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Erasmo da Rotterdam: un pioniere del pacifismo

cover1di Augusto Cavadi 

Erasmo (1466 – 1536) è nato a Rotterdam in Olanda ed è morto a Basilea. Visse dunque in un momento storico tra i più bellicosi della storia occidentale. 

Il capitalismo agrario avvia l’abolizione dei campi “aperti” e gli usi civici dei contadini scatenandone le insurrezioni; la cristianità si spacca in due blocchi ferocemente contrapposti (Chiesa cattolica romana e Chiese protestati riformate); perfino fra sovrani della stessa confessione religiosa (cattolica) come il re Francesco I e l’imperatore Carlo V si combatte ricorrendo ad armi inedite quali i cannoni (che Ludovico Ariosto, nell’Orlando furioso del 1516, chiama “machina infernal”) [1]; come se ciò non bastasse, navi dotate di cannoni vengono schierate contro l’impero turco e spedite ai quattro angoli del pianeta per colonizzare e schiavizzare le popolazioni più indifese. 

Alla follia imperante oppone un una postura intellettuale e morale che oggi potremmo definire di spiritualità laica: una sorta di religio naturalis in cui s’intrecciano la sapientia greca e l’insegnamento cristiano (dei primi secoli). Erasmo la chiama anche   philosophia, ma precisando che si tratta di trasformatio quam ratio. 

Nel contesto storico che gli appare tecnicamente manicomiale, Erasmo prova ad opporre la voce della saggezza più antica che, per lui umanista, è un intreccio inseparabile di saggezza filosofica greco-romana e di saggezza teologica evangelica. A soli venti anni (in un convento dove è costretto a vivere per sopravvivere alla morte precoce del padre e della madre) pubblica la sua prima opera, Il disprezzo del mondo, in cui “accanto alle settanta citazioni dai classici – Virgilio, Orazio, Ovidio, Terenzio, Lucano, in particolare Giovenale – ce ne sono solo cinque dalla Bibbia. E il tutto fa più appello alla ragione umana che alla fede ecclesiastica. (…) Difende deliberatamente l’epicureismo – tota vitae nostrae ratio epicurea est – e definisce Gesù il suo «amico più importante», per citarlo allo stesso modo con cui cita Virgilio o Cicerone [2].
Ed è in questa prospettiva sapienziale che in uno dei suoi primi trattati, Orazione sulla pace e la discordia contro i faziosi, non si capacita della stoltezza dei contemporanei: “Oh, irragionevole ragione degli uomini che pur potendo vivere ininterrottamente felici, a causa della loro ambizione, si mettono in testa una continua infelicità! E ciò mentre dall’honestas scaturisce la vera voluptas, che rende già possibile un’esistenza armoniosa sulla terra” [3]. 

coverrOvviamente un personaggio del genere viene guardato con sospetto dai protestanti perché resta cattolico, dai cattolici perché riconosce molte ragioni dei protestanti [4] e dai cattolici e dai protestanti insieme perché troppo umanista, troppo ‘laico’ [5]. Così, mentre in vita arrivò a una fama eccezionale (anche grazie alla fortuna di vivere «l’età dell’oro che si colloca tra la scoperta europea della stampa e quella del suo antidoto, l’Index librorum prohibitorum» [6]), nell’ultimo decennio assistette al fallimento del suo programma riformatore: «la sua disfatta sembrò totale. La grande crisi della Riforma aveva diviso i suoi seguaci, e papi e principi non poterono aiutarlo. (…) I discepoli di Erasmo, nel primo Cinquecento, costituivano l’élite spirituale e intellettuale d’Europa (…). Avrebbero potuto fondare una nuova Europa» e «invece vennero inghiottiti dal profondo e sempre più largo abisso che avevano tentato di colmare»[7]. 

Diagnosi 

Vediamo, innanzitutto, la fotografia – o la diagnosi – della manifestazione della follia costituita dalla guerra. Essa non è un male come gli altri, ma una sorta di culmine/sigillo che enfatizza sino al parossismo la condizione antropologica di base: «Quanto è breve, fuggevole, fragile la vita dell’uomo, a quanti mali è esposta, quante malattie, quante calamità l’assalgono di continuo: disgrazie, naufragi, terremoti, fulmini.  Non vi sarebbe quindi alcun bisogno di aumentare i mali con le guerre; di qui tuttavia nascono più mali che da ogni altra calamità» [8]. 

Infatti: “Occhi di fuoco, volti pallidi, andatura frenetica, voce che diventa un ruggito insensato; sembra si sia divenuti di ferro tra il crepitio delle armi e le bombe dei cannoni. (…)  Ma oggi, tutto questo, si fa ancora più crudele con le frecce intinte dal veleno e con l’uso di macchine infernali: ogni sentimento di umanità è andato perduto”. Davvero Dulce bellum inexpertis (“Dolce è la guerra per chi non ne ha esperienza”)! [9]. E altrove aggiunge: “Ovunque nei campi si bruciano le messi…si danno alle fiamme tutti i casolari…le figlie violentate, le spose rapite…Il diritto è sepolto, le leggi sprofondate, la libertà sommersa, tutto è sottosopra” [10]. 

