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Etnologia del vino fra rito e materialità: sguardi sul Campidano

Sardara, vini e altri prodotti gastronomici

Sardara, vini e altri prodotti gastronomici (ph. Nicolò Atzori)

il centro in periferia

di Nicolò Atzori

E perché meno ammiri la parola/ guarda il calor del sol che si fa vino,/ giunto a l’omor che da la vite cola (canto XXV, Paradiso).

La grandezza di Dante risiede nella sua straordinaria capacità di conferire una forma poetica e quasi materiale a ciò che apparirebbe altrimenti di difficile intelligibilità, ad esempio i misteri teologici.

Nella terzina, il Poeta si propone di dipanare la questione dello sforzo divino di infondere un’anima intellettiva al feto durante la gestazione (fatto che, secondo San Tommaso, avverrebbe durante il quinto mese di gravidanza) e, per riuscirvi, ricorre alla soluzione metaforica, sempre penetrante nel suo dettato. Così, alla “nuova” anima [1] derivante – per mano di Dio – dall’unione tra quella vegetativa e quella, appunto, dell’intelletto (ora indistinguibili), egli accosta il vino che, allo stesso modo, scaturisce dal felice connubio tra calore del sole e umori terrestri della vite. E lì, al punto d’incontro fra elementi mistici, simbolici e alimentari mescolati dal tepore solare, si colloca come il più mediterraneo degli elementi, di cui il vasto mondo culturale latino si è servito fin dalle epoche più remote accettandone, senza troppi patemi, le insidiose implicazioni per la sensorialità umana. 

Nel ragionare di sé davanti ad un bicchiere di vino, infatti, l’uomo ha spesso rinunciato ad una misurata capacità di stare assieme ai suoi simili secondo il rispetto di un codice comunicativo e comportamentale condiviso, a spese di una fetta della propria credibilità morale che è disposto a rinegoziare una volta scemati gli effetti dell’ebbrezza alcolica, prima conseguenza del suo consumo.

Nello scambio interumano, dunque, il vino ricopre il ruolo di irresistibile elemento psicotropo, in grado di esprimere «una soglia di tollerabilità tra “misura” e “dismisura” della ragione»; e ancora di promotore e facilitatore di convivialità, dialogo e confronto, elementi alla base del più autentico discorso filosofico (Donà 2003 cit. in Perullo: 11).

Se la cifra del suo utilizzo consente di registrare una fenomenologia intrinsecamente relazionale, il vino resta, prima di tutto, un fatto alimentare, quindi «una sorta di cartina di tornasole per la comprensione della cultura, intesa come totalità sociale» (Teti 2003, 2013: XX). A tal proposito, sembra potersi riconoscere come non esistano elementi tanto capaci di una simile attitudine permeante e alla ri-produzione della socialità, soprattutto fra quelli che possano ricomprendersi nella sfera del nutrimento, aspetto che l’uomo condivide con gli altri esseri viventi e che, nella sua materialità, non può considerarsi scevro da valenze simbolico-religiose; per questo, ha da sempre suscitato l’attenzione degli addetti ai lavori di ogni campo del sapere. Nelle considerazioni che andranno a svilupparsi cercherò, attraverso una postura etnologica ed esplicitamente demologica, di giustificare la trasversalità di un elemento assolutamente in grado, mi sembra, di corroborare onestamente la causa di quell’«oggetto problematico» dell’antropologia che Giulio Angioni individua nel binomio di «pluralità e insieme l’unicità o identità culturale dell’umanità» (Angioni 2011: 267-68). 

