di Roberto Settembre [*]
Premessa
Senza dubbio iniziare un discorso definito da un lemma che contiene alcuni fra i massimi principi del pensiero speculativo, come Etica, Giustizia e Pregiudizio, espone l’incauto argomentatore a giudizi suscitati da una naturale diffidenza e da un legittimo scetticismo. E soprattutto quando questo lemma attiene a una conferenza tenuta quindici anni fa davanti a un pubblico di studenti tedeschi.
Tuttavia crediamo sia necessario sfatare le ragioni che dominano questo atteggiamento oppositivo osservando come questi tre concetti non solo non abbiano smesso di esprimere una necessità cognitiva, utile per confrontarsi con gli eventi sociali e politici, ma abbiano assunto di questi tempi, esposti alla bufera che accompagna il progetto di modificare l’egemonia culturale espressa dalla Costituzione repubblicana, un’importanza forse ancora maggiore di allora, quando parlare di Etica, di Giustizia e di Pregiudizio per chiarirne la valenza significava soprattutto proporre un’azione del pensiero diretta a scongiurare derive e pericoli visti nella prospettiva di una concreta “vita activa”, per citare un importante concetto arendtiano.
Infatti oggi siamo costretti ad assistere a come vengano non soltanto messi in discussione ma ribaltati in modo propositivo e concretamente normativo alcuni assunti del convivere civile, se per convivere civile debbano intendersi princìpi dai quali sono scaturite norme e narrazioni storiche ritenute stabili e condivise dalla maggioranza delle persone che si riconoscono nei valori costituzionali. Vogliamo dire che al perché della condotta e al perché della norma sia necessario rispondere quando ci si confronta con fatti della giustizia e con fatti della legge, e non solo, anche con fatti della Storia.
Si pensi per un attimo al significato di una volontà legislativa volta a impedire il riconoscimento dei genitori omosessuali o transgender, imponendo il divieto sulla scorta di un pregiudizio di genere, o a decisioni come quella della Suprema Corte sul mantenimento del regime del 41 bis nel caso Cospito, quando è pacifico che la natura e la finalità di quella norma non è punitiva ma cautelare in difesa della collettività dalla materiale condotta criminosa di pericolosissimi alfieri della criminalità organizzata, e non volta a reprimere chi, privato giustamente (cioè in conseguenza di un giusto processo) della libertà di azione, usa del diritto che gli è rimasto, cioè l’integrità del proprio corpo, per la sua lotta ideale o ideologica, contestabilissime e opinabilissime, ma del tutto estranee alle condotte che il 41 bis era nato per reprimere. E infatti la Procura Generale presso la Cassazione si era pronunciata in tal senso.
Ma c’è dell’altro: pensiamo al progetto di abrogare o modificare (da leggersi in vanificare) la legge sulla tortura, perché impedirebbe alle forze di Polizia di “fare il loro lavoro” (sic!!), talché quel lemma che contiene le parole Etica, Giustizia e Pregiudizio, è prodromico a una riflessione sul significato dell’introduzione nel nostro ordinamento di quel reato, ancorché impreciso e monco della sua più importante qualità normativa, cioè di essere un reato proprio, che solo lo Stato può commettere (come la bigamia che solo le persone sposate possono commettere), e che come tale dev’essere imprescrittibile.
Quanto infine alla narrazione storica, forse quelle tre parole diventano un parametro imprescindibile a cui ricorrere per contrastare affermazioni ributtanti e sordide come quelle mirate a trasformare fatti della Resistenza al dominio bestiale e orrifico dell’occupazione nazifascista dell’Italia. Si pensi solo per un attimo al significato della razzia degli ottomila cittadini romani del 16 ottobre 1943, destinati a venir macellati nei lager nazisti, prima di additare quali macchie oscure della lotta di liberazione nazionale, contrabbandando le necessarie e normali discussioni che la precedettero, un’azione resistenziale drammatica e sanguinosa come quella di via Rasella a Roma, come la prova della colpa morale dei suoi decisori e artefici, tale da infangare financo la scelta di un Presidente della Repubblica colpevole di aver fatto parte del FLN, come se una discussione tra giudici in camera di consiglio, che conduce alla pronuncia di una sentenza, per il fatto di essersi tenuta anche aspramente, trasformi quella sentenza in una sentenza ingiusta.
Queste riteniamo sommessamente debbano essere le ragioni che conservano attualità a quella conferenza di quindici anni fa.
