Trovarsi a scrivere di un film tanto noto, visto e commentato, con ben tredici candidature agli Oscar 2025 e molti altri riconoscimenti, non è molto facile. In un modo o nell’altro, direttamente o indirettamente, ciascuno se ne è già fatto un’idea. Non è in discussione l’eccellenza della fotografia (Paul Guilhaume), della capacità orchestrante della regia (Jacques Audiard). Non è in discussione l’originalità della storia (tratta dal romanzo Écoute di Boris Razon), la qualità della colonna sonora originale (Clément Ducol) e dei brani (Camille Dalmais) – si tratta di un film musicale – , la recitazione di Karla Sofia Gascòn, prima attrice transgender a essere candidata come migliore attrice protagonista e di Zoe Saldana (candidata come miglior attrice non protagonista)…
Probabilmente, l’unico modo per scrivere di questo film, cercando di offrire un contributo utile e forse inedito, è non parlare del film in sé ma di un’idea che sottende; un’idea che ha origini antiche: l’illusione che il femminile sia intrinsecamente buono, materno e salvifico. Sposata soprattutto da donne, quest’idea si traduce banalmente nei tanti: “tra noi donne ci capiamo”. Chissà poi perché… Solidarietà femminile, sensibilità acuita dalla archetipica propensione a offrire protezione materna? Stereotipo assoluto?
Come dirà il personaggio di Rita Moro Castro, avvocat(a) ampiamente sfruttata e disillusa che accetterà di seguire il narcotrafficante Manitas del Monte nel suo desiderio di cambiare sesso: «cambiare corpo è cambiare la società, cambiare la società è cambiare il mondo». È questa la tesi che il film tenta di argomentare.
La storia è promettente. Pone questo film all’incrocio tra tanti generi. Musical, thriller… Non appena lo spettatore capisce quale sia la curiosa richiesta del protagonista, comincia ad attendersi qualcosa di rivoluzionario… Un punto di vista sorprendente sui temi afferenti alla cultura LGBT.
Attenzione, però. Malgrado l’apparenza, non si tratta di un film riconducibile a quelli che le piattaforme digitali propongono sotto la categoria LGBT. Si tratta di un film sul femminile come utopia. Diventare donna è vissuto dal protagonista come un rito di purificazione. Così racconta il proprio progetto a Rita, la giovane avvocat(a). E tuttavia, per riuscire a parlarle, la belva che ancora alberga dentro Juan Manitas del Monte, prima la fa sequestrare e incappucciare e poi, quando se la trova di fronte, le preannuncia che deve dirle qualcosa da cui non si torna indietro. Come se il bene lo si potesse estorcere con la paura.
Agita, in un primo momento, come un burattino, Rita pian piano sembra arrendersi, abbandonare lo scetticismo e sposare in pieno la volontà di redenzione del criminale che l’ha ingaggiata affinché lo aiutasse a farsi donna. A rendere tutto più convincente agli occhi di Rita c’è l’amore scoppiato tra Emilia (Juan fattosi femmina) ed Epifania. Quest’ultima è una donna maltrattata dalla vita e dal marito scomparso che si augura di non ritrovare se non cadavere. Emilia le indirizza tutta la propria tenerezza. Si fa protettiva. Sembra aver scoperto un amore generoso, ovvero l’unico vero amore. E non a caso, coerentemente rispetto alla tesi iniziale del film, è un amore tra donne, in cui non c’è penetrazione in senso letterale e metaforico, un amore che non prevede ferita. Ancora, un’utopia!
Sullo sfondo, il Messico, rappresentato attraverso una lunga serie di luoghi comuni, dai mariachi ai narcos, non è un luogo reale ma una metafora. È una grande placenta dentro cui scalciano tutte le passioni: desiderio incontenibile, anelito alla ricchezza e al controllo, amore, lutto e sete di vendetta. È un contesto in cui mancano le sfumature. Tutto è urlato, tutto sfavilla, con la complicità della musica che si presta a dare forza a ciò che i personaggi principali vogliono.