8Come i danni materiali non fossero abbastanza, la guerra ne provoca di morali: «Se le guerre non ci rendessero più sciagurati, più empi e più pronti a fare il male e se la pace ci rendesse solo più felici, e non migliori, potrei anche tollerarle; ma non è così ed è quindi malvagio chiunque le provoca”[11]. Tutti i mali naturali che possono capitarci, e che non possiamo evitare, ci rendono solo disgraziati, ma non malvagi. La guerra è il male più atroce e pernicioso, che da solo tutti li comprende e li supera» [12].

Ciò che stupisce Erasmo è un dato sociologico che rende ancora più disastroso il ricorso alla guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti: l’assuefazione ad essa da parte dell’umanità, anche colta. Scrive ad esempio: «Ne consegue che oggi ci si meraviglia di chi prova disgusto per il combattere; esso viene anzi così approvato che chi lo condanna passa per una persona irreligiosa e starei per dire eretica, come appunto se la guerra non fosse quanto di più scellerato e calamitoso esista al mondo»[13]. 

L’assuefazione alla logica bellica provoca uno sconvolgimento degli stessi criteri di giudizio morale:
“Chi ruba una veste è un infame, chi depreda tanti innocenti in guerra è annoverato fra i cittadini dabbene”[ 14]. Né basta a dissuadere dalle guerre la constatazione universale che esse sono deleterie sia nel corso del tempo in cui si svolgono sia per un lungo tratto di tempo successivo: “E non dimenticare i misfatti commessi con la scusa della guerra, quando le buone leggi sono messe a tacere dalle armi: le rapine, i sacrilegi, i ratti, e tutte le altre infamie, che si ha ritegno perfino a nominare. Ed è inevitabile che tale corruzione duri molti anni, anche quando la guerra è finita. Se poi fai il conto delle spese, vedrai che, anche se vinci, il danno è molto maggiore del guadagno. D’altra parte quale regno vale la vita e il sangue di tante migliaia di uomini?” [15]

3Preventivare ricavi e perdite dovrebbe essere un calcolo ragionevole ineludibile: «Che più folle dell’attaccar briga per una ragione qualsiasi, quando da ultimo, entrambe le parti finiscono sempre per averne più danni che vantaggi? In quanto a coloro che muoiono, di loro nessuno si cura» [16]. Proprio un calcolo razionale di profitti e svantaggi potrebbe portare a sostenere (riprendendo un pensiero di Cicerone) che: «Quasi sempre anche la più ingiusta delle paci è migliore della più giusta delle guerre. Vàluta prima ad uno ad uno i costi e i vantaggi della guerra, e vedrai che bel guadagno!» [17].

Tutte le considerazioni sinora svolte da Erasmo hanno un valore universale, ma egli ne aggiunge spesso altre rivolte più specificamente ai cristiani, soprattutto ai papi e ai vescovi. Di san Pietro «il Vangelo riporta la frase: “Abbiamo lasciato ogni cosa per seguire Te”; tuttavia i Santi Padri considerano come facenti parte del loro patrimonio campi, castelli, tributi, diritti doganali, giurisdizioni. Combattendo accesi dallo zelo di Cristo solo per questi beni e col ferro e col fuoco, non senza grande spreco di sangue cristiano, “confitti valorosamente i nemici”, come proclamano, credono di aver difeso con vera fede apostolica la sposa di Cristo. Come se la Chiesa potesse avere nemici peggiori degli empi pontefici, che lasciano dileguare Cristo dall’animo degli uomini…» [18]. 

Per coglierne meglio le ragioni di queste denunzie esplicite, pur dalla bocca di un cattolico, va ricordato che, quando il monaco nomade olandese finalmente aveva coronato il sogno di visitare l’Italia in quanto culla delle arti e delle lettere, vi arriva mentre “Papa Giulio II conduce nel modo più pagano una guerra orientata a dominium et potestas, come un novello Giulio Cesare. Erasmo partecipa amareggiato a Bologna al trionfale ingresso notturno del grande papa-soldato: torce accese, processioni di bambini esultanti, guerrieri, muli, cavalli, trombe, armi, vescovi e cardinali vestiti pomposamente e infine il papa, come un dio pagano, su una magnifica portantina, inneggiato da un popolo impazzito a cui vengono gettate monete d’oro luccicanti dalla lunghissima processione – cosa c’entra tutto questo con la simplicitas et paupertas nelle quali il vicario di Cristo dovrebbe eccellere? Cristo stesso fu illuminato da torce solo quando, con un Pietro disarmato, si preparò a morire in modo non violento per i suoi…” [19]. 