A vedermi qui, davanti a tanti giovani, mi viene naturale porre me stesso al vostro posto, con un salto della memoria, cercando di ricordare quali fossero i miei sentimenti in analoghe situazioni. E la cosa non è di per sé un mero gioco accademico, perché significa qualcosa di più profondo e di più complesso. È qualcosa di più profondo perché incide sul sentimento di essere, cioè di appartenere a un gruppo, cioè a una comunità, che è la comunità dei giovani, a fronte della comunità degli adulti e degli anziani, che, per i giovani, non sono molto diversi, tanto quanto si sentono diversi i giovani di fronte a loro. Ma è più complesso non tanto per il significato, quanto per le conseguenze.
Vedete, da sempre, da quando esiste, la società umana ha espresso un suo modo d’essere nel rapporto tra docente e discepolo, fra genitori e figli, dove il rapporto tra generazioni ha distillato un’essenza diversa che sgorga dal rapporto tra governanti e governati, tra chi ha potere e chi lo subisce, tra chi comanda e chi ubbidisce, perché questo tipo di rapporto è comunque un rapporto tra uguali, anche se qualcuno è più uguale degli altri, tanto per citare Orwell. Viceversa, nel rapporto tra generazioni, c’è qualcosa che mi ricorda il rapporto tra specie diverse, ed è per questo che l’espressione che tanto spesso si sente, per cui agli adulti i giovani paiono dei marziani, e ai giovani gli adulti degli animali coi quali non val la pena di dialogare, non è del tutto campata in aria.
Ciononostante, dovendo per forza di cose convivere sul pianeta, s’impone la necessità dell’incontro, o, quanto meno, dell’occasionale passaggio di consegne. Da militare, ma voi non l’avete fatto, credo, si diceva il passaggio della stecca, che era un bastone sul quale si segnavano i giorni mancanti alla fine del servizio, e, giunti al termine, lo si consegnava al nuovo arrivato, con tanti auguri per la sua prigionia. Ora, questo passaggio non è poi tanto occasionale, visto che, di generazione in generazione, gli esseri umani si son passate le chiavi di questo grande condominio che è il mondo, lasciato più o meno abitabile dai precedenti inquilini. Allora potremmo dire che un incontro come questo è simile a quello tra i due clienti di un’agenzia immobiliare, uno dei quali vende e l’altro compra, e con tutta la diffidenza che i compratori sentono verso i venditori.
In verità le cose non dovrebbero stare così, perché il senso di uguaglianza, cioè di essere uguali, voi e noi, trova un buon esempio in un dato di fatto del quale tutti hanno costantemente la prova. Mi spiego meglio.
Ci sono due modi per effettuare gli incontri tra generazioni. Uno è questo, che non vi libera dalla diffidenza, e l’altro non la contempla, ne prescinde, la ignora, è facile, immediato, tanto che potete metterlo in pratica tutti i giorni, poiché le generazioni comunicano attraverso la scrittura, e voi potete entrare in contatto anche con Omero e con Goethe, o con chiunque del passato, con la semplice apertura di un libro. Allora, ricevendo dentro di voi il seme del pensiero di un uomo del passato, non sentirete alcuna diffidenza. Anzi. Vi sentirete fortissimi, e padroni delle idee. In verità le generazioni dialogano e comunicano con effetti inaspettati e forse forse più subdoli di quanto si pensi. E questo modo di comunicare apparentemente ingannevole, che nasconde qualcosa, non è un fatto negativo, perché sottilmente, senza che ve ne accorgiate, le idee entrano dentro di voi, e spesso si replicano come un virus, dopo di che sono pronte a trasmettersi dall’uno all’altro.
E ora siamo tornati al punto di partenza, cioè al significato del nostro incontro, circa la necessità che non sia la diffidenza a qualificarlo, ma la capacità di comunicazione, da un lato, e di critica e di elaborazione dall’altro, per cui ognuno di voi, se le cose dette avranno un senso, si trasformi in un angelo, cioè in un messaggero speciale, che non è certo un semplice portatore di buona novella. E francamente, se dovessimo davvero credere agli angeli, dovremmo ritenerli almeno portatori di intelligenza, per cui dovrebbero saper pensare, e il pensiero è giudizio, e il giudizio è capacità razionale, per cui i veri angeli sono messaggeri di intelligenza, cioè di capacità di critica. E questo è necessario, essendoci un rapporto tra l’intelligenza, il giudizio e la memoria.
Ecco, non stupitevi se si parla di memoria. So bene che alla maggior parte dei giovani il passato interessa poco, ma certo hanno capacità di interrogarsi, e i giovani lo fanno, più o meno consapevolmente, più degli anziani, ma lo fanno spinti dall’inquietudine, a cui sono costretti dalla paura e dall’ottimismo esistenziale. È chiaro che vi auguro di essere più ottimisti che paurosi, ma nel raccogliere il messaggio, nel rielaborarlo, e nel trasmetterlo, giocheranno proprio questi elementi, e vi troverete, a vostra volta, davanti al vostro interlocutore, che potrebbe accogliervi con diffidenza e senso di estraneità, finché l’idea trasmessa non avrà preso possesso del nuovo ospite, che potrà condividerla o no, e rispetto alla quale potrà agire in base al suo pensiero, o farne uso con lo strumento comune a tutte le generazioni, il pregiudizio, che è mezzo di conoscenza e di azione un po’ particolare.
