Est-etiche
L’estetico, quale conoscenza sensibile in ambito artistico di tipo contemplativo, risulta essere un elemento di forte interesse per l’antropologia. Spesso percepito come dispositivo di distacco dall’ordinario, vede la sua origine nell’estro di uno, nel genio ibrido irripetibile della singolarità che lo crea, ma è nondimeno frutto di elementi contestuali, geografici e sociali. L’arte, in quanto forma culturale, infatti, è politica, ovvero intimamente invischiata nella rete di relazioni dei soggetti che a vario titolo ne prendono parte.
È lecito, dunque, interrogarsi prendendo spunto da Sull’estetico etnografico di Alessandro Simonicca (Cisu ed. 2019) sui molteplici significati che le opere creative attivano, anche e soprattutto in virtù degli elementi materiali e simbolici di cui si compongono. L’autore propone un’analisi lucida e variegata sui rapporti contemporanei tra antropologia ed estetica e sulla funzione dell’arte, quale elemento inscindibile dalla vita ed «aspetto tipicamente antropologico della ricerca». Lungi da voler circoscrivere e polarizzare, è possibile aprirsi a riflessioni circa la produzione e il consumo di arte odierni. L’estetico può essere pensato tanto come forma perfetta a accurata capace di destare piacere sublime, quanto come serialità espositiva di oggetti «etnici» finalizzati alla creazione del «mito del primitivo».
Già da tempo l’antropologia si è spostata su un piano meta, critico riguardo alle proprie tecniche di narrazione: il linguaggio genera immaginari collettivi capaci di modificare gli elementi cui si rivolge e ciò pone al ricercatore quesiti di natura etica riguardo al proprio operato. In questo modo, l’etnografia viene ripensata in tutta la sua criticità senza, però, approdare a derive eccessivamente decostruttive. Il «filtro riflessivo» con cui lo studioso legge e restituisce i dati raccolti deve settarsi entro un «livello ermeneutico medio» tale da evitare derive solipsiste da un lato o positiviste dall’altro. Se gli artefatti culturali possono essere letti come testi alla maniera di Geertz (Geertz, 1988), è possibile superare il noto scetticismo di Durkheim verso la descrizione etnografica, senza incappare in un eccessivo relativismo che pensi alla disciplina come pura arbitrarietà. Una tale disposizione, però, accetta il rischio di lasciare indietro i nodi stridenti, i conflitti e le negoziazioni che ogni attribuzione di senso porta con sé.
Il lavoro sul campo non prescinde dal soggetto che lo compie: ricerca, elaborazione ed esposizione reclamano sempre un chi e un dove, ma ciò non impedisce la loro messa in atto. Formalizzare il vissuto significa ordinare e uniformare secondo «l’equazione personale del ricercatore» – scrive Simonicca – i frammenti del tutto partecipato. Inevitabilmente, qualcosa va perso e qualcos’altro si aggiunge: quel lost in translation indice della presenza materiale e prospettica delle singolarità immerse nel mondo. Le culture, difatti, non si collocano rigidamente entro confini perfettamente delimitati e ciò ha delle ripercussioni tanto negli studi sull’arte quanto sull’arte stessa.
Curvature
Pensare all’estetico in termini politici significa esplicitare concretamente i legami che la cultura intrattiene con il territorio. La materialità degli artefatti rimanda sempre a dei circuiti sociali che sono produttivi e comunicativi allo stesso tempo. Dal punto di vista epistemologico, ciò si traduce nella consapevolezza che lo spazio non è sfondo asettico dominato dall’uomo, ma co-attore dotato di agency e capace di instillare un habitus nei suoi percorritori (Simonicca, 2019). Le opere artistiche dialogano con i luoghi in cui sono esposte (Krauss, 1979), generando una giustapposizione di sensi che co-involge creativi, studiosi, pubblico. Nell’interazione tra soggetti, manufatti e spazio si generano significati culturali cangianti: «alle “terre” bisogna aggiungere gli uomini, i prodotti e le immagini del loro mondo» (Simonicca, 2019, 52). D’altro canto, gli spazi non sono vuoti, ma si animano con l’azione: i luoghi «precisamente delimitati non esistono prima dei contatti, ma di essi si nutrono, appropriandosi e disciplinando gli incessanti movimenti delle persone e delle cose» (Clifford, 1999, 10).