Donna in abito tradizionale sardarese (ph. Nicolò Atzori)

Donna in abito tradizionale sardarese (ph. Nicolò Atzori)

Una costante culturale 

Dall’ambito filosofico a quello economico, dall’artistico al religioso, si rileva nel vino un respiro pratico-epistemologico interculturale, seppure questo contributo intenda principalmente riferirsi ad una precisa area geografica nella Sardegna meridionale, in cui, fra le cui strade di Sardara, la festa del vino novello ha ripreso ad animare la vita per concedere nuovamente un valzer di sguardi, sorrisi, sapori e profumi che l’emergenza pandemica aveva costretto nell’angusto anfratto del divieto. Qui, nel cuore della pianura del Campidano, il vino è il colore più acceso della cangiante cultura contadina, con ciò intendendo un «vasto panorama di conoscenze ambientali, saperi materiali, attitudini relazionali e più generalmente modi di vita particolarmente riconoscibili nelle aree cerealicole della Sardegna meridionale» (Atzori 2021), alla quale è associato un palinsesto di quadri sociali, simbolici e tecnici di cui l’antropologia culturale ha forse il compito di rintracciare i tratti di continuità e discontinuità col presente per comprenderne il cambiamento. 

A sua volta, il panorama culturale contadino va ragionevolmente collocato su un piano diacronico che, nel lungo corso della storia, ne fa uno stadio di sviluppo della civiltà sarda e il cui retaggio di saperi impliciti e possibilità tecnico-sociali scorge la sua origine già nella preistoria nuragica. Durante questa fase, il vino – o, meglio, un suo “embrione” alimentare – veniva già declinato in plurimi modi, non ultimi quelli simbolici e religiosi.

Sebbene le più antiche tracce di coltivazione della vite siano state individuate nell’attuale Georgia e risalgano a contesti di vita del 5.000 a.C., in Sardegna la sua domesticazione si fa risalire, allo stato attuale delle indagini, al XIV-XIII secolo a. C, fase apogeica della civiltà nuragica. Lo studio attento dei resti rinvenuti in alcuni ambienti del Nuraghe Arrubiu di Orroli documenta, per questo momento, l’utilizzo sia di uve bianche che di uve rosse e, soprattutto, ha potuto attestare la presenza di diversi acidi stanti ad indicare l’avvenuta fermentazione alcolica, il che porterebbe a concludere come la coltivazione della vite fosse principalmente funzionale all’ottenimento di un preciso prodotto: il vino (Marinval 2018: 210-211). La cultura materiale dell’età nuragica è eloquente, e restituisce una grande varietà di manufatti per la sua conservazione e il suo consumo a seconda, ad esempio, che esso fosse collettivo o individuale. Allo stesso tempo, le indagini archeometriche hanno certificato il regolare e ampio utilizzo del prodotto sia per scopi culinari (cottura delle carni) che cerimoniali, come nel caso dell’offerta alla sfera sovrannaturale dei defunti (ibid.). 

Sembra opportuno, più generalmente, riconoscere come il vino sembri entrare di diritto nel “codice genetico” della civiltà italiana sia nella sua parte peninsulare che in quella insulare, accomunate da vicende storico-culturali di lungo corso: fra queste, emerge lo stanziamento dei coloni greci nelle regioni italiane della Magna Grecia, avvenuto nel VI sec. a.C. Furono queste genti, infatti, ad importare non già la coltivazione della vite, ben conosciuta in loco, bensì una nuova considerazione del vino e dei suoi utilizzi, che esulassero da quelli meramente alimentari per abbracciare le più ampie sfere del commercio e della cerimonialità. In primo luogo, da semplice genere destinato al consumo per sussistenza, il vino divenne anche una moneta di scambio, ovvero un mezzo funzionale al baratto con altri prodotti. Secondariamente, ai greci si dovrebbe l’importazione dell’idea del vino in quanto elemento mitico-religioso, con un suo dio venerabile, Dioniso, garante dell’ebbrezza e dell’estasi (liberatorie, nella cultura greca antica); inoltre, essi svilupparono una rigorosa ritualità connessa al suo culto, poi ereditato dagli etruschi e più tardi dai romani che, però, rendevano onore dapprima a Libero e poi a Bacco, festeggiato durante particolari celebrazioni note come “baccanali” ma mai in grado di eguagliare il tenore mistico e licenzioso dei riti dionisiaci greci.