Terapia 

Cosa fare, allora, se si vuol passare dalla diagnosi alla terapia? Innanzitutto non assuefarsi all’intollerabile, non perdere la capacità di scandalizzarsi e di indignarsi, non banalizzare i mali come fossero elementi ineliminabili del paesaggio umano: «Ci siamo tal punto abituati alle guerre, al brigantaggio, ai tumulti civili, alle faziosità, ai saccheggi, alle pestilenze, alle carestie, alla fame che quasi non consideriamo più tutte queste cose come dei mali»[20]. 

A questa assuefazione contribuisce una ricezione letteralista – diciamo pure fondamentalista – della Bibbia, da cui dobbiamo prendere le distanze: “Se combattere fosse assolutamente vietato – si dice – Dio non avrebbe mandato gli ebrei contro i nemici. (…)  Se del resto l’esempio degli ebrei ci piace tanto perché non ci circoncidiamo, non facciamo sacrifici d’animali, non ci asteniamo dal mangiare carne di maiale, non diveniamo poligami? (…) Da quando tuttavia Cristo ha ordinato di riporre la spada, a cristiano non è più lecito combattere se non la più gloriosa delle guerre, ossia quella diretta contro i più spietati nemici della Chiesa, vale a dire il desiderio di denaro, l’ira, l’ambizione, la paura di morire. (…) Solo questa guerra può generare la pace vera” [21]. 

il-lamento-della-pace-erasmo-da-rotterdamSe di patologie si tratta, quando consideriamo la guerra e il suo contorno di guai, dobbiamo imitare i medici bravi che «per prima cosa indagano con precisione le cause del male, e quando le hanno scoperte, trovano il rimedio senza troppi indugi. Se non sono contenti del risultato, cercano altri mezzi per impedire la ricomparsa immediata del flagello. Perché, quando si tratta di mali così gravi e così frequentemente ripetuti come la guerra, gli uomini saggi ed esperti non studiano attentamente le ragioni per cui tali terribili morbi riappaiono bruscamente nel mondo, affinché si possano tagliare le radici e rimediare a mali così terribili? Perché noi siamo così attenti in affari meno importanti e siamo colpiti di cecità davanti a un problema tanto più grave?» [22].

Un primo, basilare, livello d’intervento non può non essere che il pedagogico. Il che presuppone una realistica visione dell’uomo ed un’autocoscienza critica da parte degli educatori.

Una realistica antropologia considera l’ambivalenza costitutiva dell’essere umano: 

L’uomo è predisposto ad un’effettiva ragionevolezza, ratio, in forza del suo ingenium o intellectus; tuttavia, tende fin dalla nascita piuttosto alla stultitia , all’immoralità e alla follia, che praticamente          si manifesta con ogni genere di ‘barbarie’ – ignoranza, immoralità, superstizione, crudeltà, ingiustizia, oppressione, guerra, ecc. – Il mero sviluppo intellettuale non può quindi essere d’aiuto perché, in caso di cattiva inclinazione, viene utilizzato in modo improprio. L’educazione quindi è un’eruditio orientata a saggezza, sapientia la quale, quando arriva a comprendere se stessa, diventa philosophia [23]. 

La consapevolezza dell’ambivalenza dell’essere umano deve indurre genitori e insegnanti, prima di ogni altra mossa, all’autocritica e all’autoformazione: 

Ogni educatore deve in primo luogo educare se stesso: tali genitori, tali figli! Ci sono perfino interi popoli che, quando i giovani hanno ancora la bocca sporca di latte, li addestrano alla guerra, insegnano loro ad avere uno sguardo minaccioso, a brandire la spada e infliggere ferite ai loro vicini [24] . 