Poiché la fruizione dell’arte non prescinde dalla mobilità, il viaggio può rappresentare una buona categoria di analisi. Vengono, così, chiamati in causa gli effetti che il movimento inscrive sui luoghi, i cambiamenti visibili che questo genera: si valuta l’impatto fisico e simbolico degli spostamenti a livello locale. Lo studio quantitativo degli indici inerenti a economia, turismo, industria, istruzione rischia di far perdere di vista l’unicità degli attori coinvolti, ma permette di pensare allo spazio in termini di giustizia sociale e sostenibilità ambientale.
Nel mondo contemporaneo, una grossa fetta della mobilità è legata al mercato e spesso è causa di iniquità per coloro i quali abitano ambite mete turistiche o territori soggetti a sfruttamento. Le immagini da cartolina o il depauperamento dei territori sussumono i luoghi producendo ingiustizie nei confronti delle popolazioni autoctone. L’aumento dei prezzi sui mezzi di trasporto o l’uso della terra finalizzato al mercato incidono sulla vita dei locali: un neoliberismo dal sapore coloniale, ugualmente cieco e ugualmente spietato.
Nonostante l’esperienza del viaggio a scopi turistici o di studio possa scaturire dai bisogni indotti dall’economia capitalistica e dal desiderio di pura contemplazione, si tratta, comunque, di un livello esistenziale dinamico, fatto di vissuto e agito, di ricerca al di là dell’ovvio conosciuto. Oltrepassando la sfera del quotidiano, il viaggiatore si allontana per ritrovarsi, può aprire il sé a dimensioni esperienziali importanti: d’altronde, scrive Simonicca:
«non si dà viaggio senza soggetto […] senza esperienza; anche la più misera, la più lesa, la più desolante esperienza rimanda a un sé. Il viaggio dona vita (e prende vita) proprio perché si insedia nel cuore dell’umana tensione a conoscere, muoversi, rinnovarsi, a divenire se stessi passando per l’altro».
Tale esperienza non può essere scissa dal contesto con cui dinamicamente dialoga. I soggetti che curvano, addensano e ri-significano incessantemente l’ambiente attraverso il movimento; agendo deformano lo spazio e ne fanno luogo. La singolarità non è monade: è sempre politica in quanto immersa in una trama di legami tra il sé e l’altro, ove per altro si intende sia l’umano che l’altro-che-umano. Sarebbe approssimativo, dunque, guardare ai siti solo in relazione alla staticità; piuttosto bisognerebbe superare l’idea che viaggiare sia appendice del risiedere e che quest’ultimo sia l’unico fondamento solido del vivere collettivo: «le radici [non] sono sempre più importanti delle strade» (Clifford, 1999: 9). Lo stesso ricercatore che pianta la tenda sul campo alla maniera di Malinowski porta con sé i legami intessuti durante la via (Clifford, 1999).
È attraverso l’azione che è possibile mischiarsi, costruire quel sé ibrido in costante mutamento: agendo si è agiti. Spostarsi ha a che fare certamente con la partenza e l’arrivo, «allontanarsi per ritrovarsi», «andare per ritornare», «tornare per ripartire», ma il percorso non è indifferente. Risulta complicato essere d’accordo con Simonicca circa la ciclicità del viaggio; piuttosto un continuo rinnovarsi, un po’ come quei riti di passaggio di cui parla Van Gennep in cui cambia la forma e non si è più gli stessi, un po’ come Ulisse che una volta a casa brama le Colonne d’Ercole.