Ora, sul pregiudizio, la maggior parte delle persone pensa di esserne immune, convinta di saper esercitare una saggia e solerte sorveglianza sulle proprie capacità di giudizio, ma vorrei raccontare un fatto che ho scoperto qualche tempo fa sul potere del pregiudizio.
Vedete, in Italia, dagli albori della televisione fino al 1977, ogni sera, dalle 21 alle 21 e 15, veniva trasmesso sul canale nazionale un programma pubblicitario che si chiamava Carosello, e che era costituito da cinque sketch, della durata di tre minuti ciascuno, opera in buona parte dei grandi registi della commedia all’italiana, come Dino Risi, Comencini, Monicelli e altri, che, raccontando una storiella, invitava all’acquisto. Per fare un esempio ricordo che la Brillantina Linetti era pubblicizzata da una storiella gialla, col morto ammazzato e il maggiordomo colpevole, sempre risolta da un ispettore col cappello, il quale, al termine, veniva interrogato da un personaggio che gli chiedeva: “Ma lei, ispettore, non sbaglia mai?” e l’ispettore si toglieva il cappello, scoprendo un cranio calvo e lucente, e diceva: “Non è esatto! Anch’io ho commesso un errore, non ho mai usato la brillantina Linetti”.
Dunque, per vent’anni gli italiani vennero bombardati da messaggi pubblicitari veicolati da storielle di questo genere, poi il programma venne cancellato, nel 1977, e vennero svolte delle indagini per conoscere quanto un programma del genere avesse condizionato gli italiani. A una signora fu domandato secondo quali criteri di giudizio effettuasse le sue compere. Ebbene, quella signora rispose che lei non acquistava mai un prodotto pubblicizzato dalla televisione. Allora le venne chiesto sulla base di quali informazioni scegliesse i suoi prodotti, e la donna rispose che lei comprava utilizzando le informazioni delle amiche. Precisò che, quand’erano soddisfatte, la invitavano a imitarle. Da chi o da cosa le amiche fossero influenzate, la signora intervistata non se lo domandava proprio.
Ora, questo esempio è decisamente banale, ma è sintomatico del fatto che, scusate il gioco di parole, i fatti talvolta sono capaci di trasformare la riflessione in un’ancella, una servetta, insomma, capace di modificarli, proprio perché i fatti utilizzano il pregiudizio. Così questa riflessione diventa il riflesso del pregiudizio e non dell’intelligenza critica, e si trasforma nel cavallo di troia di altri fatti, che daranno origine ad altre riflessioni, e via, su un cammino assai pericoloso.
Ecco, tanto per fare un altro esempio, vorrei parlare di un pregiudizio che di questi tempi difficili fa parte dell’armamentario, della baracca insomma, costruita da gente senza scrupoli per fini scarsamente compatibili con la democrazia anche se travestiti per far sembrare proprio il contrario. Dunque parlo del modo di dire: “Il fine giustifica i mezzi”. Ebbene, questo modo di dire, per i suoi difensori, non significa mai che la barbarie dei mezzi imbarbarisce i fini. Anzi, i difensori di questo bel pensiero, che vive e prospera nella testa di una gran quantità di persone, a tutti i livelli della società, sostengono che è necessario perché i tempi sono difficili, e che bisogna fare dei sacrifici. Bene, facciamo una digressione.
A tutti, nella loro vita, sarà capitato di aver provato su di sé lo shock di un incidente, e il dolore fisico e quello psichico che ne conseguì. Alcuni, spero la minoranza, avranno provato su di sé anche il trauma di un’aggressione. Ebbene, quei pochi provino a farsi messaggeri cogli altri del paragone dell’effetto del trauma dell’incidente, con l’effetto dell’aggressione, e dovranno ammettere che la ferita dell’incidente può essere stata anche più grave di quella dell’aggressione, ma sulla coscienza, per l’intensità delle emozioni, gli effetti di un’aggressione sono stati certamente più gravi di quelli dell’incidente.
Allo stesso modo un rapporto sessuale in mezzo alla strada, nell’ora di punta, o sul banco di una chiesa durante la messa della domenica è un gesto illecito e condannabile, mentre in camera da letto, fra due adulti consenzienti, è naturale e ricco di conseguenze piacevoli. Santificato pure tra marito e moglie benedetti dal prete dell’unione.