I romani appaiono infatti, nello stesso immaginario collettivo occidentale, come un popolo più “pragmatico” rispetto a quello greco, e verosimilmente meno avvezzo alle pratiche estatiche che facilmente rendevano inclini alla perdizione e alla incontrollata dissolutezza. Non è un caso che nel seno della loro struttura amministrativa si svilupparono più accorti (e, certo, redditizi) modi culturali, che previdero l’estensione del consumo del vino anche alle classi sociali più umili e persino agli schiavi, ristorati dagli effetti di un espediente capace di avvicinare agli dèi.

D’altra parte, nel corso della storia avremo prova innumerevoli volte dei benefici accordati al vino in sede medico-sanitaria, quando la bevanda diventa un toccasana per il degente che in esso trovava facilmente un rimedio per vedere inebriati i suoi sensi a svantaggio delle pene della malattia [2]. Per l’età antica, fonte d’eccezione si rivela la stessa Bibbia, dalla quale traiamo notizie utili circa la trasversalità d’uso e l’importanza simbolica del vino, «cosa di prima necessità per la vita dell’uomo» (Sir 39, 26). Nella Scrittura apprendiamo che esso, mescolato alla mirra (Mc 15, 23), «diventava uno stupefacente e venne offerto a Gesù per alleviare i dolori della crocifissione» (cit. in Dell’Oro 2003: 423), oltreché un medicamento nella parabola del buon samaritano (Lc 20, 34) e, secondo Timoteo, una soluzione per le frequenti indisposizioni dello stomaco patite da Paolo (1 Tm 5,23) (ibid.) [3]. Varrà la pena di citare, per rendere un più nitido profilo etnologico del fenomeno, il profondo legame tra vino e mondo arabo sapientemente descritto, ad esempio, nella letteratura dell’epoca abbaside (750-1258), dove pure risulta, ancora una volta, come questa bevanda non si rilevasse utile soltanto per dimenticare gli affanni quotidiani, ma rivestisse un’importanza centrale nella convivialità, al punto che i poeti islamici descrissero atmosfere simili a quelle dei dissoluti baccanali greci, a dispetto della feroce opposizione all’alcool vigente oggi in tante aree del Medio Oriente arabo [4]. 

Al netto dello stato attuale della parabola del consumo del vino, oggi parzialmente destituito della sua dimensione più mistica, è ragionevole ritenere che, proprio nei meandri del palinsesto sacrale e della ripetitività dei suoi schemi condivisi, vadano ricercati i caratteri primi del suo ruolo nella costruzione di una socialità rituale che, inizialmente funzionale agli aneliti verso l’inconoscibile e ultraterreno, genera ancora le sue forme “laiche” nei micro-contesti che ne sono stati informati per migliaia di anni, in un flebile equilibrio tra sacro e profano, indistinguibilmente amalgamati.

Spostandoci, ad esempio, nell’area mesopotamica della cosiddetta Mezzaluna Fertile, scopriremmo come, secondo la religiosità sumera, proprio l’ebbrezza avvicinasse al mondo del sacro[5], il cui immaginario avvolgente compenetrava gli stessi fatti materiali – immanenti ai modi di vita delle popolazioni – inducendo alla produzione di manufatti funzionali agli apparati cerimoniali e, ovviamente, alla costruzione simbolica della società. In epoca preistorica, infatti, il confine fra utilità e ritualità appariva molto labile, così come quello fra sfera sovrannaturale e terrena, la quale ultima risultava costantemente modulata in funzione delle credenze generalmente animistiche e del costante confronto con l’esigenza di conferire un significato sovrasensibile agli elementi di una natura ancora assai sconosciuta nel suo esatto funzionamento. 