29La prima palestra dell’avviamento alla violenza come postura abituale è la violenza contro gli animali, soprattutto se inermi e facilmente prede di caccia. Nelle epoche preistoriche, ipotizza Erasmo, «le uccisioni e le depredazioni» degli “animali” iniziarono per legittima autodifesa, ma poi «ci si spinse più avanti con comportamenti che Pitagora ritenne quanto mai empi e noi giudicare addirittura mostruosi se non ci fosse di mezzo la consuetudine. (…) Il fatto è che non esiste pratica così infame ed atroce che non s’imponga per la consuetudine di chi l’approva. Quale delitto usarono dunque compiere? Non si ritennero dal nutrirsi dei cadaveri delle belve estinte, di lacerare coi denti carne esanime e berne il sangue e, come dice Ovidio, dal “mettere viscere nelle proprie viscere”. Questo comportamento parve disumano alle indoli più miti, ma la consuetudine e la convenienza finirono con l’imporlo: piacque, e venne posto tra i piaceri che poteva dare un cadavere. Le carni vengono così seppellite sotto certe croste, aromatizzate, decorate con epitaffi: qui giace un cinghiale, qui è sepolto un orso; che piaceri cadaverici! Ma ci si spinse anche più in là. Dalle bestie feroci si passò a quelle più innocue. Dovunque vennero colpite le pecore, “un animale senza frode od inganno” [25], quindi le lepri, il cui solo delitto era di essere assai saporite. Non ci si astenne neppure dal bue domestico che pure, e lungamente, aveva nutrito con il suo sudore l’ingrata famiglia né si risparmiò alcuna specie di uccelli e di pesci, e la tirannide della gola arrivò anzi al punto che nessun animale poté sottrarsi alla caccia spietata dell’uomo. Anche a questo invero portò la consuetudine: ad usare crudeltà contro ogni specie vivente senza percepirla come tale se non colpiva l’uomo. Il fatto è che con i nostri vizi succede come col mare: possiamo forse porre qualche argine, rotto il quale non si può fare altro. Mare e vizi, una volta entrati, esulano dalla nostra volontà, ma vengono trascinati dalla loro forza d’urto. Addestrati da quanto abbiamo detto si passò all’omicidio: uno scatto d’ira persuase l’uomo a colpire il suo simile con un bastone, con un sasso o con un pugno, e ciò dal momento, come suppongo, che ancora non si disponeva d’altre armi; a forza infatti di sterminare gli animali si era capito che non era un grande sforzo sopprimere anche un uomo. (…) Non dubito che Pitagora, saggio qual era, avesse previsto questo esito quando con un espediente filosofico tentò di distogliere la moltitudine ignorante dall’uccidere gli animali. Intuiva che l’uomo, abituandosi a versare senza la minima provocazione il sangue di una bestia innocua, non avrebbe esitato, in balìa della collera e sotto lo stimolo della provocazione, a sopprimere il suo simile. Siamo così alla guerra. Che infatti essa è se non un omicidio collettivo e un latrocinio tanto più scellerato quanto più esteso? Ma queste riflessioni vengono derise e schernite da quegli stolti personaggi che al giorno d’oggi stanno al vertice del potere – personaggi che d’uomo hanno soltanto la figura pur ritenendosi addirittura delle divinità» [26]. 

Tra questo genere di folli sono da contarsi anche coloro che nutrono un profondo disprezzo per tutto ciò che non abbia a che fare con la caccia, ed affermano d’essere al settimo cielo non appena odono uno sgradevole suono di corno o l’abbaiare dei cani. Penso che quando sentono l’odore di escrementi canini, sono convinti di odorare della cannella. Più tardi, quale piacere squartare la preda! (…) E sebbene questi cacciatori, col continuare per tutta la loro vita a squartare e mangiar animali non ottengano altro risultato se non di imbestialire anch’essi, pure sono convinti di condurre una vita da principi [27]). È una consapevolezza che circola all’epoca di Erasmo: «“Dalla vera nobiltà – dichiara Poggio (Bracciolini) nel De Nobilitate – si è tanto più lontani quanto più a lungo i propri antenati sono stati dei criminali”. La passione per la caccia, che caratterizza la classe cavalleresca, è quindi solo una prova della sua povertà morale, della sua mancanza di civiltà interiore. La nuova nobilitas non si distingue per grossolana attitudine bellicosa e crudele violenza, ma per una qual certa più nobile virtus, cioè virtù: studium humanitatis» [28]. 

Un secondo gradino è costituito dalla violenza sui minori, dalla primissima infanzia all’adolescenza. E solo degli educatori ri-educatisi possono spezzare la catena di quella che nel XX secolo sarà denominata “pedagogia nera”. Infatti, ai tempi di Erasmus, gli allievi venivano trattati molto aspramente in collegi dove si viveva in condizioni igieniche disastrose, con poco cibo e molte correzioni fisiche: egli per primo l’aveva sperimentato sulla propria pelle. 

Un terzo spazio in cui esercitare l’attitudine violenta è costituito dalle relazioni di genere, prevalentemente dei maschi sulle femmine. Ma è un fenomeno che il prete rinascimentale Erasmo (che con i libri “ha avuto maggior commercio che con le donne” [29] anche per probabili tendenze omoaffettive) tocca raramente, per esempio là dove stigmatizza la riduzione delle ragazze a mere pedine di giochi maschili: “Definiamo profano chi contamina una chiesa con un duello o con una polluzione, ma chi viola, corrompe e contamina una vergine, tempio dello spirito santo, con le sue promesse, i suoi regali e le sue lusinghe, non viene esecrato: sono anzi cose che si compiono con la piacevole arrendevolezza di tutti” [30]. 

10Per quanto fondamentale, la pedagogia non è sufficiente: va integrata con un’impostazione politica adeguata. Nel celebre, e già citato, saggio magistrale Dulce Bellum Inexpertis egli sottolinea la necessità per la pace di un controllo dei governanti da parte dei governati. Si può dire che «l’elogio della pace culmina così nella rivendicazione della democrazia» [31]? Forse non proprio nell’accezione contemporanea di democrazia [32], ma certamente utilizzando le categorie dell’epoca parla del diritto dei sudditi di ribellarsi ai principi guerrafondai: «Noi confondiamo la proprietà con l’amministrazione. Sugli uomini infatti, che sono liberi per natura, non si ha solo lo stesso diritto che si ha sulle bestie, dal momento che il diritto che (tu, principe) hai sugli uomini ti è stato conferito dal consenso popolare e pertanto il popolo, se non mi sbaglio, ha pure facoltà di revocarlo» [33]. 