Cosa c’entra questo con il pregiudizio, vi domandate? C’entra, perché gli esseri umani attribuiscono ordini di valori a fatti apparentemente identici, e per ordini di valori dobbiamo intendere il peso diverso, riflesso nello spazio dell’io, che ciascuno attribuisce, non al fatto in sé (la ferita subita o l’unione dei corpi) ma a quel che lo definisce. Cioè al giudizio che ne diamo. Ed ecco perché il pregiudizio è pericoloso, perché impedisce che quella riflessione, nello spazio profondo della coscienza, sia il frutto di un’analisi critica, condotta utilizzando le categorie razionali.
Ma adesso la faccenda si complica, perché, se abbiamo capito che cosa il pregiudizio non fa, non abbiamo chiarito a sufficienza quel che fa, cioè di che cosa sia portatore. Infatti le nostre categorie razionali hanno bisogno di una struttura certa sulla quale basarsi, cioè di una forma della quale fidarsi. E lo scetticismo, che aiuta a evitare il pregiudizio, guidandoci nel riconoscimento, non ci aiuta sufficientemente nella ricerca di quella base.
Torniamo allora un attimo alla gerarchia dei valori di cui abbiamo appena parlato, e spostiamola dall’io, dall’individuo, alla società umana, ed ecco che uguali azioni, medesimi fatti, saranno diversi perché rivestiti di forme differenti. Possiamo dire che esiste qualcosa, che viene prima di quelle azioni e di quelle condotte, e che le descrive in modo astratto, che le prevede, che dà loro una ragione. Allora, quando quelle azioni, quei fatti si verificheranno, noi li percepiremo, li vedremo, li vivremo in modo diverso, se saranno stati previsti o non, rivestiti o no di quelle forme. Così uccidere un uomo è un omicidio o un dovere, se si è in pace o in guerra, se l’avversario è armato o non, combattendo contro di noi o no.
Anche lo scannare un pollo o un maiale, sul marciapiedi o nel macello comunale. O demolire un edificio, o imprigionare una persona. Pensate a Guantanamo, ai prigionieri senza processo, ai rapimenti di cittadini da parte dei servizi segreti, e al fatto che troppa gente pensa che in fondo “Il fine giustifica i mezzi”. Cioè non pensa affatto che le forme, quelle forme che dovrebbero rivestire quei fatti, sono sostanza, e che si annidano pericoli terribili nel mutamento di un costume che spinge alla cecità sulla coincidenza tra la forma e il suo contenuto, cioè alla ragione del diritto, o alla ragione della giustizia, come spiegheremo meglio fra poco.
Per ora limitiamoci a vedere una svolta nella civiltà, quando il pregiudizio si fa paladino di un costume, e tende a cancellare le categorie razionali, molte delle quali discendono da quelle forme, che sono il diritto, la cui ragione profonda discende in gran parte dalla morale condivisa dei popoli giunti faticosamente alla democrazia. Ma facciamo una digressione.
Viviamo in un’epoca di quiz televisivi, di domande banali e stupide che valgono decine di migliaia di euro. Viviamo in un’epoca in cui ogni persona che accende il televisore e assiste a uno show di domande a quiz è spinto a un transfert elementare: egli paragona quel valore (per cui il valore della persona che risponde alla domanda, si trasforma nello stesso momento e per la stessa ragione nel valore stesso della risposta) con il proprio: che cosa ho io di meno o di meglio di lui? Io che so rispondere, io valgo diecimila o centomila euro! E viviamo anche in un’epoca in cui il valore della persona è visto in diretta proporzione con la sua capacità di guadagno.
Ricordo che, molti anni fa, in USA, mi venne fatto notare che, alla presentazione fra sconosciuti, in ambienti borghesi medio alti, la domanda di rito non era: “Che mestiere fai?” ma “Qual è il tuo income?”, e a me, giovane magistrato italiano, venne detto: “Ah, tu guadagni centomila US dollari all’anno!” che era il reddito medio di un giudice americano. Io ne pigliavo dodicimila, e non lo confessai. Ma soprattutto viviamo in un’epoca dove l’uomo politico più ricco d’Italia ha affermato, un paio d’anni fa, che una persona che non possieda almeno due milioni di dollari in banca, non è degna di presentarsi alle elezioni.
Ora, tornando al Quiz, è chiaro che questi giochi a premio sono il segno che il valore delle persone non è solo rivelato dalla loro corrispondenza al danaro, ma dal fatto che ogni altro valore è come bandito, evaporato dalle categorie di giudizio. E poiché il giudizio è strettamente connesso con la morale, ne discende che il costume, così modificato, ha costruito un pregiudizio, per cui la morale stessa apparentemente cambierebbe. Quindi dovremmo chiederci se la morale sia stabile o no. È solo una domanda, che vi rivolgo, ma poiché la morale dovrebbe dirci quel che è giusto e quel che è sbagliato, e poiché chiunque è in grado di percepire la menzogna e di giudicarla, il punto che separa la morale dalla non morale, e che ne consente il riconoscimento, è la menzogna.