Un momento del tradizionale ballu tundu (ph. Nicolò Atzori)

Un momento del tradizionale ballu tundu (ph. Nicolò Atzori)

Fra rito e materia 

Si rende necessaria, a questo proposito, una puntualizzazione riguardante la stessa densità della cultura materiale cui si è accennato e che sembra legata al più ampio concetto di memoria culturale. Questa, nel distinguersi da quella biologica e dunque dal farsi della specie nei lunghissimi tempi genetici della selezione naturale, riguarda più direttamente i modi di vivere e pensare prodotti dagli uomini e in essi cerebralizzatisi e incorporatisi nel corso dei secoli e dei millenni (con tempi infinitamente più brevi di quelli genetici), secondo una continua elaborazione di senso e significati del nostro vissuto che ci consente di sistemare un «sapere garante dell’identità di una compagine umana» e tramandabile nel tempo (a partire, ovviamente, dal fatto che la memoria genetica abbia la necessità di produrre una memoria culturale o dei modi di vita, perché «gli uomini non esistono come uomini se non producono il loro modo di vivere» (Angioni 2011: 228).

È Giulio Angioni ad ammonire circa le insidie che potrebbe riservare la nozione di memoria culturale, che deve fuoriuscire dall’angusto perimetro dello “spirituale” o dell’astratto per abbracciare un’accezione comprensiva delle «attività concrete vitali del fare, le attività del produrre alimenti e ripari, vesti e strade e quant’altro», senza la quale «la nozione felice di memoria culturale si sfalda e perde buona parte del suo contenuto, quello della materialità del fare umano che usa e trasforma il mondo non solo quando scrive e innalza templi» (ivi: 231). Senza considerare questa intersezione di aspetti, risulterebbe complicato dare conto della complessità rituale legata all’utilizzo del vino nella lunga parabola della storia umana, costellata di bisogni, idee ma soprattutto tecniche, ovvero il più efficace discrimine fra i sapiens e le altre specie, incapaci di dotarsi di protesi materiali in grado di proiettare la propria abilità manuale al di fuori della capacità bio-anatomica.

Risulterà dunque opportuno riconoscere come al vino, nel suo essere fatto umano e quindi prodotto dell’azione razionale (su una risorsa prima), corrisponda una materialità complessa e definita che, derivante dal necessario sforzo individuale di dare forma al mondo per una precisa finalità, annovera nel suo insieme tecnico oggetti, strumenti, gesti, saperi e conoscenze ambientali e climatiche. Per indagare in maniera quanto mai profonda e puntuale le culture con uno sguardo che possa efficacemente dirsi olistico è allora necessario, come osservato, collocarsi anche dal punto di vista concreto dell’elemento materiale, delle “cose” che, «passate attraverso il lavoro umano, sono cariche di simboli immateriali (personali, familiari e sociali) che vengono trasmessi e rielaborati attraverso le generazioni» (Bodei, 2014: 85).

Si pensi all’archeologia, alla quale si deve la restituzione degli oggetti che il vino conservava e che, specie a seconda della loro fisionomia, ne hanno attestate le molteplici destinazioni alimentari – dunque sociali e simboliche – che, in larga parte, ancora oggi scandiscono il tempo dei gruppi umani. In riferimento alla prassi liturgica eucaristica, ad esempio, il vino assume un’importanza centrale fin dai suoi più antichi cerimoniali, tramandati dall’Ordo Romanus primus, composto fra VII e VIII secolo. L’opera, nel descrivere lo schema rituale rispettato dal pontefice durante la messa stazionale romana, riferisce della presentazione delle offerte ai fedeli, fra le quali compare ovviamente il vino, che l’arcidiacono riceve contenuto nelle ampolle che ha poi premura di versare nel calix maior prima e nel più capiente scyphus poi, in preparazione della comunione dei fedeli (Dell’Oro 2003: 426 e ss.)[6]. 

