I Musei non sono soltanto musei, luoghi di collezioni, di raccolta ed esposizione di oggetti, di conservazione di documenti e memorie. Sono spazi culturali di animazione, di partecipazione, di promozione culturale e di crescita collettiva. Il Museo Internazionale delle marionette “Antonio Pasqualino” di Palermo è, in questo senso, un centro di intense attività artistiche, di produzione di spettacoli teatrali, musicali ma anche editoriali. Raccogliendo l’eredità culturale e la funzione ufficiale del fondatore [1], Rosario Perricone presenta una nuova collectanea di studi antropologici, Etnografie del Contemporaneo in Sicilia, da lui stesso curata per la collana Gli archivi di Morgana. Testi e atti (Associazione per la conservazione delle tradizioni popolari) [2].
L’impegno personale e istituzionale di Perricone verso lo studio, la conservazione e la valorizzazione dell’articolato patrimonio folklorico siciliano, alla luce delle attuali prospettive promosse dai più recenti studi, si è espresso in questi anni con la realizzazione di diverse attività (pubblicazioni, eventi, mostre, spettacoli, festival, installazioni) [3] che hanno destato interesse nazionale e internazionale e hanno contribuito all’attribuzione di riconoscimenti allo studioso, alle attività e all’istituto, come la recente proclamazione, da parte dell’Icom Italia, del Museo delle marionette palermitano a Museo dell’anno 2017.
Con Etnografie del contemporaneo, Perricone rende noti gli esiti di alcune delle lezioni tenute da giovani studiosi tra il 2015 e il 2017 durante l’omonimo seminario permanente, presso la sede del Museo [4], così presentato:
«Partendo dall’esigenza di analisi dei nuovi intrecci e varietà culturali, il seminario permanente Etnografie del contemporaneo costituisce uno spazio di approfondimento delle più recenti ricerche nell’ambito dell’etnografia in Sicilia attraverso il coinvolgimento di specialisti che nelle varie discipline hanno sondato o stanno sondando le dimensioni e la consistenza di fenomeni culturali complessi e in continua evoluzione, raccordando le diverse tradizioni scientifiche per un arricchimento della conoscenza dell’oggi».
L’opera si articola in quattro sezioni (lavoro, emigrazione, disastri, religione) precedute dalla Premessa di Ignazio Buttitta, e da Una introduzione siciliana di Rosario Perricone. L’intervento di Buttitta è una denuncia nei confronti della tendenza di alcuni colleghi a esprimersi in contesti extra moenia academiae e dell’attuale decadenza degli studi di antropologia, soprattutto perché:
«il necessario esercizio autocritico che deve animare ogni buona “scienza” è stato sospinto fino […] a delegittimare intere e importanti tradizioni di studi; la pratica etnografica “sul campo” e i suoi esiti documentari hanno progressivamente perduto la loro rilevanza quale momento costitutivo della formazione antropologica; il ridursi degli spazi di crescita accademica e il nuovo sistema di valutazione della ricerca hanno determinato [...] l’accrescersi degli antagonismi e della conflittualità interni a ogni tribù accademica».
Nei suoi fragmenta vulgarium, Perricone si riallaccia al genocidio culturale di cui parlava Pasolini e al suo discorso sulle culture popolari, riconoscendo a queste la capacità di resistenza storica e la vocazione antropologica alla sopravvivenza. Si assiste oggi, di conseguenza, alla formazione di una koinè narrativa, comunicativa e competitiva tra locale e globale che ripropone il “principio speranza” di Bloch, l’incontro di ciò che è stato con ciò che è, la «conflagrazione di un presente attivo con il suo passato reminiscente» e un’interpretazione rituale del folklore, in chiave morte-rinascita. L’attuale configurazione dei sistemi locali, perciò, si esprime mediante una continua oscillazione tra permanenze e mutamento.