La gioventù è urlata, come le urla il personaggio di Jessica del Monte (Serena Gomez), moglie del protagonista, che rimane a lungo ignara del processo di transizione avviato dal marito. Si crede vedova di un uomo potentissimo ma brutalmente ucciso, che dichiara di aver amato moltissimo. Lei non poteva nulla da moglie e nulla può da vedova e madre. Gestita in tutto e per tutto dalla cieca volontà di Juan Manitas del Monte poi trasformatosi in Emilia Pérez, cerca e ritrova Gustavo, una antica passione giovanile con cui tornare a godere della propria giovinezza e con cui scoprirsi ancora usata, con l’urlo alla vita che le si strozza in gola.
Tutto il bene che nella storia si compie, ovvero la ricerca dei desaparecidos del narcotraffico ad opera di Emilia Pérez e della sua organizzazione no-profit, si compie all’insegna del più rigido controllo sulla vita degli altri, amati condizionatamente, amati attraverso il ricatto, amati all’interno di un regime di possesso che rappresenta l’altra faccia della medaglia di quella utopia del femminile da cui il film era partito. Emilia come una moderna Medea è una madre pasionaria. Converte l’antica sete di potere nel farsi Madre di tutti, con qualunque mezzo. Quale è la tesi del regista e sceneggiatore? (Jacques Audriard ha sceneggiato il film insieme a Thomas Bidegain)
Il film, nel bene e nel male, non si esprime chiaramente in merito alla natura e all’origine della belva che ha dentro Juan/Emilia. Imprinting socio-culturale? Se si fosse voluto sostenere che la “colpa” del male che Juan si porta dentro è della sua esposizione alla violenza del luogo, il film avrebbe dovuto prendere un’altra direzione. Ma la regia non prende posizione e il contesto non è trattato se non in un modo ipersemplificato, metaforico e stereotipato, espanso dalla musica che amplifica le laide maschere di un sistema irrimediabilmente corrotto. La musica fa riecheggiare l’azione, si fa coro, a volte, grecamente, esprime un presagio. Le coreografie di Damien Jalet sono quasi aggressive nei confronti dello spettatore. Lo spiazzano.
Così ancora, confusi da tanta ridondanza, dallo stile opulento del film, ci si chiede: la belva che è in Juan ha forse a che fare con una realtà ontologica afferente al maschile? Un male costitutivo che riaffiora, quando verso la fine la moglie che si crede vedova, in risposta a un fiotto di vita, tradisce il ruolo che Juan/Emilia le avevano assegnato? Forse.
Altre domande: di che natura è l’amore del protagonista verso i figli? Come considerare il ritrovarsi, alla fine, tra Emilia morente e Jessica che riconosce in lei il marito? Quella scena cavalca le emozioni tipiche e reazionarie del melodramma: l’infrangibile legame familiare, il sangue del tuo sangue sopra ogni cosa, il pentimento, la richiesta di perdono e, ancora una volta, di redenzione. Tutto quando è davvero troppo tardi.
Questo film è tutto una grande, festosa e tragica Domanda e funziona perché si consegna al pubblico con tutti i suoi dubbi. Funziona malgrado una certa delusione per l’inclinazione reazionaria che prende verso la fine.
Sembra suggerirci che persino l’inferno ha bisogno di utopie. E ne fabbrica in quantità. Tutti noi ne fabbrichiamo, pur condannati alla consapevolezza del loro essere “solo” utopie.
Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025
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Anna Fici, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi per i Corsi di Laurea di Scienze della Comunicazione presso l’Università di Palermo, ha coltivato parallelamente alla carriera accademica la pratica fotografica, che l’ha portata a vincere nel 2002 l’Internazionale di Fotografia di Solighetto (Tv), con il lavoro «Facce di Ballarò». A partire da quell’anno ha ricevuto numerosi riconoscimenti e ha svolto diverse mostre personali, prevalentemente nell’ambito dei Festival della Fotografia italiani. Oggi coordina dei laboratori di Fotogiornalismo per i corsi di Scienze della Comunicazione. È inoltre Direttore artistico di Collettivof – http://collettivof.com – un collettivo di fotografi di recente costituzione. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Nella giostra della Social Photography, Mondadori (2018); La linea spezzata. Una ricostruzione critica dell’attuale deficit di coerenza, Libreriauniversitaria.it Editrice (2021).
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