51qnc8cwzsl-_sx323_bo1204203200_Rammentando la lezione di Angioni, dunque, emerge come l’uso del vino nella costruzione culturale – a diversi livelli geografici – della civiltà umana, appaia necessariamente ed indissolubilmente connesso alla materialità dell’oggetto e all’implicita gestualità perfezionata dall’uomo nel corso dei millenni, di cui è esito la vivida propensione rituale ancora registrabile nella quasi totalità del mondo europeo. Così, immergendosi nel denso panorama antropologico (e, spiccatamente, ergologico) della cultura contadina [7], sembra particolarmente possibile individuare alcuni frangenti utili a dare conto della statura culturale del vino nella prassi relazionale e dunque sociale che organizzava le società tradizionali (soprattutto a vocazione cerealicola) della Sardegna meridionale e che – bisogna registrarlo – non cessa di mostrare la sua influenza nella modernità, pure, come vedremo, con alterne versioni ed esiti. Se, ad esempio, per i contadini era usanza conservare e consumare il vino in sa krokkorìga (“zucca”, in sardo), recipiente per liquidi da portarsi appresso durante il lavoro, per i padroni sorgeva una duplice valenza. Oltre al consumo per il soddisfacimento personale, infatti, il vino era loro utile in quanto alimento gratificante per i servi o braccianti che, nella sua inusuale [8] offerta, individuavano, simbolicamente, un segno di rispetto e riconoscenza per l’entità e la qualità del lavoro svolto, soprattutto durante l’importante fase della mietitura.

Non mancavano circostanze nelle quali la bevanda veniva somministrata addirittura ai bovini in momenti di particolare sofferenza (Angioni 2003: 35 e ss.). Fino almeno ai decenni successivi alla metà del secolo scorso, inoltre, nelle società contadine tradizionali della Sardegna meridionale, la produzione di vino era un aspetto che connotava direttamente, oltre alla spazialità del paesaggio, la stessa fisionomia urbana, dove non era raro osservare, appese fuori delle abitazioni o delle botteghe di alimentari e non, delle piccole bandiere bianche o nere a seconda della tipologia del vino prodotto, come ricorda Luigi, 84 anni, ex maestro elementare di Sardara e figlio di un barbiere e buttegheri [9]. 

In generale, nella cultura contadina sono tanti i momenti che, succedendo alla raccolta del prodotto agricolo, si consumano all’insegna della comunione dei beni in un’atmosfera di più o meno pronunciata goliardia, relitti di modi di vita arcaici che le società tradizionali o pre-capitalistiche avvertivano come garanti di uno stato delle cose dato e sicuro, speso fra i campi e i modesti abitati rurali. È grazie a queste circostanze che il lavoratore della terra guadagnava al logorìo fisico del tempo consumato nei campi e fra le bestie quello invece sospeso del piacere, dello scherzo e del riso, amalgamati dal vino per farsi rito, ogni anno, alle porte dell’autunno.

Dei suddetti momenti, fra i più pregnanti per la connotazione rituale delle attività connesse alla vita agricola va senz’altro menzionato quello successivo alla vendemmia che, verso novembre, sancisce la conclusione dell’annata agraria ma anche l’inizio della successiva. Tale fase coincide generalmente con la cosiddetta estate di San Martino [10], periodo dell’anno successivo ai primi freddi stagionali in cui si verificano condizioni climatiche particolarmente favorevoli e durante il quale è appunto usanza assaggiare il vino nuovo, oltreché, in alcune realtà del territorio italiano, rinnovare i contratti agricoli annuali [11]. Questi pochi giorni rivestivano un’importanza centrale nel cadenzato sviluppo della stagionalità rurale, poiché in grado di sospendere la febbrile attività e disvelare i caratteri essenziali dell’attesa e della sregolatezza, capaci di trarre a sé il contadino dall’alienante ripetitività psico-motoria della quotidianità rurale. Nell’incontro, durante il quale era il prodotto iniziale del processo di lavorazione dell’uva a venire consumato, i partecipanti maschi alla vendemmia si riunivano in un sacrale momento di assaggio collettivo. La prima esplorazione del frutto della vendemmia, ovviamente, non era che una possibilità nella molteplicità di destinazioni d’uso alimentare che lo vedevano impiegato e che, in genere, riguardavano in maggior misura lo sforzo delle donne, custodi della sfera del nutrimento.