Il curatore di questa rassegna di studi introduce poi i diversi interventi che seguono all’interno delle distinte sezioni di appartenenza: “Etnografie del lavoro” con i saggi di Sebastiano Mannia (Sardegna e Sicilia. Pastoralismi a confronto tra intervento politico, dinamiche di mercato e variazioni culturali), Tommaso India (Tempi precari e deindustrializzazione. Il caso della Fiat di Termini Imerese) e Giuliana Sanò (Un’etnografia del lavoro agricolo. Anomalie e contraddizioni di uno dei settori più produttivi del Mezzogiorno d’Italia: la fascia costiera trasformata – Sicilia); “Etnografie dell’emigrazione” con Antonella Elisa Castronovo (Il C.A.R.A. di Mineo. Effetti sociali e occupazionali del Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo più grande d’Europa), Eugenio Giorgianni (Cortocircuito urbano. Disarticolazione dello spazio tra centri e periferie a Palermo), Daria Settineri (Negoziare la presenza. Strategie di collocamento tra alcuni migranti di Ballarò – Palermo) ed Elisabetta Di Giovanni (Vivere ai margini. Comunità Rom tra i borderscapes); “Etnografie dei disastri” con Pietro Saitta (Post-disastro. Ordine urbano e subalternità a oltre un secolo dal terremoto di Messina) e Irene Falconeri (Smottamenti politici e di terreno. Il “disastro naturale” come vettore di cambiamento sociale); “Etnografie religiose” con Antonino Frenda (San Calogero in Sicilia. Cerimonialità, credenze e simboli rituali), Igor Spanò (La tīrthayātrā. Origini vediche di pratiche cultuali contemporanee al santuario di Santa Rosalia a Palermo), Maria Rizzuto (Liturgie musicali. Coordinate generali e diffusione in Sicilia delle Chiese d’Oriente) e Giuseppe Giordano (Dalla ricerca sul campo a YouTube. Tradizioni musicali siciliane “in rete”).
A inaugurare le Etnografie del Lavoro è Sebastiano Mannia che interpreta i pastoralismi sardi e siciliani all’interno di un quadro globale politico-economico, rilevando le istanze di cambiamento, le mutazioni e le relative distanze tra i due sistemi di pastorizia. Lo studioso compie un’indagine sui processi di multi- funzionalità, ricontadinizzazione e ripastoralizzazione, espressioni ed esiti dei cambiamenti politico-economici e socio-culturali sopravvenuti a partire dal secondo dopoguerra. Dall’analisi contrastiva, si registra uno squilibrio tra l’alto ammodernamento, l’innovazione tecnologica e l’avanzata meccanizzazione del comparto zootecnico in Sardegna, che vive una sorta di post-modernità pastorale, di contro a una incompleta razionalizzazione del settore in Sicilia caratterizzato da piccole aziende e mercato a circuito locale. In questa isola, infatti, si è prestata maggiore attenzione alla cerealicoltura e all’ortocultura che «si sono espanse e sono state razionalizzate, elevando l’isola ad una delle più importanti realtà agricole del Mediterraneo» a discapito della pastorizia rimasta prevalentemente con una impostazione “tradizionale”.
Fa seguito l’articolo di Tommaso India, impegnato in un’altra ricerca sul campo (realizzata tra il 2011 e il 2013, periodo immediatamente successivo alla chiusura dello stabilimento Fiat) relativa alla trasformazione del regime economico del polo industriale di Termini Imerese in cui sono rimaste coinvolte numerose persone. Lo studioso registra gli esiti della deindustrializzazione dell’area in termini di precarizzazione, ricorso a economie informali, disgregazione del tessuto sociale, crisi della presenza, rimodulazione esistenziale. Esamina i processi storici e i sistemi economico-organizzativi (taylorismo-fordismo, fabbrica integrata) dello stabilimento, i relativi mutamenti socio-culturali, di percezione temporale, di stile di vita delle tre generazioni di operai.
«Il processo di deindustrializzazione dello stabilimento Fiat di Termini Imerese, in definitiva, è stato preceduto da una destrutturazione del tempo produttivo, indicata come tempo flessibile, che ha segmentato e frammentato la percezione dei lavoratori dello stabilimento sia in rapporto al proprio lavoro sia alla propria vita sociale».
Chiude Giuliana Sanò, che pubblica gli esiti dell’indagine compiuta nel 2013 tra i lavoratori e le lavoratrici rurali di area ragusana specializzata nelle coltivazioni serricole di ortaggi: pomodori, zucchine, melanzane, peperoni. La studiosa li ha seguiti per diversi giorni, nelle serre, nei magazzini e durante le varie fasi di lavorazione, sperimentando con loro cosa significa lavorare negli spazi di vita, vivere negli interstizi del lavoro, e intervistando le diverse figure attive nel processo di produzione. La forte componente di manodopera straniera (in prevalenza rumeni e tunisini), che dopo la segmentazione lavorativa occupa oggi i ruoli più marginali, è diventata una realtà stabile del processo di produzione; il reclutamento saltuario e a giornata, secondo schemi della tradizione locale, tuttavia, ha determinato nei lavoratori una forte condizione di precarietà economica, corporale e sociale.