Su questo tema Erasmo ritorna più volte, ad esempio nel suo Il lamento della pace. Il principe bellicoso ipocritamente dichiara di scatenare le guerre per “curare i pubblici interessi”, ma in realtà non gli importa nulla del “pubblico bene; invece vediamo che quasi tutte le guerre sono provocate da motivi cui il popolo non è interessato né punto né poco. Vuoi rivendicare la sovranità su questo o quel territorio? E al popolo che cosa ne viene?  Vuoi vendicarti di uno che ha ripudiato tua figlia? E lo Stato che c’entra?”. A differenza dei più saggi fra i governanti pagani, “i prìncipi cristiani giungono a disprezzare il popolo cristiano al punto da voler soddisfare le loro private bramosie o trarre le loro private vendette mettendo a fuoco il mondo intero” [34]. Questo andazzo continuerà sino a quando i sovrani faranno prevalere “futili motivi” sulla “felicità pubblica generale”; le autorità religiose, civili e intellettuali si asterranno dal “venire in soccorso alla saggezza dei re e alla divozione dei pontefici”; e i membri tutti del popolo, “senza distinzioni”, non si decideranno a “cooperare unanimi” per mostrare “quanto valga la concordia della moltitudine contro la tirannia dei potenti”: insomma, sino a quando tutti non agiranno “con impegno comune in vista di ciò che interessa la felicità di tutti in eguale misura” [35].
In una curiosa zoologia metaforica la preferenza della “democrazia” – come modello teorico – sulla monarchia ritorna più di una volta: “le gru sono molto propense alla democrazia mentre le aquile, che in intelligenza sono assai inferiori, la detestano”[36]; “la costituzione politica delle api che consente a ogni cittadino l’uso del pungiglione ad eccezione del re, raccoglie sì molti elogi ma pochi proseliti” [37]. 

In un’epistola a Leone X, in cui dissente dalla volontà di questo papa di muovere guerra ai Turchi (che invece andrebbero convertiti con le parole e gli esempi [38]) arriva ad estendere il diritto/dovere di disobbedienza civile anche nei confronti delle autorità ecclesiastiche: «deve essere riconosciuto pubblicamente che un papa guerriero non merita nessuna obbedienza» [39]. Anzi, a giudizio di Erasmo si dovrebbe svellere la radice di ogni politica bellicistica pontificia: il potere temporale dei papi. Con tre secoli di anticipo sulle polemiche concernenti Roma come capitale del Regno d’Italia, egli scrive tra l’altro: «Essere un buon sovrano è la cosa più difficile, ma essere un buon sacerdote lo è ancora di più e di molto, anche se molto più bello. Come far fronte ad ambedue gli impegni? Chi avesse la pretesa di esercitarli entrambi finirebbe inevitabilmente per non adempiere ad alcuno» [40].

I vertici ecclesiastici non vanno obbediti non solo quando, come Giulio II, si mettono fisicamente a capo di eserciti, ma anche quando legittimano la “guerra giusta”: «Certi principi si illudono pensando: vi è, in ogni caso, una guerra del tutto giusta e io ho una giusta causa per intraprenderla. (…)  Ma le leggi pontificie non condannano la guerra indiscriminatamente. Agostino stesso in qualche parte la giustifica. Anche Bernardo fa l’elogio di certi soldati. Per contro Cristo in persona, Pietro e Paolo ovunque insegnano il contrario. Perché la loro autorità dovrebbe valere per noi meno di quella di Agostino o di Bernardo?» [41]

Il potere dei cittadini di condizionare le scelte dei politici si potrebbe concretizzare, secondo Erasmo, costringendoli (o per lo meno inducendoli) ad assumere alcune linee programmatiche. Una prima indicazione è lo smantellamento degli eserciti stabili:

«Anche il mestiere del soldato è un tipo di ozio indaffarato, ma è quello di gran lunga più pernicioso perché da esso derivano la rovina di ogni bene e l’accumulo di ogni male. Perciò se il principe terrà lontano dal suo regno questo semenzaio di delitti avrà molto meno da punire con le leggi» [42].

9788870060720_0_536_0_75Una seconda indicazione è di sostituire, come mezzo di risoluzione dei conflitti, la guerra con una sorta di “arbitrato internazionale” [43]: «Che bisogno c’è di correre subito alle armi? Esistono leggi, esistono uomini sapienti, venerandi abati, reverendi vescovi, che con i loro consigli salutari avrebbero potuto sedare ogni contesa. Perché non ricorrere piuttosto al loro arbitrato? Per quanto dovessero trovarne di ingiusti, sempre ne uscirebbero con danno minore di quello che riceverebbero facendo ricorso alle armi» [44] .