Così vi pongo una seconda domanda: chi è il furbo? perché la faccenda gira proprio attorno a questo aspetto, cioè al rapporto tra il pregiudizio e la menzogna. Dunque il furbo è una persona che sa fare i propri interessi, e li sa fare anche a discapito, cioè a danno altrui. È persona che riesce a evadere il fisco facendola franca, che riesce a stipulare contratti vantaggiosi per sé, sfuggendo alla severità della legge (spesso ai processi). Che ha successo e fama. Che è in grado di raccogliere consensi elettorali con la suggestione dei suoi argomenti. In definitiva il furbo è persona che sa mentire molto bene.
Ma il furbo suscita nel suo osservatore, e nel suo estimatore, un moto di ammirazione e diffidenza. Per cui egli vorrebbe assomigliargli, per goderne i vantaggi, ma non vorrebbe mai avere a che fare con lui, cioè non comprerebbe mai da lui, come si dice, un’auto usata. Tutti diffidano di chi ci potrebbe imbrogliare, cioè diffidiamo di chi sa mentire. In Italia, però, il costume, cioè la cultura dominante, ha messo il furbo in cima alla scala sociale.
Da lì, allo spostare questa vetta al vertice della scala dei valori, il passo è breve. Ma siamo lontani anni luce dall’assunto kantiano per cui «due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me».
Ciò che accade, allora, è che, se il pensiero è giudizio, e il giudizio è morale, il pensiero non è menzogna, mentre il pregiudizio, assenza di pensiero, lo è: è menzogna.
Allora s’impone la necessità del suo controllo, e uno dei mezzi per esercitarlo (non l’unico, ovviamente) è di sicuro la giustizia. Lo è tanto che Ubu Roi, nel dramma di Alfred Jarry, dopo aver preso il potere, dice: «E adesso, la giustizia». Si tratta cioè di un tentativo, o di un Progetto – ma la questione è aperta – di separare la giustizia dal modo corretto di esercitarla, per asservirla al pregiudizio, e cioè alla menzogna, separandola dalla morale.
Sul punto, però, devono chiarirsi due aspetti. Uno riguarda la doppia funzione della giustizia, di essere un mezzo di tutela dell’individuo, e di essere un mezzo di tutela della collettività. E l’altro, per cui lo strumento con cui opera la giustizia, il diritto, la norma, non può esaurirne la natura, cioè la giustizia non può ridursi unicamente al suo strumento, dovendo essere ricondotta, invece, al pensiero razionale, perché, se la si limita al diritto, escludendo il pensiero, si corre il rischio di servire quel tentativo di separarla dalla morale per farla serva della menzogna. Sul primo punto, comunque, dovremmo limitarci a notare come questa doppia funzione, di tutela dell’individuo e di tutela della collettività, sia in costante oscillazione, prevalendo ora l’una ora l’altra, a seconda di quanto sia urgente il tasso di cambiamento della società.
Infatti, come ben sapete, le nostre società democratiche sono il frutto di una lenta e faticosa costruzione, eretta sulle regole di antichi diritti (il c.d fondamento giusromanistico, poiché affondano le radici nel diritto romano) e si sono evolute sui valori dell’uguaglianza, della libertà, dell’habeas corpus, imponendo il primato della legge sull’arbitrio del potente.
Tuttavia le strutture sociali e maggiormente quelle politiche sono più rigide delle esigenze, delle necessità del mondo sociale, e questo esprime la sua forza e la sua volontà mettendosi in conflitto con quelle strutture. Il movimento No global ne costituisce un esempio emblematico, mentre la giustizia si pone sullo snodo, come perno, tra la difesa di quelle strutture rigide, e la necessità di difendere i valori dell’individuo, consentendo, di fatto, una certa tolleranza dell’illegalità, per cui la contestazione, l’azione aspra non vengono stroncate brutalmente, ma i meccanismi del processo, con le sue garanzie – il fatto che i reati non molto gravi si prescrivono dopo pochi anni, le sanzioni non molto pesanti, quelle alternative alla detenzione, i doppi benefici di legge – consentono apparentemente di assorbire l’illegalità senza troppo danno per chi la commette; e dall’altro, di far passare nella coscienza collettiva l’idea che anche così sia possibile procedere al cambiamento di quelle strutture alla cui difesa si erge la giustizia.
Insomma, piccoli fatti scarsamente puniti, spingono, insieme con altri meccanismi (l’università come laboratorio di ricerca, l’attività giornalistica come stimolo per la discussione, l’attività politica, l’arte in tutte le sue manifestazioni, ad esempio) a far percepire la necessità di grandi cambiamenti nell’ordinamento delle leggi, cioè a costruire nuove regole sociali.
