di Giada Frana
È l’11 agosto 2024 quando rimetto piede, dopo quattro mesi, in Tunisia. Agosto non è propriamente il mese migliore per soggiornare nel Paese, se non si sceglie una località marittima: le temperature sono molto alte, uffici ed attività spesso aperti solo metà giornata per la cosiddetta “séance unique”, riuscire ad intercettare le persone per intervistarle diventa un terno al lotto. «Molti lavorano ma hanno la testa in vacanza», mi dirà una collega.
Io e le mie bimbe, italo-tunisine, arriviamo a casa dei nonni paterni, accolti da una tavola imbandita: cous cous, insalata tunisina, pane fatto in casa. L’accoglienza tunisina non manca mai. Anche se è domenica, decido di fare un salto al supermercato vicino casa, per comprare il minimo indispensabile per i giorni seguenti, soprattutto per le bambine, visto che personalmente approfitterò del soggiorno per incontrare amici e cercare di intervistare più persone possibili. Il supermercato più vicino casa, raggiungibile a piedi, è il Carrefour express: è tra i più cari, ma sono stanca e poco invogliata a camminare di più e non voglio disturbare nessuno dei famigliari.
È sera, durante il tragitto comincio ad osservare il quartiere, qua e là sbucano diversi ragazzi neri che, armati di guanti, raccolgono dai bidoni della spazzatura le bottiglie di plastica per poi portarle nelle apposite aziende per il riciclaggio e guadagnarci qualcosa. Un lavoro che di solito ho sempre visto fare da donne e uomini tunisini di una certa età. Mi chiedo se questi ragazzi siano tunisini, o, più probabilmente, siano di origine subsahariana. La comunità subsahariana in Tunisia è sempre stata numerosa, tra studenti, imprenditori, e anche coloro per cui la Tunisia è solo un Paese di passaggio per poi andare in Europa, spesso irregolarmente. Da fine febbraio 2023, la situazione per questa popolazione è peggiorata, dopo un discorso del presidente tunisino Kais Saied, in cui ha parlato di un fantomatico “piano di invasione” della Tunisia da parte dei subsahariani, dando il via a dei veri e propri progrom, scontri con la popolazione locale, con conseguente richiesta di rimpatrio volontario da parte di queste persone e anche un aumento delle partenze irregolari.
Il razzismo è sempre esistito in Tunisia, ma con il discorso di Saied si è istituzionalizzato e ora le persone non si vergognano più di esternarlo. Un fenomeno che ricalca esattamente quanto sta succedendo in Europa e in Italia con la destra xenofoba: si crea un capro espiatorio, e i problemi del Paese passano in secondo piano. «L’altro giorno stavo prendendo un Louage – mi racconta un amico italo-tunisino – e l’autista ha fatto pagare il biglietto il doppio del costo all’unico passeggero subsahariano. Quando l’ho fatto presente, era troppo tardi, e nessun altro ha detto o fatto nulla. Un altro giorno, due tunisini si sono rifiutati di sedersi accanto a un altro signore, solo perché nero».
Metto piede nel supermercato: i prezzi sono ancora aumentati. Mi chiedo come facciano le famiglie ad arrivare a fine mese. Secondo l’economista tunisino Ridha Chkoundali, i guadagni di una famiglia tunisina tipo dovrebbero raggiungere i 4 mila dinari (1.181 euro al mese circa) per poter avere un tenore di vita medio, una stima basata su dei dati e dei calcoli scientifici. Nell’inchiesta “Lavoro e salari delle imprese nel 2022”, pubblicata il 25 marzo 2024 dall’INS, l’istituto Nazionale di Statistica, il salario di base medio in Tunisia è stimato a 924 dinari al mese (272,98 euro) ma c’è anche chi percepisce meno, come gli operai, il cui salario medio è di 658 dinari (194,39 euro) e ancora molto lavoro sommerso, che non permette di avere poi una pensione in futuro.
Due giorni dopo, il 13 agosto, è la festa della donna in Tunisia, e vengo invitata a un evento tutto al femminile, riguardante il lancio della “Women Sustainable Alliance” (WSA), organizzato dal Consiglio Internazionale delle Donne Imprenditrici (CIFE). La “Women Sustainable Alliance” è un’iniziativa ambiziosa, che mira alla creazione di una rete di case d’ospitalità e agriturismi rurali gestiti da donne. La rete è aperta anche alle protagoniste del turismo sostenibile e si propone di accompagnare la trasformazione della destinazione turistica in Tunisia. WSA è quindi dedicata a promuovere il turismo sostenibile in Tunisia e a sostenere l’autonomia delle donne in questo settore. Un bel progetto, che spero prenda sempre più piede nel Paese: le donne, a mio avviso, hanno una marcia in più in Tunisia e sono il motore di questo Paese, nonostante non sia sempre facile, dato che una certa mentalità patriarcale e maschilista imperversa anche qui.
