di Marcello Bivona
Cosa cerco in questa città? L’ho lasciata a cinque anni, ho vaghi ricordi: il mare, il sole, le strade, le voci, i gesti. I miei viaggi, finiscono per essere un pellegrinaggio infinito nella memoria. Devo recarmi, ogni volta, sui luoghi dei racconti, per convincermi che, in un passato dimenticato, probabilmente sono stato in quella strada, mi sono fermato davanti quella vetrina.
Nell’ultimo decennio del ‘900, l’avenue Habib Bourguiba, il cuore della città, è stata rimodernata: sparite le vecchie vetrine e gli arredi storici dei negozi, cambiata la pavimentazione dei marciapiedi e della lunga passeggiata, sradicata metà della lunga fila di ficus piantati cento anni prima, sostituita la vecchia illuminazione. Testardo, cerco ossessivamente dettagli originali: insegne, cartelli, maniglie di portoni, androni scuri con scale maiolicate. Estraniandomi da quanto mi circonda mi fermo lunghi attimi a guardare ciò che resiste al tempo e si consuma con me. La voce di mia madre mi martella le tempie e come un disco incantato ripete all’infinito la stessa frase: «Era bella Tunisi, troppo bella…».
Tunisi è una ferita aperta, un dolore lenito solo dalle voci famigliari dei mercati, dagli effluvi dei profumi persistenti, dai colori abbaglianti del cielo e del mare. Tunisi era una giostra, sulla quale tutto girava mantenendo ordinatamente il proprio posto. Tunisi cristiana, musulmana, ebraica. Tunisi araba, berbera, europea. Tunisi maltese, russa, spagnola, greca, siciliana. Tunisi: un delirio di popoli sovrapposti e mai amalgamati.
A metà ‘800 conservava ancora intatto il fascino dell’Oriente, attraeva viaggiatori d’ogni genere che nella sua diversità, cercavano, a pochi chilometri dall’Europa, la fuga dalla civiltà. Con l’instaurazione del protettorato francese, folle di diseredati, in fuga dalla miseria del sud Italia, in quelle stesse strade cercavano la fortuna. L’avrebbero trovata nel lavoro. Gli attriti tra le comunità erano forti, ma la convivenza nei quartieri aveva plasmato una figura multietnica estremamente moderna.
Dopo il rimpatrio, approdati nella periferia di Milano, ci siamo svegliati dal sogno. Prosciugati dal liquido amniotico che ci avvolgeva siamo entrati nel nuovo mondo piangendo, come neonati angosciati per la perdita del ventre materno. «Accendi, accendi, fanno vedere Tunisi!», un passaparola che di famiglia in famiglia attraversava tutta l’Italia, con l’ illusione di ricucire una diaspora già consumata. Avveniva quando la televisione dedicava uno dei rari servizi, alla nostra città. Ricevuto il messaggio, per dieci minuti si fermava tutto. Della notizia poco importava. L’attenzione era concentrata nel riconoscere una strada, un luogo del nostro vissuto. Poi erano incroci di telefonate per commentare, discutere e criticare ciò che si era visto: «Fanno vedere sempre le stesse cose», «sempre u zucco, a mora cu a futa…disgraziati!».
Tunisi era altro, noi lo sapevamo. Tunisi era Orano, Istambul, Il Cairo, quando Orano, Istambul, Il Cairo parlavano molte lingue e pregavano in luoghi differenti ma vicini.
Tunisi era il ricordo in bianco e nero dei filmati degli anni ‘60: luce abbagliante, occhiali da sole, gonne strette sopra il ginocchio, tacchi vertiginosi, scarpe bianche. Tunisi era la corte del Bay, un re che viveva in un palazzo da mille e una notte, destituito e privato di ogni bene da Bourguiba. Era la figlia del Bay che ora raccontava ai turisti convenuti al suo ristorante dal nome evocativo, Bent El Bey, i fasti di un tempo.
Tunisi era la preghiera del venerdì, i lunghi digiuni del Ramadan quando in alcuni caffè, occultati ai passanti da pesanti teli alle vetrine, si continuava a bere molto alcool. Tunisi era la montagna di dolci grondanti miele nel mercato di Halfawine. Tunisi era la nostra Pasqua, il ramo d’ulivo e i campanari cu l’ovo. Tunisi era Natale di crèche e Papà Nöel. Tunisi era una convivenza di duemila anni tra arabi ed ebrei, distrutta quando la politica ha inventato il problema.
