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di Samuele Formichetti
I quattro anni precedenti alla crisi pandemica da Covid-19 rappresentano il periodo in cui nasce Estremità, un progetto fotografico lungamente pensato.
Gli scatti ritraggono le strade, le piazze, le case abbandonate nelle periferie delle città di Messina e Catania. Sono immagini lontane dalla realtà di adesso, segnata dal distanziamento sociale e dall’uso dei sistemi di protezione individuali. Raccontano vite accomunate dalla povertà, dal degrado e dal fallimento.
Ma non è di un giudizio che si tratta, non di un parere personale che l’artista ha su di loro. L’obiettivo è un altro. I soggetti di Estremità sono le persone che con le loro storie diverse, condividono un ambiente domestico o lavorativo al margine della società.
Il progetto vuole narrarle nel loro contesto, nei loro ambienti poveri, consunti, fatiscenti, ricercandone i segni lasciati sui muri, negli spazi aperti e tra i rifiuti, ritraendo gli oggetti che hanno usato e poi abbandonato.
Le foto di Estremità vogliono ricostruire, tramite delle tappe, un percorso introspettivo, nel quale riconoscere gli oggetti presenti. Tutti noi possediamo queste cose nelle nostre case.
Si tratta quindi di oggetti comuni come un colapasta, una sedia in metallo, mestoli, un materasso. È facile imbattersi in un ricordo scaturito alla vista di uno di questi oggetti domestici. Si rimane impigliati in queste foto e mentre si osserva lentamente queste cose, ci si ritrova ad immaginare la successione di azioni che chi non c’è ha svolto.
Il viaggio di chi osserva si conclude nel punto in cui l’autore ritrova gli oggetti e li fotografa. Le immagini vogliono raccontare i luoghi nella loro interezza, nel loro complesso. Si possono quindi sentire gli odori, sentire il freddo, il calore del sole, la polvere nell’aria che circonda le cose.
Altra cosa comune è quella di ritrovarsi catapultati in un mercato illegale, i cui venditori presentano le loro merci più diverse. Non si sa da dove provengono quelle cose, però si sa certamente che dalla vendita dipenderà la loro vita nel futuro più prossimo.
L’autore fotografa spesso alla luce del giorno. Ciò che conta è poter cogliere lo spirito di questa gente, la fiducia, la voglia di riscatto e la spinta d’animo volta al miglioramento. È chiaro, e forse troppo semplice, delineare la disperazione in cui riversano.
Questa ricerca è continua, il fotografo non può farne a meno, è quasi un’ossessione, che necessita sforzi costanti e tante ore trascorse in queste strade, in queste piazze dove tra palazzi fatiscenti qualcuno ha voglia di riscattarsi e fa del suo meglio con i mezzi a sua disposizione.
Vi è un legame ancestrale che il fotografo ha con questo progetto, è il più “antico” forse, che lo tiene impegnato da anni e che non sembra avere una fine, per adesso. Ciò che appare è vero, a volte, si tratta di uno sguardo insistente e invadente. Senza voltarsi mai anche quando ciò che vede non è gradevole. È uno sguardo persistente che con tenacia ripropone questo paesaggio, rischiando spesso di pagare il prezzo di questa invasione.
Uno degli obiettivi del progetto è quello di riuscire a tentare un dialogo con i suoi soggetti, dei quali è a volte necessario conoscerne le esperienze, il loro vissuto, cosa li ha portati a vivere in quelle condizioni.
Nasce allora un interrogativo non banale: la fotografia è solo un pretesto per scoprire queste storie? Non solo, ma serve per poterle raccontare a chi non c’è. Al fotografo interessa sapere in che modo il pubblico riflette su ciò che vede, comprendere se ciò che sta mostrando è una cosa nuova per loro o se fino ad ora ne hanno solo ignorato l’esistenza.
Vuole far vedere che anche in contesti difficili, dove la propensione a delinquere è alta, esistono piccole realtà basate su princìpi sani, dove c’è chi sogna ancora un ruolo da svolgere all’interno della società e desidera integrarsi costruendosi un futuro.
Scoprire questi luoghi e viverli insieme agli abitanti soddisfano in qualche modo un’esigenza del fotografo, che è quella di mantenere un contatto con il suo io interiore, con le proprie origini e in particolar modo con una componente del suo passato.
Questo, è senza dubbio, ciò che lo porta a tornare spesso su questi soggetti, mettendo in atto una vera e propria battaglia personale contro le ingiustizie e l’abbandono. Si identifica con loro, dialoga, anche se per pochi minuti, con l’intento di trovare qualcosa in comune nel vissuto di entrambi, senza dare alcuna rilevanza alla nazionalità, colore della pelle e ruolo sociale.
Anche dal punto di vista tecnico, il fotografo si impone la vicinanza al soggetto, ricorrendo solo ed esclusivamente ad ottiche fisse, prive quindi della possibilità di ingrandire.
Questo progetto intende ripercorrere le vite, le storie, gli animi di chi è ritratto e invitare lo spettatore a fare lo stesso. Lo accompagna dinnanzi a realtà a volte indigeste, a vedere ciò che è nascosto e dimenticato, agli estremi delle città. Con l’intento di far scaturire il coraggio dell’osservatore, a soffermarsi ancora e a non distogliere lo sguardo.
Dialoghi Mediterranei, n. 47, gennaio 2021
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Samuele Formichetti, da Pavia dove è nato si trasferisce nella provincia reatina dove trascorre la sua infanzia. Poco più che adolescente si approccia alle prime macchine fotografiche usa e getta, ma senza mai approfondire realmente la disciplina. Si inserisce molto presto nel mondo del lavoro scoprendo così la sua propensione alle attività pratiche di manifattura. Nel 2014 si trasferisce in Sicilia, qui accresce il suo interesse per la fotografia, compra i primi kit fotografici e acquisisce le conoscenze tecniche partecipando alle attività dell’Associazione AFI 011 con sede a Roccalumera (Messina). Si appassiona al fotogiornalismo leggendo testi da Robert Capa a Gabriele Micalizzi, mostrando particolare coinvolgimento verso ciò che documenta la guerra. Collabora con professionisti del settore e partecipa a workshop. Una sua raccolta è in corso di stampa nell’ambito di un progetto editoriale collettivo.
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