Il 15 agosto mi unisco ai festeggiamenti della comunità cristiana – composta ora per lo più da subsahariani e da pochi expats europei – in occasione della S. Messa e processione della Madonna di Trapani: una tradizione importata dalla comunità siciliana che si era installata nel Paese. Da fine ‘800, la migrazione degli italiani in Tunisia – dalla Sicilia, ma anche dalla Sardegna e Toscana – fu intensa, al punto che il numero dei cittadini di origine italiana superava quello dei cittadini di origine francese. La processione era stata interrotta dopo l’Indipendenza, per poi riprendere nel post Rivoluzione, anche se in forma ridotta: non più in tutto il quartiere e fino al mare, ma solo nel sagrato antistante la chiesa. La partecipazione non era cambiata: non vi prendevano parte solo cristiani, ma anche musulmani, alcuni semplicemente curiosi di assistere a un evento storico, altri appartenenti al quartiere, simbolo della convivenza interreligiosa in Tunisia. Ma l’anno scorso, la processione era ritornata nelle vie della Goulette, come un tempo: per questo non vedevo l’ora di partecipare e rivivere un po’ questa atmosfera.
Ma le mie aspettative sono state deluse: arrivata a La Goulette, entro nel cortile della chiesa, che come sempre è transennata e controllata da due furgoncini di poliziotti, per questioni di sicurezza. In chiesa non si può entrare, soprattutto ai giornalisti viene richiesto di stare al di là delle transenne e non fare foto o video. Esco dal cortile per fare delle interviste, faccio per rientrare ma vengo bloccata: “Non può più rientrare”, mi intima un poliziotto in borghese, “questioni di sicurezza”. Rimango perplessa, non mi era mai successo prima d’ora, ma eseguo quanto richiesto e vado dietro le transenne. Lì incrocio una docente tunisina, insegna lingua e cultura italiana, ha sempre partecipato alla manifestazione ed esprime perplessità sul fatto che non l’abbiano lasciata entrare nel cortile, “per dare precedenza ai fedeli cristiani”, pare.
Arriva il momento clou, in cui la statua della Madonna di Trapani viene portata nel cortile dai fedeli, tra canti, preghiere e anche zagarith, le grida di gioia delle donne arabe nei momenti di festa. Non si va tra le vie del quartiere: un passo indietro rispetto all’anno precedente. Sono delusa: tutte queste restrizioni, hanno tolto alla festa il vero significato originale: quello di una festa condivisa da tutti i fedeli del quartiere. E la delusione arriva anche quando pubblico un breve video della giornata: arrivano commenti xenofobi da parte di utenti tunisini, che parlano di invasione, del fatto che in Europa i musulmani non possono pregare e quindi non bisognerebbe dare spazio a queste cose. Per fortuna sono una minoranza, ma riflette il clima di complottismo e sfiducia che si è creato nel Paese.
«Cosa ci trovi di bello in Tunisia?» mi chiederà la settimana successiva Mounir (nome di fantasia), un ragazzo tunisino, gestore di un b&b nella zona del Cap Bon, rispondendo in modo perplesso ai miei racconti e al mio entusiasmo nel trovare le storie positive del Paese, malgrado il contesto non proprio dei migliori. «Ho due bambini piccoli, sto cercando di andarmene da qui. Non funziona nulla, sia dal punto di vista lavorativo che sociale. Non voglio crescere i miei figli qui: voglio dar loro un futuro migliore. Nonostante faccia parte della classe medio-alta: perché non si tratta solo di una questione economica. La Tunisia è un bellissimo Paese, dal punto di vista della Natura, ma purtroppo al momento non vedo un futuro per noi. Sto aspettando di riuscire a vendere la mia attività e poi partiremo». Della stessa opinione anche Adam (nome di fantasia), che vive tra l’Italia e la Tunisia: «Mi chiedo che futuro posso dare a mio figlio, soprattutto dal punto di vista scolastico. Il costo della vita è aumentato parecchio, e chi può cerca di emigrare. Ma se tutti emigrano, che ne sarà del futuro del Paese, chi potrà migliorare le cose?».