Rileggere, mezzo millennio dopo, le opere del “gran dimenticato” – «il primo europeo cosciente, il primo bellicoso amico della pace, l’avvocato più facondo dell’idealità umanistica», che «ha veramente odiato in terra una cosa sola, quale antitesi della ragione: il fanatismo» [45], può indurre allo scoramento. Così, per le meno, è avvenuto nel mio caso. Ho avvertito senza filtri la sua amarezza degli ultimi anni di vita: «Egli è il primo a comprendere come un uomo pacifico e remissivo non abbia più posto “in quest’epoca rumorosa o, per dir meglio, furibonda”. (…) Dove è un rifugio per il pensatore, quando il fanatismo eccita gli animi?»[46] . Mi si è formata in mente, infatti, la convinzione che, per parafrasare Luca 16,19-31, se l’umanità non ha ascoltato uno come Erasmo da Rotterdam, non ascolterà nessun altro di noi. Eppure…Eppure allo scoramento ci si può rassegnare e in esso ci si può addirittura crogiolare con una dose di civetteria; ma vi si può pure reagire aggrappandosi alla convinzione che ai mortali è chiesto di combattere le buone battaglie, non necessariamente di vincerle. 

Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024 
Note
[1] «Carlo V e Francesco I vogliono divorarsi l’un l’altro…O Dio immortale, perché il papa non impedisce ai suoi figli di tagliarsi il collo a vicenda?» (Erasmo cit. in B. Ligt, Erasmo nonviolento. La voce dell’Umanesimo in un’Europa dilaniata dalle guerre, a cura di R. Altieri, Centro Gandhi Edizioni, Pisa 2023:312).
[2] B. Ligt, Erasmo nonviolento, cit.:215.
[3] Erasmo da Rotterdam, Orazione sulla pace e la discordia contro i faziosi, cit. in B. Ligt, Erasmo nonviolento, cit.: 215.
[4] Un “grido di battaglia” cattolico contro Erasmo fu: «Erasmus posuit ova, Lutherus eduxit pullos…Erasmo depose le uova, Lutero le covò. Dio ci conceda di schiacciare le uova e di soffocare i pulcini» (H. R. Trevor – Roper, Protestantesimo e trasformazione sociale, Laterza, Roma – Bari 1975: 25).
[5] Lutero, ancor più dei cattolici, ha ripetutamente condannato l’ottica umanistica di Erasmo: «Le cose umane sono per lui più delle divine»; «Erasmo i cui scritti portano alla distruzione di ogni religione», «Schiacciare Erasmo è mettere il dito su una cimice che puzza ancor più da morta che da viva» (cit. in B. Ligt, Erasmo nonviolento, cit.: 316).
[6] H. R. Trevor – Roper, Protestantesimo, cit.: 17.
[7] Ivi: 14-15. Dopo l’inizio della Riforma protestante molti cattolici attribuirono ad Erasmo la responsabilità originaria della spaccatura. Significativo, e amaramente divertente, l’aneddoto che racconta Erasmo stesso a un frate umanista che gli aveva riferito di alcuni studiosi che «si son preso a modello l’immagine di quel tuo corpo minuto stampata abilmente su carta, e solo a contemplarla si son sentiti infiammati e ardenti per lo studio delle lettere: «Quel che mi scrivi (…) penso che non sia del tutto inventato, anche se tu amplifichi alquanto le cose, se non m’inganno, per consolarmi. Ma il ben diverso sentimento di certi altri fa sì che io non abbia a insuperbire di coteste simpatie. Ti racconto una storia che ti farà ridere. C’è un canonico di Costanza, che tiene in camera sua il mio ritratto stampato su carta al solo scopo di sputarci sopra ogni volta che gli passa davanti: a chi gli domanda perché mi detesti, risponde che è colpa mia se gli tocca una vita tanto dura» (L. Firpo, Erasmo e l’arte in Erasmo da Rotterdam, Il lamento della Pace, UTET, Torino 1967: 165-166). Nel prosieguo della lettera, Erasmo specifica le ragioni non propriamente di alta teologia di tanto risentimento: con la Riforma il Capitolo della cattedrale di Costanza si era dovuto trasferire in una città più piccola rimasta cattolica e “le decime non fruttano più nemmeno la metà. È su questo che versa lacrime” (ivi). 
[8] Erasmo da Rotterdam, L’educazione del principe cristiano in Erasmo da Rotterdam, La formazione cristiana dell’uomo, Rusconi, Milano 1989: 424.
[9] Erasmo da Rotterdam, Dolce è la guerra per chi non ne ha esperienza. Storie politiche tratte dagli Adagi, Feltrinelli, Milano 2017: 122.
[10] Erasmo da Rotterdam, Orazione sulla pace e la discordia, cit. in R. Altieri, Erasmo, cit.:24.
[11] Erasmo da Rotterdam, Dolce è la guerra, cit.: 131.
[12] E. Peyretti, Erasmo, Umanesimo e cristianesimo della pace. Sintesi del saggio di Erasmo “Dulce bellum inexpertis” (La guerra piace a chi non la conosce) (1515) in