Tunisi era un profumo intenso di gelsomini che ti obbliga a ricordare col dolore della nostalgia. Tunisi era l’odore di couscous che giunge dalla finestra aperta di una strada secondaria in ombra. Tunisi era les terrasses dei caffè gremite sull’avenue nell’ora in cui il cielo si fa rosso e il cinguettio assordante di migliaia di fringuelli nascosti tra le foglie dei ficus ti obbligava a parlare più forte. I quartieri coloniali, brulicanti di disperata vitalità, oggi sono in declino, mentre la nuova città avanza inesorabile mangiando come un cancro, metro dopo metro, la Tunisi di mia madre.
No, questa non è più Tunisi. È una città che ha chiuso le ali all’accoglienza, asservita al colonialismo della globalizzazione, convinta che il progresso stia nel somigliare il più possibile a un qualunque altro posto della terra che abbia la stessa musica, gli stessi locali alla moda, lo stesso modo di mangiare e consumare.
Mi avventuro circospetto nelle strade dei nuovi quartieri. Ristoranti alla moda, insegne al neon, vetrine, gallerie illuminate a giorno, fiumi di automobili, viali incorniciati da orribili stabili di otto piani in anonimi quartieri nati come funghi. L’angoscia mi attanaglia. La Tunisi che ho dentro è quasi sparita. Le “nostre” spezie, i “nostri” dolci, ora si trovano al Carrefour, al Monoprix e io mi ostino nella spasmodica ricerca di ciò che non esiste più. Probabilmente è il pretesto perché la mamma continui ad essere viva. Lo sradicamento dalla sua città era stato un dolore talmente grande che prosegue nella vita di chi l’ha amata. La mamma viveva la sua nuova esistenza a Milano apprezzando ciò che di positivo le offriva. Di Tunisi collezionava le cartoline. Le ordinava negli album che le compravo. Le raccoglieva per noi, per me e Antoinette. Era la nostra eredità, perché quando ci avrebbe lasciati, guardando quelle immagini avremmo sempre saputo dove trovarla.
La mamma ritornò a Tunisi nell’agosto 1990, trent’anni dopo averla lasciata. Non era convinta di quel viaggio. Ascoltava i commenti di quanti, partiti come noi al tempo dell’indipendenza, erano tornati. I loro racconti erano sempre carichi di delusione e sconforto: «È cambiato tutto», «Non è più la nostra Tunisi», «Cristiani non se ne vedono più…».
Preso dall’entusiasmo dei miei primi viaggi volevo che la mamma tornasse, almeno una volta, assieme a me. Doveva mostrarmi sul posto tutto quanto mi aveva raccontato. Certamente la delusione era in agguato, rientrava nel conto da pagare, ma ero sicuro che avrebbe ritrovato bellissimo il suo Paese. Me ne aveva parlato con troppo amore. E poi alla mamma piacevano le cose moderne, rinnovate. Quando vedeva una strada con palazzoni nuovi era sempre meravigliata: «Che bei palazzi hanno fatto» diceva. Se ribattevo che secondo me erano brutti e negativo l’impatto ambientale, rispondeva: «sei troppo difficile».
Sul viaggio a Tunisi temporeggiava: «non è il momento»…«non me la sento»…«vedremo per l’anno prossimo…». Capivo che la decisione aveva bisogno di essere elaborata ma dopo mesi trascorsi a convincerla passai ai fatti: le feci il passaporto, e quando vide anche il biglietto aereo non le restò che preparare la valigia. Quel viaggio che desiderava ma non voleva fare fu indimenticabile. Finalmente io e lei sul volo diretto Alitalia Milano-Tunisi. Antoinette in nave ci avrebbe raggiunti da lì a qualche giorno con la famiglia.
Avrei voluto che la mamma rivedesse dal mare la sua città, così come l’aveva lasciata. Ma il viaggio in nave sarebbe stato troppo faticoso per lei. Sull’aereo in attesa di decollare era emozionata, silenziosa, raccolta nel compimento di un evento che rimescolava senz’altro tutte le carte con le quali aveva giocato (si fa per dire) per l’intera vita. Con la camicetta fiorata e la grande borsa nella quale cercava continuamente qualcosa stava tornando nella sua Tunisi.
Ricordai il porto della partenza. In migliaia lasciavamo il luogo in cui eravamo nati. Ogni mercoledì partiva la nave dei rimpatriati. I fotografi immortalavano le partenze e distribuivano i biglietti da visita ai parenti che nei giorni seguenti andavano a ritirare le foto. Una fotografia ci ritrae sul ponte della nave. Siamo aggrappati al parapetto, io sono in braccio a Nuccio, il fratello maggiore, Antoinette è in braccio alla mamma, Dina, la primogenita è da sola, papà non c’è, forse sta cercando la nostra cabina. La foto porta un timbro e una data: 15 aprile 1959 – Photo Lido- avenue Habib Bourguiba – Tunis.