E vi faccio l’esempio del divorzio, preceduto dalla punizione dell’adulterio, dalla punizione dell’abbandono del tetto coniugale, o l’obiezione di coscienza verso il dovere di far parte delle forze armate. E oggi, pensiamo al fenomeno dell’immigrazione, delle culture che si affacciano alla nostra, ai mezzi giuridici invocati o usati per limitarla o impedirla. Quando ciò non accade, e la repressione giudiziaria è feroce, deve squillare un campanello di allarme sulle ragioni di ciò, perché è sintomo di un pericoloso arroccarsi nella difesa reazionaria dell’esistente, del tutto antitetica all’evoluzione sociale secondo morale, nel senso sopraddetto.
Tuttavia accade pure, purtroppo, che ci siano forze contrarie ai valori in nome dei quali si tollerano parzialmente alcune illegalità, e che approfittano di essi per perseguire valori del tutto contrari. Pensate ai movimenti neonazisti, al radicale revisionismo storico basato sulla c.d. post verità, o al fondamentalismo islamico, o alle forze che avversano la Costituzione europea o quella nazionale in nome di valori che le sono contrari, nella prospettiva di modificare il sistema costituzionale parlamentare occidentale eretto sui valori in nome di quali si è cercato di cancellare la parte più orrenda del secolo scorso.
Così diventa spontaneo domandarsi come e perché si debba continuare a credere e a rispettare quei valori che consentono anche a quelle forze di agire apparentemente indisturbate. Ebbene, questo è il secondo aspetto da esaminare, che riguarda profondamente il modo di esercitare la giustizia, per il suo rapporto con il pensiero, e cioè in ultima analisi, con la morale. Ma questo modo non è prerogativa solo del giudice, poiché l’attività del giudice, che tecnicamente è specialistica, e ad essa è comandato di servire, non è diversa, quanto al modo, da quella di qualsiasi persona che si pone in rapporto con la norma, quando, di fronte ad essa, egli deve saper erigere la sua autonomia. E per autonomia intendiamo la capacità di essere ciascuno auto nomos, cioè creatore della norma. Ne consegue, dato che la norma esiste già, che la persona dovrà ricostruirla dentro di sé, dando ad essa il valore morale che il suo pensiero razionale lo aiuterà a trovare.
Bene, torniamo alla giustizia, allora, e all’attività del giudice, la cui autonomia, nell’esercitare la giustizia, si esprime nella sua attività ermeneutica, cioè nella capacità/libertà di interpretazione, che non è e non può essere arbitrio, proprio perché disciplinata, come individuo, dal suo pensiero razionale, e quindi morale. Ma ora, poiché sono certo che quando si parla di morale, tutti sobbalzano, ben sapendo che nulla è mai stato peggiore nella storia dello Stato etico, bisogna chiarire che la morale alla quale stiamo facendo riferimento è solo quella che rifugge dal pregiudizio, cioè quella contraria alla menzogna.
Che questa affermazione sia di per sé incontrovertibile, cioè naturalmente condivisibile, come quasi tutte le affermazioni astratte non palesemente ributtanti, significa però che ad essa deve seguire un’altra proposizione altrettanto astratta, che la spieghi meglio. Credo allora che, prima di passare appunto a una formulazione teorica, sia utile procedere da un paio di esempi, che chiariranno meglio il passaggio logico.
Allora, è di poco tempo fa la decisione di una giudice tedesca alla quale si era rivolta una donna musulmana, che aveva invocato la procedura abbreviata per ottenere il divorzio, prevista dall’ordinamento tedesco, quando un coniuge accusi l’altro di insostenibili violenze. Ebbene, quella giudice, in questo caso, respinse il ricorso, stabilendo che quella donna dovesse procedere con il rito ordinario anziché con quello abbreviato, perché, disse, essendo la violenza sulla donna, e in specie sulla moglie, un diritto riconosciuto dalla consuetudine islamica, per quella donna non valeva il diritto riconosciuto agli altri cittadini tedeschi di religione diversa da quella islamica.
Ecco, prima di commentare questo fatto (la Corte di Appello rimediò, tuttavia), c’è un altro aspetto che vorrei porre in luce. Nel corso di un meeting tra giudici europei che si occupano di minori e di famiglia, ebbi occasione di incontrare un collega tedesco, che mi disse come in Germania, anche se una sentenza già pronunciata stabilisce qualcosa sull’affidamento di un minore, che muti le condizioni in cui quel minore sta vivendo, quella sentenza (fatti salvi i casi di pericolo attuale alla persona) non viene eseguita senza il consenso del minore.