“Tempi di fraternità”, n. 6, giugno-luglio 2018 (la citazione tra virgolette è dal saggio di Erasmo in esame).
[13] Erasmo da Rotterdam, Dolce è la guerra, p. 116.
[14] E. Peyretti, Erasmo, cit.
[15] Erasmo da Rotterdam, Lettera ad Antonio di Bergen, cit. in R. Altieri, Erasmo, cit.: 14.
[16] Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, Mursia, Milano 1990: 53.
[17] Erasmo da Rotterdam, Il lamento, cit.: 65.
[18] Erasmo da Rotterdam, Elogio, cit.: 122 – 123.
[19] B. Ligt, Erasmo nonviolento, cit.: 277.
[20] Erasmo da Rotterdam, Sull’opportunità di muovere guerra ai Turchi, cit. in R. Altieri, Erasmo, cit.: 62.
[21] Erasmo da Rotterdam, Dolce è la guerra, cit.:143-144.
[22] Erasmo da Rotterdam, Lettera a Francois Ier, cit. in R. Altieri, Erasmo, cit.:43-44.
[23] B. de Ligt, Erasmo nonviolento, cit.:252.
[24] Ivi.
[25] La citazione è dalle Metamorfosi di Ovidio che, però, si riferiva ai buoi.
[26] Erasmo da Rotterdam, Dolce è la guerra, cit.: 124-27.
[27] Erasmo da Rotterdam, Elogio, cit.: 77-78.
[28] B. de Ligt, Erasmo nonviolento, cit.: 104.105.
[29] S. Zweig, Erasmo da Rotterdam, Rusconi, Milano 1994: 39.
[30] Erasmo da Rotterdam, I Sileni di Alcibiade in Erasmo da Rotterdam, Dolce è la guerra, cit.:55.
[31] L. Firpo, Introduzione a Erasmo da Rotterdam, Il lamento, cit.: 20.  
[32] Questa formula limitativa vuole recepire l’aspetto di vero in una considerazione – che in sé trovo esagerata – di Zweig: «Nulla sarebbe d’altra parte più errato che voler vedere negli umanisti, e sopra tutto in Erasmo, dei democratici, dei precursori del liberalismo. (…) Per la superiorità del sapere, per la mentalità più lungimirante e umana, essi si sentono i soli chiamati ad intromettersi, quali mediatori e condottieri, nelle contese fra i popoli» (Erasmo, cit.:88 -89 e ss. 91). Strettamente legata a questa critica politologica la più volte ribadita accusa, all’umanesimo in generale e ad Erasmo in particolare, di costituire una «creazione fredda e artificiosa» (ivi: 91): nessuno dei testi di Erasmo che ho sinora letto, però, la meritano. A meno che non si scambi per algido distacco emotivo la equanimità dei giudizi e la misura nel formulare le proprie denunzie; a meno che non si consideri un difetto – come sembrerebbe fare Zweig stesso – ciò che riterrei una qualità decisamente apprezzabile: il fatto che a Erasmo manchino «il fanatismo estremo, la tenacia ultima, il furore dell’unilateralità» (ivi: 54) che possono indurre a ritenere più “profondi” personaggi come Lutero o Ignazio di Loyola o Nietzsche. Probabilmente gli spiriti ecumenici, planetari, sono alieni dall’ossessività tipica dei ‘provinciali’ (anche, e soprattutto, se molto acuti).
[33] Erasmo da Rotterdam, Dolce è la guerra, cit.: 149. Questa prospettiva “democratica” ritorna in molti passi delle opere erasmiane, ad esempio là dove sostiene che – in linea di principio – si dovrebbe scegliere (sulla base di una rigorosa “selezione”) “colui che sarà responsabile di tante città e di tante vite umane” e che l’ereditarietà dinastica del potere vige solo perché «l’usanza è antica e tale da non poter essere mutata» (Erasmo da Rotterdam, Re o matti si nasce in  Erasmo da Rotterdam, Dolce è la guerra, cit.: 26); oppure là dove afferma che, se la “potenza” di un principe «non è congiunta con la bontà e con la saggezza, essa è soltanto tirannide e non gli appartiene neppure così snaturata, dato che quel consenso popolare che gliel’ha data gliela può anche togliere» (Erasmo da Rotterdam, I Sileni di Alcibiade, cit.:51).
[34] Erasmo da Rotterdam, Il lamento, cit.: 77.
[35] Ivi: 81.
[36] Erasmo da Rotterdam, Lo scarabeo dà la caccia all’aquila in Erasmo da Rotterdam, Dolce è la guerra, cit.: 86.
[37] Erasmo da Rotterdam, Lo scarabeo, cit.: 91.
[38] «Se vuoi condurre i Turchi a Cristo non ostentare le ricchezze, la forza e la potenza militari: in noi essi debbono vedere non solo il nome ma i contrassegni del cristianesimo, ossia purezza di vita, propensione a fare il bene anche ai nemici, invincibile tolleranza di fronte a tutte le offese, disprezzo del denaro, indifferenza per la gloria, basso senso della vita, sentir predicare la sublime dottrina che risponde a questo modo di vivere. È con queste armi che si sottomettono nel modo migliore. Ora invece, male contro male, non facciamo che combatterli; dirò di più, forse più un azzardo che la verità: tolto il nome e il simbolo della croce combattiamo Turchi contro Turchi. (…) I Turchi li devi aiutare e, se puoi, convertirli; se non puoi devi pregare per la loro conversione: solo allora ti riconoscerò per cristiano. (…) È meglio essere un turco sincero o un ebreo in buona fede che un cristiano ipocrita» (Erasmo da Rotterdam, Dolce la guerra, cit.: 152-155).