Il panorama tradizionale di consuetudini, pratiche e schemi sociali associato a questa fase assume ancora oggi un ruolo decisivo poiché declinato in un momento festivo in grado di abbracciare la totalità del gruppo comunitario e del suo spazio di azione collettiva. È quella che, a Sardara come altrove (in Sardegna e non), si suole chiamare festa del “vino novello”, improntata alla degustazione di un particolare tipo di vino, di recente introduzione nel panorama vitivinicolo italiano, cosiddetto perché consumato (e venduto) nello stesso anno della vendemmia da cui proviene. 

Il vino novello (ph. Nicolò Atzori)

Il vino novello (ph. Nicolò Atzori)

Sentirsi comunità 

La storia del vino novello è relativamente recente, se si considera che soltanto agli inizi del Novecento si è cominciato a conferire una certa sistematicità alla sua produzione e che, in Italia, la sua dicitura viene normata solo a partire dal 1989 [12]. È interessante notare come alcuni produttori con i quali ho potuto interagire individuino, nella sua più recente versione, meno esigente in fatto di qualità e struttura del prodotto (salvo rari casi nel panorama europeo), una risposta del mercato e del “costume” al respiro dei tempi, nei quali un bisogno di leggerezza sembra farsi più stringente agevolando – osserva Marco, 30 anni, filosofo e giovane produttore – il farsi strada di un vino le cui caratteristiche produttive e qualitative sembrerebbero voler ricadere direttamente sul tenore del momento stesso del suo consumo, oggi particolarmente generalizzatosi anche per mano di forme di fruizione pop quali visite guidate alle cantine con degustazione, ecc. [13]. 

A Sardara, paese di cui mi occuperò, la sagra del vino novello interessa particolarmente perché è coincisa col rinnovarsi dell’appuntamento con la regolarità della festa, fatalmente cancellata nei due anni di stato pandemico, che ha messo a dura prova la tenuta dei gruppi locali. Il ritorno a simili forme di scambio corale dopo una così delicata fase delinea, secondo Bravo, un familiare campo di confronto dove il «radicamento comunitario, l’adesione ai valori e alla morale della tradizione, dei ceti popolari, forniscono un valido e solido fondamento etico e pratico nei momenti di emergenza e di pericolo per la nazione» (Bravo 2005: 39).

Nel disordine indotto dalla fase pandemica, dunque, al folklore non cessa di guardarsi come ad una componente essenziale per l’attualità entropica, poiché «serbatoio di morale, bellezza ed energie», come accaduto a Sardara. Lo stato di emergenza generale, che ha identificato gli epicentri pandemici nelle realtà urbane, non manca di coinvolgere pesantemente anche la dimensione locale, solitamente meno esposta alle dinamiche globali, che ora, nella festa, sembra poter ri-assumere una propria posizione di coesione ed interconnessione riconoscendo nei frangenti della tradizione delle preziose ancore morali e semantiche. 

Una lettura di simili percorsi viene formulata dal compianto Gian Luigi Bravo, secondo il quale «gli individui che pendolano tra formazioni sociali differenti sono più direttamente e sistematicamente sottoposti al rumore da complessità; essi riceveranno di conseguenza maggiori stimoli e saranno più propensi ad attività di recupero organizzativo del disordine; in particolare manifesteranno quindi la tendenza ad una maggior partecipazione alle feste in quanto riti con tali funzioni» (Bravo 2005: 449). 

Nella sua opera di riancoraggio al piano diacronico della storia, dal quale era stato letteralmente scalzato dalla pandemia da Covid-19, in grado di sospendere la sua azione regolare sull’oggi, il paese riacquista una prospettiva creativa e conoscitiva, con esiti estremamente felici. La festa del vino novello, inizialmente pensata come percorso itinerante nel quale fosse possibile l’assaggio gratuito del vino dei diversi produttori di Sardara, assume, nel 2021, un ruolo catalizzatore in un vero e proprio processo di implementazione della tradizione, dove i linguaggi di questa fanno da sfondo e premessa ad una atmosfera nella quale nuovi gruppi, iniziative e progetti associativi vengono messi in campo quali primi esiti di una concreta ripresa del “fare comunità” mancante da due anni.