Dunque entrambi i casi esemplificano il significato di quel che debba intendersi per pensiero razionale, e quindi morale, separato dall’arbitrio e dal pregiudizio. Il primo infatti è stato il frutto di un male inteso giudizio sul concetto di uguaglianza, il cui esame ci porterebbe assai lontani, ma per il quale dovrebbe bastare la menzione di uno dei principi fondamentali delle Costituzioni europee, per cui i cittadini, cioè gli uomini e le donne, sono tutti uguali davanti alla legge, che dev’essere posto in relazione con un altro principio, di minor rilevanza, ma niente affatto irrilevante, per cui, a situazioni differenti, non possono darsi risposte uguali.
Ebbene, quella giudice, che ha creduto di rispondere a una domanda di tutela, dando una risposta diversa, perché ha ritenuto che quella donna si trovasse in una situazione diversa da quella delle altre donne tedesche, ha fatto pessimo uso del giudizio razionale, facendo prevalere un non giudizio. Non ha cioè capito che la sua auto-nomia di giudizio non deve prescindere dalla memoria, cioè dalla conoscenza che la norma che fonda la convivenza delle nostre società democratiche, cioè il concetto di uguaglianza, ha radicato in sé un valore, o forse è meglio dire, affonda le proprie radici in un valore morale antichissimo, che le società hanno elaborato e sviluppato a fatica, dolorosamente, fin dal tempo in cui Marco Aurelio vedeva anche in uno schiavo un seme di uguaglianza con l’imperatore.
Ecco allora che la scelta del giudice tedesco, che non fa eseguire la sentenza passata in giudicato, che modifica la vita di un minore senza il suo consenso, viene da un esame e da un’interiorizzazione di un altro principio altissimo presente nella Costituzione, e cioè il diritto all’integrità personale, allo sviluppo armonico dell’io, e quella della tutela della fragilità dei fanciulli. A tal punto che anche la dura lex sed lex s’inchina e attende che sia la volontà fragile, che sia la coscienza di un fanciullo ad affrontare con il suo consenso quella durezza.
Si tratta di conquiste, come vedete, del pensiero razionale, come ad esempio quella della legislazione francese in materia di separazione dei coniugi, sempre conflittuale, ma che talvolta scivola nella patologia del conflitto, che, quando ci sono dei fanciulli, conduce a decisioni pericolose per loro. Ebbene, in Francia il giudice, di fronte a due coniugi che litigano selvaggiamente, impone loro una psicoterapia di coppia, affinché imparino a separarsi in modo civile. Molti giudici del mio Paese scrollano il capo con un sorrisino di superiorità, pensando che sia un’operazione del tutto inutile, pensando che sia meglio (e meno faticoso) tagliare il nodo gordiano con la decisione più saggia o più drastica. Essi sostengono di aver ragione in pratica, quando affermano che il sistema francese è bello in teoria, ma non attuabile in pratica.
Io credo invece che non esista differenza tra teoria e pratica, ma solo fra teorie che funzionano e teorie che non funzionano, e credo pure che tutte le scelte della giustizia, quando passino attraverso il giudizio logico razionale, morale, intendo, siano migliori di quelle che pretendono di farne a meno. E sono altrettanto convinto che scelte come quella francese e quella tedesca vengano da un’elaborazione di un principio morale scoperto con la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che è la difesa della dignità della persona, e del fatto che la giustizia (nella specie, ad esempio, quella amministrata da quei giudici che scrollano il capo con superiorità) quando pretende di parlare dimenticandola, parla in nome del pregiudizio, e quindi della menzogna.
Ecco allora perché sento il pericolo di quelle forze politiche che proclamano la necessità, per il giudice, di astenersi dall’interpretazione e di applicare pedissequamente la legge, la qual cosa, come ancora vedremo, sarebbe l’espressione del servaggio al pregiudizio. Infatti, in questo caso, il giudice dovrebbe applicare la legge senza domandarsi il perché della condotta che sta giudicando. Tizio ha violato la legge? Che importa se l’ha fatto per difendersi, o perché si credeva in pericolo, o perché ha creduto di ubbidire a un ordine legittimo, o ha agito in nome di valori che oltrepassano la mera disciplina legislativa. Il perché, per il giudice, dev’essere del tutto irrilevante. Ma ancor di più: c’è una legge che ordina di ledere una persona, e tizio non ubbidisce, e viene incolpato della disubbidienza. Ma il giudice non deve domandarsi perché tizio ha disubbidito: la legge gli ha ordinato di farlo, e questo dev’essere sufficiente per il giudizio.