I Tunisini vogliono per lo più emigrare, i pensionati europei vedono nella Tunisia un Paese dove riuscire a vivere dignitosamente grazie alla defiscalizzazione, che consente di sfuggire alle troppe regole e restrizioni del proprio Paese d’origine. Due migrazioni in senso opposto, ma entrambe promosse per poter migliorare le proprie condizioni di vita. Con la differenza che spesso chi si trova nella sponda sud del Mediterraneo, per poterlo fare deve combattere con una burocrazia infinita che non sempre permette di poter emigrare regolarmente. Hammamet rimane tra le destinazioni preferite di questi pensionati europei, soprattutto italiani – «ormai è quasi più italiana che tunisina» dice scherzando, ma non troppo, un’amica –, ma anche città come Sousse, Monastir, Tabarka, Nabeul, Kelibia, Djerba.
In contrapposizione alle voci disilluse, c’è chi nel Paese decide di restare e cerca di fare qualcosa nel proprio piccolo per cambiare le cose. Come Sana, che vive a Mahdia e sta collaborando con enti locali e artigiani del luogo per aiutare a sviluppare un tipo di turismo sostenibile nella città. Come Ferihane, che sta aiutando nell’organizzazione di un Festival culturale e culinario ad Hammamet che valorizzi la cucina e gli ingredienti locali, a km zero. Come Lotfi Hamadi, che con la sua associazione Wallah we can, si occupa di infanzia ed è partita con un progetto pilota sistemando una scuola a Maktar, ha dato lavoro ai genitori di questi studenti, e ora sta lanciando una produzione di prodotti a km zero per finanziare le varie attività.
La Tunisia, quest’estate, si è mostrata davanti ai miei occhi in tutte le sue contraddizioni e sfumature. Una terra con un potenziale enorme, con un futuro incerto, un capitale tra i giovani ancora tutto da valorizzare.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
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Giada Frana, giornalista pubblicista, si occupa di Tunisia dal 2013. Ha vissuto a Tunisi dal 2014 al 2016: da questa esperienza è nata la pagina facebook Un’italiana a Tunisi, in cui ha raccontato la vita quotidiana in questo Paese, che ormai considera la sua seconda casa. A giugno 2021 ha dato vita a L’Altra Tunisia, un progetto editoriale che si pone l’obiettivo di dare una narrazione diversa sulla Tunisia e avvicinare sempre più le due sponde del Mediterraneo. (www.laltratunisia.it),
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Estate in Tunisia: disoccupazione, xenofobia, e un enorme potenziale tra i giovani
Giada Frana
È l’11 agosto 2024 quando rimetto piede, dopo quattro mesi, in Tunisia. Agosto non è propriamente il mese migliore per soggiornare nel Paese, se non si sceglie una località marittima: le temperature sono molto alte, uffici ed attività spesso aperti solo metà giornata per la cosiddetta “séance unique”, riuscire ad intercettare le persone per intervistarle diventa un terno al lotto. «Molti lavorano ma hanno la testa in vacanza», mi dirà una collega.
Io e le mie bimbe, italo-tunisine, arriviamo a casa dei nonni paterni, accolti da una tavola imbandita: cous cous, insalata tunisina, pane fatto in casa. L’accoglienza tunisina non manca mai. Anche se è domenica, decido di fare un salto al supermercato vicino casa, per comprare il minimo indispensabile per i giorni seguenti, soprattutto per le bambine, visto che personalmente approfitterò del soggiorno per incontrare amici e cercare di intervistare più persone possibili. Il supermercato più vicino casa, raggiungibile a piedi, è il Carrefour express: è tra i più cari, ma sono stanca e poco invogliata a camminare di più e non voglio disturbare nessuno dei famigliari.
È sera, durante il tragitto comincio ad osservare il quartiere, qua e là sbucano diversi ragazzi neri che, armati di guanti, raccolgono dai bidoni della spazzatura le bottiglie di plastica per poi portarle nelle apposite aziende per il riciclaggio e guadagnarci qualcosa. Un lavoro che di solito ho sempre visto fare da donne e uomini tunisini di una certa età. Mi chiedo se questi ragazzi siano tunisini, o, più probabilmente, siano di origine subsahariana. La comunità subsahariana in Tunisia è sempre stata numerosa, tra studenti, imprenditori, e anche coloro per cui la Tunisia è solo un Paese di passaggio per poi andare in Europa, spesso irregolarmente. Da fine febbraio 2023, la situazione per questa popolazione è peggiorata, dopo un discorso del presidente tunisino Kais Saied, in cui ha parlato di un fantomatico “piano di invasione” della Tunisia da parte dei subsahariani, dando il via a dei veri e propri progrom, scontri con la popolazione locale, con conseguente richiesta di rimpatrio volontario da parte di queste persone e anche un aumento delle partenze irregolari.