Contatti
L’interesse etnografico per l’estetico è frequentemente attraversato da critiche aspre causate da possibili derive esoticiste e orientaliste. Difficile oggi porsi in linea con le interpretazioni tradizionali, da tempo superate, che sostengono l’esistenza di differenze culturali nettamente definite. Resta, però, da comprendere il ruolo delle istituzioni in cui gli artefatti creativi vengono esposti, il tipo di narrazione proposta e gli effetti performativi sul vivere.
I musei contemporanei, possono essere interpretati come «zone di contatto», come ci insegna Clifford (1999), in cui diversi modi di sentire si incontrano e si mischiano. L’incontro della diversità è frutto di un processo dinamico: la staticità dell’estetico esibito cela il movimento, ovvero la strada percorsa dagli attori in gioco per giungere nel luogo e dare vita alla relazione e al senso. Facilmente, i significati afferiti alle opere creative echeggiano il sito di produzione, meno esplicitamente i molteplici motivi della loro collocazione nei musei. In campo sono schierati arte, cultura e storia di più comunità:
«quando i musei sono visti come zone di contatto, la loro struttura organizzativa in quanto “collezione” diventa una “relazione” storica, politica, morale e organizzativa: una serie di scambi, spinte e strappi carichi di potere» (Clifford, 1999: 228).
Ciò significa pensare lo spazio dei musei come frontiera (Clifford, 1999) in cui gruppi geograficamente e storicamente diversi si relazionano. Non di rado, conflittualità insanabili e disuguaglianze neocoloniali marcano i rapporti, ma non vanno intese in senso assoluto. Vige tra le parti un principio di reciprocità, seppur asimmetrico e ineguale: assoggettati e assoggettatori sì, ma non vittime passive e carnefici totalizzanti. Rappresentare i sottomessi come privi di possibilità d’azione significa mortificare lo scarto decisionale tra la regola e la sua effettiva messa in pratica; piuttosto, si possono proporre narrazioni posizionate che sfidino il potere e contribuiscano a immaginare e, dunque, costruire performativamente scenari più equi e collaborativi. A tal proposito, è condivisibile la posizione di Simonicca quando afferma che
«il turismo è una industria che si basa su differenze e produce diversità culturali in scenari che aprono a popoli, esperienze, processi di alterizzazione, stereotipi, pregiudizi, posizionamenti, competenze, biografie. Il primario interesse antropologico si rivolge, quindi, in misura più intensa, verso la dimensione dell’esperienza culturale, che necessita, per essere compresa, dall’attivazione della prospettiva della standpoint research, ossia la rilettura ‘posizionale’ del dettato malinowskiano del native point of view, che dell’Altro ricostruisce una vera e propria forma di vita, restituendo in maniera compartecipata uno dei possibili mondi dell’incontro culturale fra culture e popoli. Risulta pertanto importante passare dall’immaginazione rappresentazionale dell’Altro alla ricostruzione dell’intreccio delle vite delle persone e dei gruppi sociali implicati all’interno dello scambio sociale e delle logiche di potere che lo presiedono, ricongiungendo le relazioni, spesso separate, di host e guest».
Sensi
Si è detto che i significati attribuiti agli oggetti vengono continuamente ridiscussi e che la produzione e la collezione di arte e cultura sono parte di un processo interattivo. Riconoscersi come parte di un gruppo è frutto di un processo di negoziazione di significati mai perfettamente compiuto che passa anche dal simbolismo degli oggetti. I manufatti, quasi fossero reliquie sacre, fungono da operatori di costruzione identitaria collettiva tali da attivare un sentire empatico che rimanda al passato. Gli oggetti esibiti decontestualizzati dal sito di creazione assumono nuovi statuti ontologici ed epistemologici, assolvono a bisogni variegati, propongono letture ibride.