No: il giudizio che si limita ad accertare la semplice, anzi la semplicistica corrispondenza o non corrispondenza della condotta alla legge, cioè alla norma, è del tutto estraneo a ogni collegamento con la morale e, senza indagine sul perché, è un non giudizio, è cioè determinato dal pregiudizio, e quindi dalla menzogna. Viceversa il giudizio vero, se da un lato non consente la semplicistica applicazione della legge, dall’altro comporta la necessità di far affiorare anche la ragione profonda della legge, e quindi di rispondere a un altro perché.
Ne consegue che una giustizia che non sia estranea alla morale necessita di rispondere a due diversi perché. Uno: il perché della condotta, e l’altro: il perché della norma che deve applicarsi a tale condotta. Detto per inciso, e senza avventurarsi ulteriormente nella questione, che attiene alla diversa funzione giurisdizionale nei sistemi di common law e in quelli continentali, per cui nei primi il giudice è anche giudice della legge, mentre nei secondi, se la legge confligge coi principi supremi, sarà suo dovere rimettere la questione al giudice della legge, cioè alla Corte costituzionale, ma sarà comunque suo dovere rispondere sempre ai due perché sopraddetti.
Detto questo, per evitare che la questione appaia solo come una questione accademica, bisognerebbe anche domandarsi come mai ci sono forze che si oppongono a una giustizia vera, proponendo una giustizia dominata dal pregiudizio, che, come tale, essendo assenza di pensiero, non è più riconducibile alla morale, ma alla menzogna. Da qui, però, al fatto che questa menzogna diventi un semplice costume, una moda, suggerita dall’esigenza di dominio di chi vuole una legge utile per sé, del tipo usa e getta, il passo è assai breve.
E poiché la storia ci ha insegnato che quando la giustizia è stata esercitata sfuggendo alla necessità di mettersi in relazione con il bisogno delle risposte alle esigenze più profonde degli esseri umani, sono stati possibili i peggiori crimini, le peggiori nefandezze, diventa del tutto chiaro che il dominio del pregiudizio è il dominio della menzogna, fonte di corruzione della coscienza, ed è pericolo costantemente in atto, contro il quale s’impone il massimo di allarme e di sorveglianza.
Ne consegue ancora la necessità di un’ulteriore domanda, che è una domanda di senso, da rivolgersi a noi stessi, noi come esseri umani, noi anziani e voi giovani, consapevoli della nostra quotidianità culturale, delle nostre certezze democratiche, su quale sia il percorso che ci e vi attende. E voglio spiegarmi meglio.
C’è in ognuno di noi un meccanismo di difesa, una sorta di presidio intellettuale contro questi pericoli, che discende dall’aver delegato ad altri la nostra tutela, come se la democrazia, la giustizia vera, fossero conquiste stabili, che ci mettono al riparo dallo scivolare verso forme di convivenza barbare e violente. Ebbene, la domanda di senso è proprio questa: domandiamoci se quei presidi non stiano degradando in una pigrizia sorda di delega ad altri (i politici, l’esercito, la polizia, i servizi segreti, i guru della politica e del bene collettivo, gli opinion makers di tutti costoro), tanto che saremmo disposti a tutto, cioè in definitiva a barattare l’etica e la giustizia col pregiudizio e la menzogna, per garantirci la sopravvivenza di quelle deleghe, dentro una moda falsa e corruttrice delle coscienze.
Tocca a voi, in definitiva, decidere se la vita debba essere vissuta come una moda, o come un modo: un modo di ricerca, di conoscenza e di azione, la vita activa che una grande pensatrice del secolo appena finito, vostra concittadina, ha posto all’apice della dignità e della morale: Hanna Arendt.
Dialoghi Mediterranei, n. 61, Maggio 2023
[*] Conferenza tenuta nel mese di maggio 2007 presso l’Università di Stoccarda dall’Autore, allora consigliere della Corte di Appello di Genova.
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Roberto Settembre, entrato in magistratura nel 1979, ne ha percorso tutta la carriera fino al collocamento a riposo nel 2012, dopo essere stato il giudice della Corte di Appello di Genova estensore della sentenza di secondo grado sui fatti della Caserma di Bolzaneto in occasione del G8 2001. Ha scritto per Einaudi Gridavano e piangevano, edito nel 2014. Si è sempre occupato di letteratura, pubblicando racconti, poesie, recensioni sulle riviste “Indizi”, “Resine”, “Nuova Prosa”, “La Rivista abruzzese” e il “Grande Vetro”. Con lo pseudonimo di Bruno Stebe ha pubblicato nel 1992 il romanzo Eufolo per Marietti di Genova e nel 1995 I racconti del doppio e dell’inganno per la Biblioteca del Vascello nonché la quadrilogia Pulizia etica per Robin edizioni e nel 2020 Virus e Cherie con la Rivista Abruzzese. Attualmente è collaboratore di “Altreconomia”.
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