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Etnografia e sguardo filmico in Claudine de France

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CIP

di Felice Tiragallo 

La scomparsa di Claudine de France priva la comunità scientifica della fondatrice storica di una nuova disciplina del visivo in antropologia. Due elementi della sua biografia di ricercatrice possono aiutare a comprendere la collocazione e la portata del suo lavoro: il primo è la provenienza dalla scuola antropologica di Techniques et Culture, il secondo è la vicinanza alla personalità e al cinema di Jean Rouch. Entrambi questi riferimenti si collocano in un periodo storico, quello della metà degli anni Settanta, in cui si consolida, partendo dalla Francia, da un lato, la scuola di studi di cultura materiale dominata dalla figura di André Leroi-Gourhan, col suo approccio sistemico allo studio delle tecniche nelle diverse culture (Leroi-Gourhan  1971, 1973) e,  dall’altro, un modello di film etnografico in cui filmmaker e antropologo si identificano, in una totale adesione della cinecamera al fluire del reale, in tutte le sue implicazioni (Stoller 1992), così come l’autore di Jaguar aveva  esemplificato [1].

In un clima di ricerca reso effervescente dalla rapidissima evoluzione delle tecnologie cinematografiche, tese a una sempre maggiore miniaturizzazione, portabilità e versatilità dei dispositivi, e dalla nascita in parallelo di orientamenti culturali tendenti a valorizzare la democratizzazione dell’accesso ai mezzi di ripresa  e alla rottura  della macchina-cinema come medium elitario e manipolatore degli immaginari, la posizione di de France si distinguerà per il rigore cartesiano del suo approccio al film come metodo etnografico. Più che considerare in termini generali un approccio dell’antropologia al cinema come prodotto narrativo e artistico, o come prodotto industriale, nel gioco complessivo del rapporto fra diversi immaginari sociali, de France cercherà costantemente nella sua pratica filmica e nel suo lavoro saggistico, culminato nel 1982 in Cinéma et Anthropologie, di tracciare i lineamenti di una disciplina di ricerca totalmente all’interno dell’antropologia mainstream, fondata sul principio che la cinecamera e poi la videocamera fossero prima di tutto uno strumento per il lavoro etnografico e che questa collocazione dovesse essere l’irrinunciabile premessa di una riflessione metodologica peculiare al lavoro di campo. Si tratta di una opzione radicale che appare oggi in qualche modo datata, legata alle aspettative nate in una precisa congiuntura storica ma che è capace, a mio parere, di molte suggestioni e indicazioni per il presente e il futuro.

61rngxxepnl-_ac_uf10001000_ql80_L’etnografo e la camera

In questa prospettiva il quesito centrale è: fino a che punto l’introduzione del cinema nell’etnologia ha modificato il modo che l’etnologo ha di osservare e descrivere? (de France 1978: 140). La sua prima cartesiana risposta è: il cinema gli permette di evidenziare i fatti che è impossibile individuare con la sola osservazione diretta e di descrivere ciò di cui il linguaggio rende difficilmente conto. Jean Rouch ha indicato il ruolo insostituibile dell’osservazione cinematografica per restituire rituali collettivi fugaci, dispersi nello spazio e la cui osservazione diretta non può contemporaneamente abbracciarne i diversi aspetti. Per de France l’immagine filmata ricopre diverse funzioni che scaturiscono dal momento centrale assunto dall’osservazione differita. Il linguaggio verbale si può applicare su fenomeni in divenire che, grazie al film, persistono e non sulle simulazioni di persistenza date dalle tecniche figurative statiche (schemi, disegni, etc.). Quindi col film si modifica profondamente il si­stema di rapporti fra osservazione immediata, osservazione differita e linguaggio (de France 1978: 141).

Se deve usare l’espressione verbale per descrivere un fenomeno l’etnologo coglie al volo e seleziona, nel flusso delle manifestazioni, quelle che gli sembrano più importanti «e alle quali è in grado di attribuire un significato, anche se provvisorio» (ivi: 142, traduzioni mie). Ma così trascurerà i diversi processi secondari o margi­nali, i tempi deboli con i suoi gesti furtivi o ripetitivi ritenuti insignificanti, i tempi morti o di pausa che interrompono lo svol­gimento di un rituale o di una attività materiale. In definitiva l’etnologo fissa, durante la sua osservazione, solo ciò che sa di poter agevolmente veicolare con la parola e/o la scrittura. Invece, se parola e scrittura sono poste di fronte, nel corso dell’osservazione differita, ai gesti e ai movimenti filmati, esse diventano uno strumento insostituibile per l’analisi fine dei modi di articolazione fra le fasi e gli aspetti del flusso gestuale, nel simultaneo e nel successivo, nello spazio e nel tempo. L’etnologo potrà allora prendere in considerazione le manifestazioni a cui non si saprebbero attribuire immediatamente significato o funzione precisa e di cui ignora ancora la rilevanza mentre le filma.