«Gli esempi di lavoro a giornata individuano il pragmatico superamento di una nozione di tempo che veniva intesa ed esercitata come lo strumento privilegiato attraverso cui disciplinare il campo del lavoro – la categoria di lavoro a giornata esprimeva infatti l’instabilità di un’agricoltura soggetta ai tempi e ai cicli delle stagioni – e mettono a disposizione dell’analisi elementi per una rilettura di questa, assunta adesso come un dispositivo volto ad assecondare flessibilità, modi e tempi del nuovo mercato del lavoro».
Il dibattito sul dato migratorio, la sua incidenza nel territorio, le funzioni ricoperte e i mutamenti conseguenti, si espande monograficamente soprattutto nella sezione successiva dedicata appunto alle etnoscritture contemporanee sulla migrazione.
Antonella Elisa Castronovo riflette sul ruolo chiave rivestito ancora oggi dalla Sicilia nel quadro geopolitico euro- mediterraneo per ciò che concerne la gestione dei flussi di profughi, richiedenti asilo, migranti. La sua ricerca s’incentra sugli esiti socio-occupazionali del Centro di Accoglienza per richiedenti asilo più grande d’Europa, il Cara di Mineo, sull’inclusione, non senza traumi, della componente straniera nel circuito lavorativo dell’area Calatina comprendente quindici comuni della provincia catanese, e sul contorto legame coi sistemi politici locali che hanno abbandonato la dissidenza iniziale fondamentalmente per il profitto economico derivante dalle sovvenzioni statali ed europee. Castronovo evidenzia altresì che
«la concentrazione di persone dallo status giuridico indefinito all’interno di contesti che necessitano di una manodopera flessibile e senza diritti ha creato le condizioni per un adeguamento alle necessità del mercato del lavoro, ed in particolare a quello sommerso».
Seguono poi le riflessioni di Eugenio Giorgianni, sulla disarticolazione spaziale centro-periferia della città di Palermo, nate dallo studio di due casi o modelli di aree degradate in cui si annida la “malavita”: lo Zen, quartiere suburbano ad altissima densità di criminalità, e Ballarò, mercato sito nel centro storico del capoluogo. Dei migranti stabilitisi o gravitanti in questi spazi, l’autore ne indaga le implicazioni socio-territoriali e le trasformazioni in atto, le destinazioni nel circuito dell’illegalità, sottolineando le compromissioni di stato e mafia che anche tali flussi hanno attivato. I criminali gravitanti in queste aree hanno sfruttato l’occasione per creare una fitta rete di assegnazione a nero di locali da affittare agli stranieri nei palazzi fatiscenti dello Zen o a Ballarò, dove «Le rovine, cancrena della città antica, hanno sancito il punto di contatto con gli elementi rivitalizzanti – le comunità migranti in primo luogo, e la gentrification».
Il noto mercato del rione dell’Albergheria è anche il campo dell’indagine di Daria Settinari. La giovane studiosa mette in rilievo le difficoltà create dalle leggi ai migranti che fanno una grande fatica, spesso fallendo, a rientrare all’interno dei margini della legalità; su questa situazione, che ubica il migrante in un’area limbica della società, e lo investe di una indeterminatezza politico-economica, specula la microcriminalità, gestita a sua volta dalle gerarchie più alte. Conclude questa seconda sezione la ricerca di Elisabetta Di Giovanni, sempre a Palermo, sulle minoranze stigmatizzate e discriminate dei Rom e dei borderscapes, che vivono da “invisibili” negli interstizi degli spazi sociali, in condizioni di precarietà e marginalità.
Le Etnografie dei disastri, settore antropologico emergente in Italia, si articolano in due contributi: il saggio di Pietro Saitta che definisce, a un secolo dal terremoto di Messina, i mutamenti prodotti, l’emergere di nuove classi sociali, gli spazi socio-territoriali ai confini dell’illegalità, e la monografia di Irene Falconieri relativa alle conseguenze, le trasformazioni interpersonali e geografiche della provincia messinese investita dall’alluvione del 2009: «Osservare i disastri considerando l’articolata sovrapposizione di piani e livelli che ne condiziona le rappresentazioni equivale ad interrogarsi sulle dinamiche che attraversano la contemporaneità».