Il razzismo è sempre esistito in Tunisia, ma con il discorso di Saied si è istituzionalizzato e ora le persone non si vergognano più di esternarlo. Un fenomeno che ricalca esattamente quanto sta succedendo in Europa e in Italia con la destra xenofoba: si crea un capro espiatorio, e i problemi del Paese passano in secondo piano. «L’altro giorno stavo prendendo un Louage – mi racconta un amico italo-tunisino – e l’autista ha fatto pagare il biglietto il doppio del costo all’unico passeggero subsahariano. Quando l’ho fatto presente, era troppo tardi, e nessun altro ha detto o fatto nulla. Un altro giorno, due tunisini si sono rifiutati di sedersi accanto a un altro signore, solo perché nero».
Metto piede nel supermercato: i prezzi sono ancora aumentati. Mi chiedo come facciano le famiglie ad arrivare a fine mese. Secondo l’economista tunisino Ridha Chkoundali, i guadagni di una famiglia tunisina tipo dovrebbero raggiungere i 4 mila dinari (1.181 euro al mese circa) per poter avere un tenore di vita medio, una stima basata su dei dati e dei calcoli scientifici. Nell’inchiesta “Lavoro e salari delle imprese nel 2022”, pubblicata il 25 marzo 2024 dall’INS, l’istituto Nazionale di Statistica, il salario di base medio in Tunisia è stimato a 924 dinari al mese (272,98 euro) ma c’è anche chi percepisce meno, come gli operai, il cui salario medio è di 658 dinari (194,39 euro) e ancora molto lavoro sommerso, che non permette di avere poi una pensione in futuro.
Due giorni dopo, il 13 agosto, è la festa della donna in Tunisia, e vengo invitata a un evento tutto al femminile, riguardante il lancio della “Women Sustainable Alliance” (WSA), organizzato dal Consiglio Internazionale delle Donne Imprenditrici (CIFE). La “Women Sustainable Alliance” è un’iniziativa ambiziosa, che mira alla creazione di una rete di case d’ospitalità e agriturismi rurali gestiti da donne. La rete è aperta anche alle protagoniste del turismo sostenibile e si propone di accompagnare la trasformazione della destinazione turistica in Tunisia. WSA è quindi dedicata a promuovere il turismo sostenibile in Tunisia e a sostenere l’autonomia delle donne in questo settore. Un bel progetto, che spero prenda sempre più piede nel Paese: le donne, a mio avviso, hanno una marcia in più in Tunisia e sono il motore di questo Paese, nonostante non sia sempre facile, dato che una certa mentalità patriarcale e maschilista imperversa anche qui.
Il 15 agosto mi unisco ai festeggiamenti della comunità cristiana – composta ora per lo più da subsahariani e da pochi expats europei – in occasione della S. Messa e processione della Madonna di Trapani: una tradizione importata dalla comunità siciliana che si era installata nel Paese. Da fine ‘800, la migrazione degli italiani in Tunisia – dalla Sicilia, ma anche dalla Sardegna e Toscana – fu intensa, al punto che il numero dei cittadini di origine italiana superava quello dei cittadini di origine francese. La processione era stata interrotta dopo l’Indipendenza, per poi riprendere nel post Rivoluzione, anche se in forma ridotta: non più in tutto il quartiere e fino al mare, ma solo nel sagrato antistante la chiesa. La partecipazione non era cambiata: non vi prendevano parte solo cristiani, ma anche musulmani, alcuni semplicemente curiosi di assistere a un evento storico, altri appartenenti al quartiere, simbolo della convivenza interreligiosa in Tunisia. Ma l’anno scorso, la processione era ritornata nelle vie della Goulette, come un tempo: per questo non vedevo l’ora di partecipare e rivivere un po’ questa atmosfera.
Ma le mie aspettative sono state deluse: arrivata a La Goulette, entro nel cortile della chiesa, che come sempre è transennata e controllata da due furgoncini di poliziotti, per questioni di sicurezza. In chiesa non si può entrare, soprattutto ai giornalisti viene richiesto di stare al di là delle transenne e non fare foto o video. Esco dal cortile per fare delle interviste, faccio per rientrare ma vengo bloccata: “Non può più rientrare”, mi intima un poliziotto in borghese, “questioni di sicurezza”. Rimango perplessa, non mi era mai successo prima d’ora, ma eseguo quanto richiesto e vado dietro le transenne. Lì incrocio una docente tunisina, insegna lingua e cultura italiana, ha sempre partecipato alla manifestazione ed esprime perplessità sul fatto che non l’abbiano lasciata entrare nel cortile, “per dare precedenza ai fedeli cristiani”, pare.