L’introduzione delle tecniche video elettroniche, una novità assoluta negli anni in cui la nostra ricercatrice scrive, completa la redistribuzione dei ruoli assegnati all’immagine e al parlato. Diventano possibili le letture indefinitamente ripetute dei fenomeni filmati sui luoghi stessi delle riprese e le raccolte delle impressioni e commenti delle persone filmate dinanzi alle immagini dei loro comportamenti. Nasce quindi una forma di microanalisi, «una vera antropologia del sensibile» (ivi: 143), che indaga in primo luogo l’aspetto, l’apparenza delle attività, cioè il modo in cui gli uomini si mettono in scena, così come i loro oggetti, nello spazio e nel tempo.

tiers_0040-7356_1983_num_24_95Seconda risposta: la descrizione filmica e l’osservazione dell’immagine for­ni­scono al linguaggio la materia per una analisi fine delle relazioni fra scena e retroscena, fra ciò che le persone filmate desiderano mostrare e quello che vogliono nascondere, fra ciò che ritengono essenziale e ciò che per loro è secondario. Il contenuto dell’operazione più elementare fra quelle che esegue l’antropologo-cineasta è quello con cui si isola nello spazio e nel tempo un flusso di manifestazioni sensibili attraverso l’immagine, cioè attraverso l’inquadratura, l’angolo visuale, i movimenti della ca­mera e la durata della registrazione. Questa operazione ne implica simultaneamente un’altra, immaginaria, di evocazione di ciò che non è stato definito perché lasciato fuori dal campo della macchina da presa (ivi: 144). Quindi, allo stesso modo, qualsiasi sottolineatura di un aspetto dell’attività umana filmata si effettua al prezzo della sfocatura degli altri aspetti.

Terza risposta: de France distingue due tipi di manifestazioni sensibili fra quelle alla portata della macchina da presa dell’etnologo. Le prime sono le manifestazioni dirette, concernenti i comportamenti, le altre sono quelle indirette, concernenti gli oggetti, i prodotti o gli effetti dell’attività umana, di cui esse costituiscono in qualche modo l’impronta materiale, la traccia. Sia nel caso di manifestazioni dirette che indirette il continuum tecnico di gesticolazioni e manipolazioni registrato dalla macchina da presa rimane, secondo l’autrice, sempre intelligibile allo spettatore: egli è in grado di percepirlo anche quando, in un film etnografico, l’assenza di commento parlato, di dialogo o di monologo, rende in­comprensibili le rappresentazioni collettive per le quali il film funge ugualmente da supporto sensibile (ivi: 145). Anche in tal caso lo spettatore non viene mai travolto da un caos di gesti e oggetti, ma si trova di fronte a frammenti immediatamente leggibili di pro­cessi tecnici sia pure non compresi. Emerge uno schema di lettura universale: degli individui mettono in opera dei mezzi materiali (il proprio corpo, degli utensili) per ottenere dei risultati immediati e superare degli ostacoli anch’essi materiali. Questo schema consente di dare una coerenza narrativa provvisoria anche alle pratiche più lontane dall’esperienza quotidiana dello spettatore.

La charpaigne, 1969

La charpaigne, 1969

Quarta risposta: a differenza dell’osservazione diretta, l’osservazione filmica sembra sfiorare in continuazione il casuale e l’incontrollabile nell’azione percettiva. Qualsiasi interruzione nel filmare rischia di sembrare arbitraria. «Quello che l’etnologo non esita a separare con la descrizione verbale non gli apparirebbe così facilmente separabile se dovesse cercare di descriverlo con un film» (ivi: 146). Il processo che egli tenta di isolare con l’immagine rimane in qualche modo collegato a ciò che lo circonda, a ciò che lo precede o lo segue, gli oggetti ai loro produttori assenti, i produttori e la loro attività agli utilizzatori del prodotto. Questa impressione di arbitrarietà che prova quando vuole isolare un processo dal suo contesto l’etnologo impara ad affrontarla guardando il problema in modo differente. Le tecniche, viste ormai come flusso di cooperazione fra gli uomini, gli appariranno come parte inte­grante del sociale e del culturale non solo a titolo di supporto, ma anche in sé stesse, come elemento costitutivo. Interrompendo il continuum tecnico l’etnologo-cineasta introduce rotture in una forma di socialità umana che si confonde con le manifestazioni esteriori dell’attività.

