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Esorcismo della taranta nella prospettiva storicistica di Ernesto De Martino

La taranta, Galatina, 1959 (ph. Franco Pinna)

La taranta, Galatina, 1959 (ph. Franco Pinna)

di Sonia Giusti 

Dalle considerazioni neuropsichiatriche sul tarantismo di Giovanni Jervis si ha un primo quadro di quanto vasto sia questo argomento e come, soprattutto, esso richieda una collaborazione interdisciplinare. Siamo di fronte a comportamenti che non sembrano determinati da situazioni morbose, ma piuttosto condizionati da forme culturali utili ad accogliere e fornire alla tarantata mezzi storicamente e culturalmente riconosciuti come idonei ad esprimere un disagio personale molto complesso.

L’equipe che operò in Salento nell’estate del 1959 sotto la guida di Ernesto De Martino contava tra i suoi collaboratori un assistente sociale, uno psichiatra, un antropologo, un etnomusicologo. Esclusa, da un punto di vista psichiatrico, la presenza nei tarantati di veleno del morso di un ragno, la ricerca svolta tra i contadini del Salento, dimostrò che il ragno velenoso, scientificamente definito come latrodectus, esiste veramente tanto che, nelle campagne dove si svolgeva la ricerca, ne furono trovate alcune decine.

La taranta morde in estate, ma può “rimordere” ancora nelle estati successive e la letteratura del tarantismo – dal ‘600 in poi – ha considerato il tarantismo come una malattia, anche se con alcuni rari accenni al suo valore simbolico. Nel libro del Cinquecento De venenis di Ferdinandi Ponzetti, si dice che lui, medico e poi vescovo, curava i tarantati benedicendoli e pronunciando parole sante [1]. Nelle ricerche svolte dai medici, fra i quali Epifanio Ferdinando e Giorgio Baglivi, il tarantismo era valutato come malattia, o più tardi, come “psicosi collettiva”.

Pagina da Venenis di Ponzetti

Pagina da De Venenis di Ponzetti

C’è da ricordare che le numerose interpretazioni simboliche del mondo animale di questo periodo si rifacevano ai bestiari medievali e, anche prima, alle simbologie del mondo antico. Nella prospettiva storico-culturale-religiosa del tarantismo, De Martino, scrive: «La singolare tradizione torna ad imporsi all’analisi e alla valutazione, e proprio in quella forma, in cui Leonardo ce l’ha conservata, di simbolo mitico». Infatti, commenta De Martino: «Sul piano del simbolismo mitico-rituale proprio del tarantismo è possibile trovare le radici esistenziali dell’orizzonte simbolico del morso della taranta che ‘mantiene l’uomo nel suo proponimento, cioè quello che pensava quando fu morso’».

In questo senso il tarantismo è un istituto culturalmente fondato, utilizzabile come orizzonte di deflusso del cattivo passato, cioè utile ad esprimere episodi critici non risolti.  Lo studioso ancora annota: «In una variante della tradizione conservataci da Leonardo è rimasta l’ideologia secondo la quale il tarantato, per guarire, deve tornare al luogo dove fu morso, alla ricerca del ragno responsabile, che deve essere ucciso» [2].

Negli anni in cui si prepara l’inchiesta demartiniana in Puglia si pone l’attenzione su nuove impostazioni di ricerca orientate secondo una linea storico-religiosa che metta in luce l’autonomia simbolica del tarantismo e la sua non riducibilità a latrodectismo. Nel corso delle indagini il tarantismo – che risale al Medioevo, anzi al mondo antico – anche nell’ottica neuropsichiatrica, non è più legato al latrodectismo mentre, antropologicamente, il morso del ragno è considerato un fatto culturale pieno di innesti simbolici che funzionano come cura coreutico-musicale.