Nel paese nascono dunque un circolo di appassionati di motociclismo, uno di scacchisti ed una università “delle tre età”, mentre si rinnova l’entusiasmo associativo degli abitanti, ora evidente nella febbrile organizzazione della festa. Questa appare stavolta depurata della narrazione autoreferenziale avvertita nelle precedenti edizioni, quando richiamarsi all’esigenza di costruire una coesione comunitaria appariva più come un esercizio retorico privo di particolari convinzioni o di una reale conversione pratica; stavolta, ciascuna delle alleanze in campo ha un ruolo concreto ed operativo, e l’atmosfera corale è palpabile ed efficace (oltreché perseguita). 

civilta-vino-fonti-temi-produzioni-vitivinicole-ebebcb06-15e2-4016-b1a4-3ceed267b84aEfficacia che, a ben vedere, risulta filtrata dalla non banale statura culturale (e dunque alimentare e sociale) del vino, rivelatosi un collante imprescindibile per rieducare le persone al confronto collettivo e alla fruizione dello spazio pubblico, nel ristabilire l’importanza simbolico-pratica di alcune forme della cultura precapitalistica nella riaffermazione, sul presente complesso, della comunità pensante ed agente, che riprende ad esplorare se stessa e le sue possibilità relazionali e organizzative, quindi tecniche. 

Il nesso essenziale del ri-orientamento del paese viene allora irrobustito da classiche forme di revival e reinvenzione, fra le quali emergono la preparazione dei dolci e dei cibi “poveri”, tipici della cultura alimentare contadina, ed addirittura installazioni nelle quali si fanno rivivere gli spazi tipici della casa rurale, come la camera da letto con i suoi arredi spartani, o gli attrezzi da lavoro per la manifattura domestica e la trasformazione dei prodotti della terra. Non solo: la festa del vino novello 2021 è stata anche l’occasione per degli incontri appositamente finalizzati al racconto di memorie e aneddoti di vari appassionati che, con merito, tramandano le acquisizioni del senso comune o i saperi tutt’oggi efficaci per vivere, ad esempio, lo spazio domestico o la campagna, troppo spesso banalmente estetizzata. Ciò che sembra animare il gruppo, insomma, è un bisogno di simboli e stilemi dell’habitus popolare, nel cui profondo chiunque, ancora, si riconosce in quanto membro comunitario attivo.

Così vissuto, il folklore, scevro delle più dozzinali declinazioni spesso offerte dalla cultura di massa, si rende capace, col suo paesaggio mentale, simbolico e tecnico, del reinserimento della comunità sui binari della sua parabola storico-identitaria, che nel familiare perimetro semantico della tradizione locale si affranca dall’entropia e dalla dispersione geografico-comunicativa [14] di una fase di pericolo (e morte), sconosciuta ed alienante, all’opposto di quella misurata, circoscritta e intima del passato pre-globalizzato. L’insegnamento della festa sembra dunque penetrare con forza lo spirito del gruppo, che non cessa di tendere al bagaglio di saperi e pratiche da quella offerto ai membri del paese per il tramite del vino, perpetuo portatore di una carica insieme transculturale e psicosociale.  

Sembra evidente, dunque, che, per quanto complesso possa rivelarsi il presente nella sua multiforme capacità spersonalizzante, anche alla luce di un così dirompente fenomeno come quello pandemico – e, generalmente, alle grandi emergenze – è alle tradizioni e alla loro potenza simbolica e semantica che si continua a guardare; laddove, con forza, ancora emergono quei tratti essenziali e profondi in grado di informare, da millenni, la nostra capacità di stare nel mondo con consapevolezza, efficace intropezione e senso di radicamento. Aspetti che, in buona sostanza, nutrono col loro humus il terreno dell’antropologia. 