La difficoltà consiste nella resa di questo doppio livello di descrizione, più facile nei casi di attività collettive, più difficile in quelli in cui un processo è segmentato in diversi passaggi individuali. «L’immagine isola ogni momento un intreccio di operazioni materiali, di posture e gesti ritualizzati nei quali si può leggere l’impronta permanente della cultura, questa forma tipicamente umana del sociale» (ivi: 148). La camera da presa dell’etnologo individua istante per istante un continuum di comportamenti tecnici che si spiega simultaneamente su tre assi: il corporale, il materiale e il rituale. «L’immagine filmica isola un momento della relazione fra corpo, materia e rito all’interno della catena di cooperazione» (ivi: 158). Questo significa che il cineasta-etnologo non può mai isolare completamente fatti e gesti corrispondenti a ciascuno degli aspetti citati, cosa invece possibile con il linguaggio verbale e scritto, con lo schema e il disegno; tuttavia, il suo controllo imperfetto sulla materia filmata, a causa della pluridimensionalità del comportamento tecnico e delle manifestazioni secondarie e marginali che si producono al suo interno, è compensato dal valore antropologico del materiale. Il film è capace di restituire il senso, se non l’intera sostanza di quel fatto sociale totale teorizzato da Marcel Mauss.

charp02Un’antropologia filmica

In sintesi, l’antropologia visiva di Claudine de France si poggia su tre principi. Il primo è che il ricercatore stesso è il destinatario immediato della ricerca attraverso il film. Esistono anche destinatari “lontani”, ma restano nel dominio del facoltativo e del disseminativo. L’attività di ricerca trova in sé stessa la sua finalità (de France 1996: 88). Fare un film etnografico significa quindi, in primo luogo, fare qualcosa che è votato alla osservazione differita di ciò che è stato prodotto. In ogni caso le leggi della messa in scena filmica impediscono una presentazione esaustiva dell’evento etnografico. Esse sono: a) la legge dell’esclusione (mostrare una cosa implica il nasconderne un’altra) e b) la legge dell’ingombro (mostrare una cosa comporta il mostrane un’altra). Il secondo è che i tempi del filmare dipendono esclusivamente dal soggetto filmato e che lo scopo dell’etnologo-cineasta sarà sempre il padroneggiare sia i tempi forti sia i tempi deboli dell’azione. La disponibilità temporale è un atteggiamento metodologico del ricercatore. Esso concorre alla costruzione del terzo principio che è la descrizione. Una descrizione intesa da de France distante dall’uso dominante della parola, quasi una capacità di «…percezione e comprensione spaziale delle principali zone di interazione fra i membri di un gruppo e nella selezione delle operazioni-chiave» (Guéronnet in de France 1996: 93-94) e che deve necessariamente dialogare nel film con l’altro asse della costruzione della ricerca visiva, quella della narrazione e dell’inserimento del ricercatore nel tempo interno dell’evento e della realtà umana che sta dinanzi alla macchina da presa.

Le coiffer itinérant, 1972

Le coiffer itinérant, 1972

I film di Claudine de France riguardano di norma azioni produttive umane. Si tratta di un mondo di artigiani, di lavandaie, di barbieri e di altri agenti all’interno di un mondo apparentemente laconico, quello di alcuni distretti rurali della Francia degli anni Sessanta e Settanta. Il cinema serve qui a restituire il processo tecnico, le catene operative e i rapporti fra azione e pausa nel lavoro del costruttore di un paniere o nella azione coordinata di alcune donne intorno ai loro panni. Il rigore di questo atteggiamento descrittivo e narrativo, il suo proclamarsi apertamente come sguardo specialistico ma non ingenuo è stato forse uno degli elementi fondativi che hanno permesso anche alle generazioni successive di ricercatori, fra cui potrei includere me stesso, di incamminarsi nell’antropologia visiva seguendo l’esempio dell’autrice di Laveuses. Anche in Italia, a partire dagli anni Ottanta, penso alle edizioni dei MAV (Materiali di Antropologia Visiva) a Roma, i nostri primi film girati in elettronica analogica riguardavano spesso azioni tecniche analizzate con la stessa devozione a de France e a Leroi-Gourhan [2] .

9788806464745_0_0_464_0_75Tuttavia, nei suoi scritti troviamo qualcosa che, oltre a riferirsi alla sua filmografia, sposta ancora più avanti i confini di questa area fondativa. Come se il rigore e la chiarezza razionale data dal suo approccio al visivo per il tramite della cultura materiale e della dimensione apparente dell’azione umana – lascito leroi-gourhaniano – abbiano incontrato e siano venuti a patti con l’interesse per l’imprevedibile e per la partecipazione proprio del cinema di Jean Rouch. Antonio Marazzi ha individuato nella dimensione temporale uno dei cardini dell’antropologa filmica preconizzata da de France: «Tempo da mettere a disposizione della ricerca, senza ‘razzie’ di immagini nello stile televisivo; ma anche tempo interno come modalità narrativa» (Marazzi 1996: 99). Si tratta di quella dimensione temporale che Rouch ha esplorato inseguendo riti Dogon che avevano luogo separati da decenni in Sigui, o il tempo della ripresa in piano sequenza di dieci minuti di un tentativo di rito di possessione in Tourou et Bitti.