Alle manifestazioni dei tarantati che si svolgevano il 28 e il 29 giugno del 1959 nella cappella di San Paolo in Galatina – aperta ad accogliere i tarantati fin dalla prima metà del Settecento – si contrapponevano le espressioni coreutico-musicali domiciliari, tra le quali il caso di Maria di Nardò, bracciante di trent’anni, analfabeta sposata e senza figli, angustiata da una vita familiare insopportabile, la quale si rifugiava e si curava nelle sue danze mistiche dedicate a San Paolo, scelto a suo sposo. Il rituale salvifico che si svolgeva in casa prevedeva l’allestimento di scenari boschivi e acquatici per la danza frenetica delle tarantate, con l’uso cromatico di oggetti e nastri sistemati per lo spettacolo come scenario che vedeva le tarantate protagoniste di una messa in scena terapeutica domestica. 

s-l1600Con la ricerca sul campo guidata da Ernesto De Martino, veniva definitivamente riconosciuto il valore terapeutico del simbolo mitico-rituale del tarantismo come orizzonte culturale di soluzione a contenuti critici esistenziali determinati da un ordine sociale opprimente, dall’emarginazione sociale dovuta a situazioni economiche e a frustrazioni di diritti socio-biologici, compreso l’eros precluso.                  

Ernesto De Martino definisce il tarantismo «una religione del rimorso», dove il simbolo egemonico della taranta mette in moto un dispositivo di sicurezza praticato dal tarantato – accettato e condiviso collettivamente – con la precisa volontà che lo porti fuori dall’isolamento nevrotico per recuperare un ordine socialmente condiviso. Una volontà di storia, quella che De Martino vede nel tentativo delle tarantate di superate il loro stato di esistenza perduta e che definisce «ethos del trascendimento».

Nella prospettiva storicistica demartiniana, il viaggio etnografico è il viaggio storico nelle diversità culturali, il contrario del viaggio mitico nella metastoria di tutte le storie religiose che intendono recuperare la salvezza della “presenza” perduta nei momenti di crisi esistenziale [3].

Il nostro storico delle religioni sostiene la sua impostazione neo-umanistica con il principio etico che si basa sulla «coscienza della origine e della destinazione umana di tutti i beni culturali, anche di quelli – anzi soprattutto di quelli – che includono in un modo o nell’altro il pensiero di una origine divina della cultura». Da questa prospettiva il materiale folklorico-religioso meridionale è documento di storia e non “rottame disorganico”, o sopravvivenza. Esso non è documento di una storia minore o parziale, che può scadere in “pettegolezzo” o curiosità, ma documentazione che fa parte integrale della “questione meridionale”. Una impostazione storica, questa, che si riaccese subito dopo la seconda guerra mondiale ad opera anche di Gabriele Pepe, lo storico che definiva la questione meridionale come “problema religioso”.

gabriele-pepe-pane-e-terra-nel-sud1È in questa prospettiva storicistica che si svolge la ricerca demartiniana nella Terra del rimorso dove l’Autore ripercorre il viaggio mitico alle origini del “morso” in cui i tarantati hanno la possibilità di rivivere ciò che accadde in illo tempore; lo scopo è di contrastare il ripetersi del rischio esistenziale di perdersi, con il pericolo che il simbolismo mitico-rituale non funzioni e che il morso si ripeta e prenda ancora il sopravvento.

Il tempo mitico del primo morso è il tempo “destorificato” della metastoria, raggiungibile mediante le tecniche magico-religiose, il tempo protetto da qualcosa di già avvenuto e deciso in illo tempore tramite il quale è possibile tornare alla storia protetti dalla pia fraus di stare nella storia “come se non ci si stesse”, perché garantiti dalla protezione di San Paolo.