Una volta smantellate le funzioni pregresse, gli artefatti esposti nei musei vivono un processo di «smaterializzazione/[ri]materializzazione», per usare le parole di Simonicca. In questi luoghi, i manufatti vengono mitizzati: la ripresentazione estetica entro il nuovo spazio dell’istituzione formale diventa prova dell’autenticità del passato cui l’oggetto appartiene. Il visitatore, attraverso la sua «azione-interpretazione», completa l’opera divenendo egli stesso parte di essa. Si tratta di una «epistemologia sensuale» che permette di abbandonare il primato della vista in funzione del «corpo, quale sede e dispositivo elaborativo della creatività, nonché fonte della esperienza originaria della indistinguibilità fra anima e corpo».
L’opera creativa possiede la facoltà di stabilizzare la vita umana in virtù della propria materialità: non è semplicemente esperita con gli occhi, ma percepita e partecipata con tutta la fisicità del corpo (Arendt, 1988). La materialità delle creazioni d’arte viene sublimata nell’incontro con i suoi fruitori, è «vita dei pensieri» – scrive Simonicca – ed espressione del punto di vista dell’autore. L’oggetto è un medium che contiene la potenza dell’artista in cui la varietà del mondo viene colta e restituita sotto una nuova prospettiva. L’artefatto è agito mediante l’interpretazione del visitatore, ma agisce il visitatore stesso, poiché si muove in lui suscitandone emozione. Una reciproca influenza, dunque, in cui l’opera necessita di un riconoscimento pubblico e il pubblico è influenzato dall’opera: entrambi nell’interazione significano e sono significati dall’altro.
Tensioni
Nella mistura tra ricerca, movimento e significazione sta la tensione verso il l’ignoto. Etnografia, azione e senso non possono essere separati dalla vita; così l’arte, quale forma di esperienza e comunicazione. A guardar bene, l’estetico è, come l’etnografia, narrazione: ha facoltà di sublimare istanze personali e collettive e renderle vive. Che si tratti di contemplazione o aspirazione alla conoscenza dell’altro – luogo, artefatto, soggetto che sia – non si devono perdere di vista gli effetti che l’agire, in quanto linguaggio, porta inevitabilmente con sé. I soggetti che con il loro movimento animano i luoghi li moralizzano. La rete di relazioni in cui ogni presenza nel mondo è invischiata rende i corpi politici, ovvero sottoposti a continua risignificazione e ciò ha delle ripercussioni nel concreto quotidiano di ciascuno. Percepire, produrre e conoscere non prescindono, dunque, da un coinvolgimento etico che debba tenere sempre presente le ingiustizie di cui può farsi promotore. L’arte nel suo rapporto con la ricerca antropologica può, quindi, fungere da medium comunicativo volto alla costruzione di modi più equi di stare al mondo, nella consapevolezza che qualcosa resterà sempre inafferrabile e intraducibile.
Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
Riferimenti Bibliografici
Arendt H. (1988), Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano,
Clifford J. (1999), Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX, Bollati Boringhieri, Torino
Geertz C. (1988), Interpretazione di Culture, il Mulino, Bologna
Krauss R. (1979), Sculpture in the expanded field in October 8: 30–44
Simonicca A. (2019), Sull’estetico etnografico, CISU, Roma
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Maria Rosaria Di Giacinto, si è laureata con lode nel 2017 in Studi Filosofici e Storici presso l’Università degli Studi di Palermo. Nello stesso anno ha partecipato come relatrice al convegno internazionale Stati Uniti, Australia e Unione Europea: tre modelli a confronto, da cui è stato tratto nel 2019 un volume da lei curato e in cui è inserito il suo saggio Politiche di migrazione irregolare. Stati Uniti, Australia e Unione Europea: tre modelli a confronto. Nel 2019 è relatrice nel convegno Dai Vespri Siciliani a Strade Sicure, ne ha raccolto gli atti per la pubblicazione che comprende un suo contributo: Ricerca sul campo e cambiamenti di prospettiva. Ha, inoltre, partecipato a numerosi scambi all’estero, all’interno di progetti UE. Laureanda in Studi Storici, Antropologici e Geografici, si occupa attualmente di migrazioni e cambiamenti climatici.
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