Nel momento in cui questa grande ricercatrice ci ha lasciato, molte cose sembrano lontanissime dal momento storico in cui è fiorita la sua riflessione. I mondi visivi non sono più quelli. La sua definizione di uno sguardo univoco volto a cogliere una azione umana così selezionata e purificata si scontra oggi con l’esplosione delle immagini prodotte e in circolazione, con la difficoltà di costruire uno status di osservazione legittimo in un quadro in cui le relazioni sociali sempre più dense in termini visivi complicano enormemente il muoversi fra la dimensione della messa in scena, dell’ingombro e del non mostrato, il cammino in cui de France ha proposto di volgerci. Ma, a mio parere, questi sentieri non sono stati cancellati: si possono ancora percorrere per formare un addestramento di base al filmare come atto conoscitivo.

Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024 
Note
[1] Claudine de France consegue un dottorato in etnologia sotto la direzione di André Leroi-Gourhan, si inizia alla pratica del cinema etnografico con Jean Rouch, col quale crea nel 1977 una specifica formazione (DEA/Master e Dottorato) all’università di Paris X-Nanterre, assumendone fino al 2005 la responsabilità assieme a quella del laboratorio di ricerca Formation Recherches Cinématographiques (FRC). 
[2] Al Convegno “Materiali di Antropologia Visiva 3” nel dicembre 1990 a Roma furono presentati sia Le Coiffeur itinerant di Claudine de France, sia molti film su processi produttivi e su temi di cultura materiale, fra cui Le tecniche della tosatura, di Marco Benoni, Franco Lai e Felice Tiragallo, L’impagliatore di sedie, di Mara Rengo e Emilia De Simoni, Carbonai oggi di Maria Luisa Meoni, Il mestiere del fabbro di Mario Turci e Arturo a Zani.  
Riferimenti bibliografici
Bollettino dell’Associazione Italiana di Cinematografia Scientifica, Materiali di Antropologia Visiva 3, numero monografico, dicembre 1990.
De France Claudine, Cinéma et Anthropologie, Éditions de la Maison des Sciences de l’Homme, Paris, 1989 (ed. or. 1982).
De France Claudine, Corps, matière et rite dans le film ethnographique, in Id. (sous la direction de), Pour une anthropologie de la visuelle, Chaires e l’Homme EHSS, Mouton, Paris, 1979.
De France Claudine, L’antropologia filmica: una genesi difficile ma promettente, in “Ossimori”, n. 8, primo semestre 1996, (ed. or. L’anthropologie filmique: une genèse difficile mais prometteuse, in Id. (sous la direction de), Du film ethnographique à l’anthropologie filmique, Èdition des Archives Contemporaines, 1994, Bruxelles, Paris, Bâle.
Leroi-Gourhan André, L’homme et la matière, Albin Michel, Paris, 1943 e 1971.
Leroi-Gourhan André, Milieu et technique, , Albin Michel, Paris, 1945 e 1973.
Marazzi Antonio, commento a De France Claudine, L’antropologia filmica: una genesi difficile ma promettente in “Ossimori”, n. 8, primo semestre 1996.
Stoller Paul, The Cinematic Griot. The Ethnography of Jean Rouch, The University of Chicago Press, Chicago and London, 1992. 
Filmografia
Fêtes soixantenaires du Sigui, Jean Rouch e Germaine Dieterlen, 1967-1973.
Jaguar, Jean Rouch, 1954-1967, 60 min.
La Charpaigne, Claudine de France, 1969, 31 min.
Laveuses, Claudine de France, 1970, 30 min.
Le coiffeur itinérant, Claudine de France, 1972, 26 min.
Tourou et Bitti. Les Tambours d’avant, Jean Rouch, 1971, 10 min

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Felice Tiragallo è professore associato di discipline demo-etnoantropologiche presso l’Università degli Studi di Cagliari. Si occupa di mutamento culturale, di antropologia visuale e di cultura materiale. Dirige, presso l’Ateneo di Cagliari, il Laboratorio di Etnografia Visiva. Fra i suoi testi: Restare paese (2005), Visioni intenzionali (2013) e Max Leopold Wagner fotografo. La Sardegna oltre il linguaggio (2018).

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