza filtri il proprio desiderio sessuale, si definisce in opposizione all’altra, caratterizzandosi con attributi negativi, non conformi alla natura femminile. Eppure, Jessi non diversamente dalle altre segue il proprio desiderio di volersi bene, «es mi camino», dopo anni di solitudine e abbandono. Jessi è nemica perché il Sistema non accetta altri modi d’essere madre mentre Emilia riproduce e ripete un modello femminile normato personificando l’idea di madre socialmente prescritto.

Volutamente serpeggia quella che è una apparente rappresentazione stereotipata tra i generi e nel genere, la realtà filmica insiste su opposizioni nette salvo poi mostrarne la fragilità: le dinamiche colpevole e innocente, buono e cattivo, vulnerabilità e potere. C’è un mondo maschile violento e spietato abitato da Manitas, dal capo di Rita, dal compagno di Jessi e c’è un mondo femminile idealisticamente armonioso preteso da Emilia. Ma tale utopia non è altro che una inversione speculare di quel mondo che si vuole di volta in volta maschile, criminale, corrotto. È la pervasiva logica del potere che inquina e rende marcio ciò che tocca, come cantano in duetto le due donne in El Mal. Rita da vittima una volta conquistata una posizione di potere è collusa con lo stesso sistema che l’aveva oppressa mentre Emilia finisce per riprodurre la stessa violenza di Manitas.

A ben guardare la violenza è consustanziale alla transizione, la quale è possibile solo grazie al denaro accumulato con il crimine, il successo della ONG è dato dal terrore che ancora instilla la figura di Manitas e dalla rete di contatti che Emilia continua a mantenere. Quando Jessi le comunica che andrà via da casa portando con sé i bambini, Emilia non dialoga ma minaccia pesantemente l’ex moglie. Emilia è, e rimane un prodotto del sistema: io sono sempre stato due. Il mio vero io e la bestia che mi seguiva. Io sono nato nel porcile dirà Manitas. Il cartello della droga, la logica della sopraffazione e del controllo non svaniscono con la transizione perché sono elementi strutturali della realtà in cui Manitas/Emilia è formato/a. Echeggia la profezia del chirurgo «Lady/ you know i only fix the body/ skin bone, but i will never fix the soul/if he’s a he, she’ll be a he/if he’s a she, she’ll be a she/ if he’s a wolf, she’ll be a wolf/ if he’s the wolf, you’ll be his sheep» (Lady / sai che aggiusto solo il corpo / la pelle, le ossa, ma non aggiusterò mai / l’anima / se è un lui, sarà un lui / se è una lei, sarà una lei / se è un lupo, sarà un lupo / se è il lupo, tu sarai la sua pecora).

da Emilia Perez

da Emilia Perez di Jacques Audiard

Cambiare l’involucro, raggiungere la forma desiderata, indossare una pelle diversa non basta per sfuggire alle strutture di potere e ai meccanismi che modellano gli individui. La transizione di Manitas in Emilia non è una rottura con il passato, come Manitas ardentemente sperava, ma un processo che avviene all’interno delle stesse logiche che lo definivano da sempre. La bestia non è il maschile ed è la violenza esercitata dal sistema che è il porcile, una forma di espressione del potere che Emilia non riesce a disimparare. Il potere non è solo una imposizione, è una forza tale che forgia i soggetti, una lezione appresa da Butler grazie al pensiero di Foucault: «In ciascuno dei casi, il potere, che inizialmente appare come esterno, imposto al soggetto, in grado di porre il soggetto in uno stato di subordinazione, assume una forma psichica che costituisce l’identità stessa del soggetto» (Butler 2005: 9).

Emilia Pérez non narra una semplice transizione ma racconta il modo in cui un transgender tenta di capovolgere un sistema di potere, sia esso patriarcale, criminale o economico così come propone una riflessione sull’identità non limitata al genere essendo uno spazio per ridiscutere le molteplici forme e percorsi, sbagliati o giusti che siano, che un individuo può agire per autodeterminarsi. A dispetto dell’epilogo la scena finale della statua in processione sancisce l’affermazione pubblica di Emilia. La costruzione sociale e culturale di sé diventa ultima realtà, si sublima in simulacro, imitazione scissa da ogni rappresentazione preesistente, simbolo di puro amore portato a spalla da una comunità che cantando insieme all’amata Epifania (Adriana Paz)  continua a dare corpo alla sua eredità e alla sua identità. In una scena si condensa così l’arringa di Rita, che si fa contrappunto reale all’argomentazione del chirurgo: « Changing the body changes society /Changing society changes the soul/ Changing the soul changes society/ Changing society changes it all».   

Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025
Riferimenti bibliografci
Butler J., 2005, La vita psichica del potere. Teorie della soggettivazione e dell’assoggettamento, trad. it. Bonini E, Scaramuzzi C., Meltemi Editore, Roma.
Butler J., 2013, Questioni di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, trad. it. Adamo S., Laterza, Roma.
Butler J., 2014, Corpi che contano. I limiti discorsivi del “sesso”, trad. it. Cappelli, Feltrinelli, Milano.
De Beauvoir S., 1961, Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano.
Mauss M., 1965, Teoria generale della magia e altri saggi, trad. it. Zannino F., Giulio Einaudi Editore, Torino.  
I testi delle canzoni sono disponibili al sito: Clément Ducol & Camille – Emilia Pérez (Original Soundtrack) Lyrics and Tracklist | Genius 
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Annamaria Clemente, laureata in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo, è interessata ai legami e alle reciproche influenze tra la disciplina antropologica e il campo letterario. Si occupa in particolare di seguire autori, tendenze e stili della letteratura delle migrazioni. Su questo tema ha scritto saggi e numerose recensioni. Ama la fotografia cui si dedica da dilettante.

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