Il concetto demartiniano di “crisi della presenza”, mutuato dalla filosofia di Heidegger, riguarda le fasi drammatiche della vita umana, durante le quali si riduce la capacità di operare, costretti in comportamenti in cui si è perduto il rapporto con il mondo. Tuttavia, al contrario della teoria esistenzialistica sostenuta dai suoi interlocutori – Heidegger e Jasper – di una esistenza ontologicamente infelice perché deietti nel mondo, negato il concetto naturalistico di una realtà data e subita, in De Martino è determinante il concetto opposto di natura culturalmente costruita sul nodo teoretico dell’ethos del trascendimento.

storia-e-metastoriaQuesto paradigma concettuale, inteso come chiave di lettura del rapporto uomo-mondo, apre alle possibilità umane di oltrepassare eticamente la “crisi della presenza”. In questo “dramma storico”, in cui si rischia di perdere il proprio “esserci” nel mondo, si riscatta la “presenza” storicamente intesa come autodeterminantesi. La dimensione mitico-rituale mediata dalle strutture magico-religiose offre la possibilità di “destorificare” il negativo, nel senso di uscire da una storia insopportabile, per rifugiarsi nella metastoria protetta dal mito a garanzia di una ripresa culturale.

L’impegno ermeneutico di De Martino nel definire le sue categorie interpretative si avvale di annotazioni filosofiche e antropologiche proprie   dell’orientamento storicistico, mentre alle posizioni heideggeriane, nelle quali l’esistenza è ontologicamente in sofferenza, De Martino contrappone la tesi secondo la quale l’esistenza è “possibilità di trascendimento”, capacità di oltrepassare il passato negativo. Un «trascendimento che può non aver luogo, ma che deve esserci»: è infatti “l’ethos del trascendimento” che prende coscienza di sé e diventa telos, ma questo ethos ha in sé anche il rischio della caduta nel ‘sintomo cifrato’ del cattivo passato che, in tal caso, si fa annientamento del dover essere.

La “crisi della presenza”, scrive De Martino, è il cattivo passato che torna nel ‘sintomo cifrato’; è il segno che il passato non è veramente passato … che torna a rimordere. Mentre il simbolo mitico-rituale del tarantismo – con la danza rituale attraverso la quale si invoca San Paolo protettore e sposo delle tarantate – assolve a una funzione protettiva della crisi. La storicità della crisi è occultata dalla destorificazione religiosa nella spasmodica danza rituale che porta dentro il mito salvifico, là dove tutto è già stato deciso in illo tempore, con la protezione di San Paolo che garantisce e dispiega nuove energie operative umane. 

Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
Note
[1] E. De Martino, La Terra del rimorso, Mondadori, Milano 1961: 108.
[2] Ivi: 174-176.
[3] Cfr. Gli inediti di Ernesto De Martino, in M. Massenzio, Storia e metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro, Argo, Lecce, 1995. 
Riferimenti bibliografici
De Martino E., Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Einaudi, Torino, 1948.
Id.,    La terra del rimorso, Il Saggiatore, Milano, 1961.
Id.,    La fine del mondo, Einaudi, Torino, 1977
Id.,    Scritti filosofici, a cura di R. Pastina, Il Mulino, Bologna, 2005.
Id.,    Gli Inediti, in Storia e metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro, Introduzione e cura di M. Massenzio, Argo, Lecce, 1995.
Galimberti U., Il tramonto dell’Occidente nella lettura di Heidegger e Jasper, Feltrinelli, Milano, 2005.
Jervis G., Presenza e identità, Garzanti, Milano, 1984.
Heidegger M., (1927), Essere e Tempo, Mondadori, Milano, 2006.
Pepe G., Pane e terra del Sud, Parenti editore, Firenze 1954.

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Sonia Giusti, già docente di Antropologia culturale e antropologia storica presso l’Università degli Studi di Cassino e Presidente del Corso di laurea in Servizio sociale. Ha lavorato sui temi trattati da Ernesto De Martino e Raffaele Pettazzoni e sullo storicismo inglese di Robin George Collingwood, oltre alle ricerche sui Diritti Umani e sulla storicità della conoscenza. Ha svolto seminari presso le Università di Roma, Urbino, Palermo e Oxford, presso la Bodleian Lybrary. È autrice di diversi studi. Tra le più recenti pubblicazioni si segnalano i seguenti titoli: Forme e significati della storia (2000); Antropologia storica (2001); Percorsi di antropologia storica (2005).

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