[39] E’ l’Epistola 335 di cui si trova una sintesi in B. de Ligt, Erasmo nonviolento, cit.: 309. In altre opere Erasmo arriva a dare della Chiesa una definizione così “democratica” (o meglio democentrica) da far impallidire perfino l’ecclesiologia (ambigua) del Concilio Ecumenico Vaticano II: «Analogamente quando si parla di Chiesa si intende riferirsi a sacerdoti, vescovi e sommi pontefici, anche se costoro altro non sono che suoi servitori. La Chiesa invero è il popolo cristiano, quel popolo che lo stesso Cristo proclama così venerabile da meritare che i vescovi lo servano a mensa, per il che, pur perdendo qualcosa in deferenza, aumenteranno in prestigio a condizione che seguano le orme di Cristo non solo per successione d’ufficio ma per vita e costumi – quel Cristo, dico, che, pur essendo re e signore universale, assunse vesti non da signore ma da servo» (Erasmo da Rotterdam, I Sileni di Alcibiade, cit.: 52).
[40] Ivi: 64. Seguono altre interessanti obiezioni in forma di domande retoriche: «Ti sembra forse troppo umile se sulle spalle non ha il peso di uno Stato che può essere gestito in due modi: tirannico se attuato per personale interesse, faticosissimo se per quello dell’intera collettività? Lasciamo quanto è profano ai profani: anche ciò che nel vescovo è più basso supera sempre le altezze di qualsiasi impero. Quanto più lo colmerai dei beni del mondo, Cristo lo renderà meno partecipe dei suoi e quanto meno sarà spoglio dei primi tanto più sarà ricco dei secondi» (ivi: 64-65).
[41] Erasmo da Rotterdam, L’educazione del principe, cit.: 420 – 421.
[42] Ivi: 398.
[43]  B. de Ligt, Erasmo nonviolento, cit.:289 (in nota a pié di pagina).
[44]  Erasmo da Rotterdam, Il lamento, cit.: 64- 65.
[45]  S. Zweig, Erasmo, cit.: 7-8.
[46] Ivi: 166-167. Lo sconforto di Erasmo non è certo privo di motivazioni oggettive: «Al suo cuore disperato e stanco pervengono da tutte le terre messaggi di orrore. A Parigi hanno bruciato a lento fuoco il suo traduttore e discepolo Berquin, in Inghilterra hanno trascinato sotto la scure il diletto John Fisher e Tommaso Moro, nobilissimo amico (…), ed Erasmo geme, accogliendo questa novella: «Mi pare di essere morto io medesimo in loro». Zwingli, col quale ha spesso scambiato lettere e parole cortesi, rimane sul campo di battaglia di Kappel, Thomas Münzer vien mandato a morte con torture non meno atroci di quelle escogitate da pagani o cinesi. Agli anabattisti strappano la lingua, ne sbranano i predicatori con tenaglie roventi e li arrostiscono al palo; svaligiano le chiese, bruciano i libri, incendiano le città. I lanzichenecchi hanno messo a sacco Roma, meraviglia del mondo – (…) – no, il mondo non ha più posto per la libertà di pensiero, per la comprensione e l’indulgenza, concetti primi della dottrina umanistica» (ivi: 168). 

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Augusto Cavadi, già docente presso vari Licei siciliani, co-dirige insieme alla moglie Adriana Saieva la “Casa dell’equità e della bellezza” di Palermo. Collabora stabilmente con il sito http://www.zerozeronews.it/. I suoi scritti affrontano temi relativi alla filosofia, alla pedagogia, alla politica (con particolare attenzione al fenomeno mafioso), nonché alla religione, nei suoi diversi aspetti teologici e spirituali. Tra le ultime sue pubblicazioni si segnalano: Il Dio dei mafiosi (San Paolo, 2010); La bellezza della politica. Attraverso e oltre le ideologie del Novecento (Di Girolamo, 2011); Il Dio dei leghisti (San Paolo, 2012); Mosaici di saggezze – Filosofia come nuova antichissima spiritualità (Diogene Multimedia, 2015); La mafia desnuda – L’esperienza della Scuola di formazione etico-politica “Giovanni Falcone” (Di Girolamo, 2017); Peppino Impastato martire civile. Contro la mafia e contro i mafiosi (Di Girolamo, 2018), Dio visto da Sud. La Sicilia crocevia di religioni e agnosticismi (SCe, 2020); O religione o ateismo? La spiritualità “laica” come fondamento comune (Algra 2021).

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