Il viaggio in aereo durò poco più di un’ora e quando dall’oblò la mamma iniziò a decifrare gli agglomerati delle case bianche di Cartagine e il verde intenso delle palme fu presa da una incontenibile eccitazione. Il velivolo si preparava all’atterraggio e lei mi chiamava, mi mostrava, mi indicava. Il bianco delle case sfumava nell’ocra abbagliante delle spiagge, nel blu intenso del mare. La mamma usciva dalla nebbia della periferia milanese alla quale ci eravamo abituati da un pezzo e ritrovava i suoi luoghi. A terra, l’intensità di un caldo che non ricordava più le arrossò il volto sudato. Una brezza leggera a momenti la spettinava e accentuava la sua aria di bambina ubbidiente.
Era proprio bella. E che bella quella mattina d’agosto io e lei all’aeroporto di Tunisi… Guardava tutto con aria meravigliata; si risvegliava da un incantesimo che l’aveva portata lontano in un’altra vita. Non ci fu bisogno di molte parole, la nostra comunione quella mattina passava per altre vie. I racconti c’erano già stati, tanti, bellissimi. Ora, un leggero tremore attraversava i nostri corpi. La guardavo quando lei non mi guardava. Con pudore ero felice di saperla felice. Fuori dall’aeroporto fu come entrare nel castello delle meraviglie. Nel centro storico ritrovò la sua Tunisi e iniziò il gioco di cosa riconosceva e cosa no.
Cominciava ad avere seri problemi alla schiena, le davo il braccio, la sostenevo, ma non si fermava, doveva camminare, mostrare finalmente ciò che mi aveva raccontato: qui lavoravo… là passavo ogni mattina… in fondo a quella strada è quando ti raccontavo che… lì non era così…La giornata era trascorsa in un baleno e a sera la mamma era sfinita; si appoggiava, si sedeva ovunque fosse possibile, ma non smetteva di raccontare.
Dormimmo in una stanza ai piani alti dell’Hotel du Lac chiamato “La pyramide inversée” per via della sua forma originale. Era stato inaugurato nei primi anni ‘70 su progetto dell’architetto italiano Raffaele Contigiani. Tra i più felici esempi di architettura brutalista di Tunisi, oggi versa in grave stato di abbandono e rischia l’abbattimento. Ma quella sera la grande vetrata della nostra stanza dominava Tunisi tutta illuminata, pareva un grande schermo televisivo al quale era stato tolto l’audio. La mamma guardava piena di meraviglia lo scorrere caotico del traffico verso l’avenue Gambetta, oggi Hamed V. Com’era diversa dalla città che aveva lasciato. All’ epoca c’ erano i manèges, meta delle nostre passeggiate domenicali, ora sostituiti da grandi e moderni edifici che compongono il centro economico e direzionale della città. Con le braccia conserte guardava le insegne intermittenti, i palazzi illuminati a giorno, il carosello delle auto attorno alla rotonda di place 4 Novembre. Le piaceva quella modernità che ai suoi tempi non c’era.
Aveva trovato tutto meraviglioso il giorno del ritorno. Non so quanto la mamma abbia dormito quella notte. La mattina dopo si alzò di buon’ora e dopo colazione tornammo in strada a ricucire brandelli di vita.
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
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Marcello Bivona, è nato a Tunisi nel novembre 1953. All’età di cinque anni lascia la Tunisia a causa delle vicende che costringono la comunità italiana al rimpatrio. Da allora vive nella provincia di Milano. Il tema dell’Identità e della memoria sono presenti in tutta la sua opera. Lo strappo lacerante della partenza, l’esperienza disorientante della nuova vita in Italia, sono la base dei suoi racconti che siano scritti o filmati. Ha lavorato per molti anni come bibliotecario e organizzatore di eventi culturali realizzando diverse opere tra cui: Clandestini nella città, lungometraggio, prod. C.O.E., 1992; Ritorno a Tunisi, docufilm lungometraggio, prod. C.O.E, 1998; L’Ultima Generazione, romanzo, edizioni BESA, 2019; Siciliani d’Africa – Tunisia Terra Promessa, docufilm lungometraggio, prod. A. Campisi, 2022.
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