Dialoghi Mediterranei, n. 54, marzo 2022 
Note
[1] Lo «spirito nuovo di vertù repleto», come la definisce Dante.
[2] Simili eventualità vanno segnalate, a titolo d’esempio, svariati secoli dopo nella spedizione austro-ungarica al polo   nord (1872-84), durante la quale capitava spesso che il vino imbarcato venisse distribuito ai soli ammalati di disturbi polmonari o scorbuto; col rimanente, invece, «se ne compose dello artificiale con una miscela di glicerina, di zucchero, d’estratto di carne, di acido tartarico, d’alcool e d’acqua» (Gilibardi, 1882: 133) per i sani della ciurma, maldisposti a farne a meno.
[3] Per Dell’Oro, sarebbe il posto importante occupato dal vino e dalla viticoltura nella vita degli Israeliti ad avere esercitato una robusta influenza sul linguaggio simbolico della bibbia (Dell’Oro 2003: 423), situazione che si presta a pieno titolo ad una lettura di tipo etnologico.
[4] Cfr. https://www.academia.edu/10319967/Le_hamriyyat_di_Abu_Nuwas
[5] Proprio in Mesopotamia, infatti, è stato rinvenuto un inno risalente al 4000 a. C, composto per l’inaugurazione del tempio di Enki (dio protettore della Sapienza nella città di Eridu), il cui testo tramanda che la divinità in questione preparasse con l’uva una bevanda destinata al consumo presso il consesso degli dei.
[6] Il Dell’Oro, che si invita a leggere, ha cura di soffermarsi anche sul simbolismo connesso all’uso del vino consacrato e non. Altrettanto utile, in tal senso, si rivela la penetrante lezione di Marc Bloch sulla sfera cerimoniale connessa all’opera taumaturgica dei Re di Francia e Inghilterra e, generalmente, alla solennità della consacrazione reale (vedi Bloch 2016).
[7] Laddove la si possa scorgere nitidamente nei suoi tratti essenziali almeno fino a tutti gli anni Cinquanta del secolo scorso.
[8] Angioni non manca di sottolineare come il vino, seppure regolarmente prodotto nelle aree cerealicole della Sardegna meridionale, non fosse un alimento consueto nella dieta dei servi che beneficiavano del vitto e dell’alloggio a spese dei padroni, e vi comparisse solo in occasioni di “merito” o durante le festività religiose o legate alla stagionalità agraria.
[9] Lett. botteghiere, ovvero un padrone di bottega. In questo caso, il padre di Luigi era un barbiere.
[10] Si tratta di uno dei tanti culti di santi le cui gesta sono storicamente legate alla ciclicità dell’annata agraria, retaggio    di un panorama simbolico-pratico di antica origine. Cfr. Atzori 2021: 143 e ss.
[11] Accordo che, a Sardara, avveniva invece in occasione della festa di San Gregorio, nel primo mese di settembre.
[12]  D.M. 6 ottobre 1989, modificato in seguito dal D.M. 13 agosto 2012.
[13] Diversi sono i casi fra Campidano e altre subregioni, e valga qui l’esempio, fra i più noti, delle regolari iniziative dei comuni di Milis (sagra del vino novello), Jerzu (Calici di Stelle), Atzara e Iglesias. 
[14] A proposito degli aspetti legati alla geografia pandemica ed all’ipertrofia comunicativa da essa (e per essa) scaturita, si rimanda alla lettura di Turco 2020.
Riferimenti bibliografici
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Turco A., Epimedia. Informazione e comunicazione nello spazio pandemico, Unicopli, Milano, 2021

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Nicolò Atzori, consegue una laurea triennale in Beni Culturali (indirizzo storico-artistico) con una tesi in Geografia e Cartografia IGM e una magistrale in Storia e Società (ind. medievistico) con una tesi in Antropologia culturale, presso l’Università di Cagliari, ottenendo in entrambe il massimo dei voti. Altresì, è diplomato presso la Scuola di Archivistica, Paleografia e Diplomatica dell’Archivio di Stato di Cagliari. Dal 2017 lavora, per conto di CoopCulture, come operatore museale e guida turistica presso il Museo Villa Abbas e il sito archeologico di Santa Anastasia di Sardara (SU), luoghi dei quali, fra le altre cose, cura la comunicazione e, nel primo caso, gli aspetti museografici.

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