Arriva il momento clou, in cui la statua della Madonna di Trapani viene portata nel cortile dai fedeli, tra canti, preghiere e anche zagarith, le grida di gioia delle donne arabe nei momenti di festa. Non si va tra le vie del quartiere: un passo indietro rispetto all’anno precedente. Sono delusa: tutte queste restrizioni, hanno tolto alla festa il vero significato originale: quello di una festa condivisa da tutti i fedeli del quartiere. E la delusione arriva anche quando pubblico un breve video della giornata: arrivano commenti xenofobi da parte di utenti tunisini, che parlano di invasione, del fatto che in Europa i musulmani non possono pregare e quindi non bisognerebbe dare spazio a queste cose. Per fortuna sono una minoranza, ma riflette il clima di complottismo e sfiducia che si è creato nel Paese.
«Cosa ci trovi di bello in Tunisia?» mi chiederà la settimana successiva Mounir (nome di fantasia), un ragazzo tunisino, gestore di un b&b nella zona del Cap Bon, rispondendo in modo perplesso ai miei racconti e al mio entusiasmo nel trovare le storie positive del Paese, malgrado il contesto non proprio dei migliori. «Ho due bambini piccoli, sto cercando di andarmene da qui. Non funziona nulla, sia dal punto di vista lavorativo che sociale. Non voglio crescere i miei figli qui: voglio dar loro un futuro migliore. Nonostante faccia parte della classe medio-alta: perché non si tratta solo di una questione economica. La Tunisia è un bellissimo Paese, dal punto di vista della Natura, ma purtroppo al momento non vedo un futuro per noi. Sto aspettando di riuscire a vendere la mia attività e poi partiremo». Della stessa opinione anche Adam (nome di fantasia), che vive tra l’Italia e la Tunisia: «Mi chiedo che futuro posso dare a mio figlio, soprattutto dal punto di vista scolastico. Il costo della vita è aumentato parecchio, e chi può cerca di emigrare. Ma se tutti emigrano, che ne sarà del futuro del Paese, chi potrà migliorare le cose?»
I Tunisini vogliono per lo più emigrare, i pensionati europei vedono nella Tunisia un Paese dove riuscire a vivere dignitosamente grazie alla defiscalizzazione, che consente di sfuggire alle troppe regole e restrizioni del proprio Paese d’origine. Due migrazioni in senso opposto, ma entrambe promosse per poter migliorare le proprie condizioni di vita. Con la differenza che spesso chi si trova nella sponda sud del Mediterraneo, per poterlo fare deve combattere con una burocrazia infinita che non sempre permette di poter emigrare regolarmente. Hammamet rimane tra le destinazioni preferite di questi pensionati europei, soprattutto italiani – «ormai è quasi più italiana che tunisina» dice scherzando, ma non troppo, un’amica –, ma anche città come Sousse, Monastir, Tabarka, Nabeul, Kelibia, Djerba.
In contrapposizione alle voci disilluse, c’è chi nel Paese decide di restare e cerca di fare qualcosa nel proprio piccolo per cambiare le cose. Come Sana, che vive a Mahdia e sta collaborando con enti locali e artigiani del luogo per aiutare a sviluppare un tipo di turismo sostenibile nella città. Come Ferihane, che sta aiutando nell’organizzazione di un Festival culturale e culinario ad Hammamet che valorizzi la cucina e gli ingredienti locali, a km zero. Come Lotfi Hamadi, che con la sua associazione Wallah we can, si occupa di infanzia ed è partita con un progetto pilota sistemando una scuola a Maktar, ha dato lavoro ai genitori di questi studenti, e ora sta lanciando una produzione di prodotti a km zero per finanziare le varie attività.
La Tunisia, quest’estate, si è mostrata davanti ai miei occhi in tutte le sue contraddizioni e sfumature. Una terra con un potenziale enorme, con un futuro incerto, ancora tutto da scrivere.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
Giada Frana, giornalista pubblicista, si occupa di Tunisia dal 2013. Ha vissuto a Tunisi dal 2014 al 2016: da questa esperienza è nata la pagina facebook Un’italiana a Tunisi, in cui ha raccontato la vita quotidiana in questo Paese, che ormai considera la sua seconda casa. A giugno 2021 ha dato vita a L’Altra Tunisia, un progetto editoriale che si pone l’obiettivo di dare una narrazione diversa sulla Tunisia e avvicinare sempre più le due sponde del Mediterraneo. (www.laltratunisia.it)