Antonino Frenda introduce la quarta sezione, Etnografie religiose, con la ricognizione sul culto di San Calogero in Sicilia, sui riti, le credenze e i simboli connessi al pellegrinaggio salvifico-terapeutico, all’offerta di anatomici votivi fatti prevalentemente di pane, alle implicazioni idro-termali riplasmate in trasudazioni miracolistiche, alle cadenze calendariali con le ricorrenze e cerimonie legate alla cerealicoltura. Seguono poi i distinti percorsi ierofanici e processionari del santo nei relativi contesti festivi: nel nisseno, nell’agrigentino e nell’area dei Nebrodi.
Tra le etnoscritture del sacro si segnala anche il contributo di Igor Spanò, attento alle pratiche hindu che interessano diversi gruppi etnici provenienti dall’India e stabilitisi nel capoluogo siciliano.
«La ritualità hindū, ancora presente nella comunità palermitana (composta da circa 4000 fedeli), si fonda principalmente sui cosiddetti pañcakriya o pañcanityakarman, cioè le cinque pratiche: upasāna (adorazione), utsava (la celebrazione dei giorni di festa), il dharma, la tīrthayātrā (il pellegrinaggio) e i saṃskāra (i riti di passaggio)».
L’autore si ferma in particolare ad osservare le origini vediche della tīrthayātrā che costituisce il percorso pellegrinale del devoto verso la divinità, le sue connessioni con l’atto del sacrificio, le trasformazioni cultuali dell’hinduismo dovute in gran parte agli influssi buddhisti e all’adattamento dei rituali alla nuova condizione sacra e spaziale.
«L’insieme delle pratiche quotidiane e cicliche è affiancato da una particolare forma di devozione che intreccia elementi tipici dello hindūismo con le manifestazioni di culto proprie della comunità cristiana di Palermo: l’ascesa al Monte Pellegrino per raggiungere il santuario di S. Rosalia da parte dei Tamil, infatti, dimostra come i percorsi culturali tracciati da una comunità possono essere utilizzati senza grandi sforzi da un’altra comunità con un differente sistema di valori, credenze, stile di vita, a patto che non vengano a mancare gli elementi di base che danno forma a una cultura e la rendono distinguibile e identificabile».
La presenza, inoltre, in terra siciliana di comunità (di cattolici, come gli Arbrëshe dell’Eparchia di Piana degli Albanesi e di ortodossi, afferenti al Patriarcato di Costantinopoli, di Mosca e di Romania) che praticano culti legati alle Chiese cristiane d’Oriente è il soggetto della monografia di Maria Rizzuto sulle Liturgie musicali. La studiosa si dedica in particolare ai linguaggi musicali e cultuali che interessano le celebrazioni ortodosse, interamente cantate, a fronte dei motivi melici che frammentano e scandiscono il rituale cattolico ed enfatizzano e suggellano soltanto i momenti topici della celebrazione, soprattutto quella dell’eucaristia, cadenzando e sezionando il rito in sequenze precise.
Nello specifico, la Sicilia si offre come terreno ideale di indagine per investigare sulle peculiarità dei tratti cultuali legati ai rituali bizantini, e alla recente introduzione di quelli alessandrini, in contesti diasporici. I repertori liturgici di impianto bizantino, ad esempio, si esprimono interamente tramite il canto non accompagnato da strumenti sonori.
«Dal punto di vista musicale questi processi hanno dato vita a repertori liturgici e paraliturgici differenziati sia dal punto di vista linguistico sia musicale, processo che anche oggi si può riscontrare in alcune comunità diasporiche e che in Sicilia ha particolare rilevanza nella chiesa ortodossa italofona».
Il contributo che conclude la sezione e la rassegna etnografica è opera di Giuseppe Giordano che riflette in merito alla diffusione delle musiche tradizionali siciliane in “rete” e alle relative trasformazioni che ciò ha determinato nelle categorie di fruizione, produzione e diffusione e, quindi, sul piano della ricerca etnomusicologica. L’avvento dei nuovi canali telematici ha indotto, infatti, gli “appassionati” del genere, i cantori, i musicisti, soprattutto, a registrare i vari repertori paraliturgici e devozionali non più su taccuini o blocchi di carta, gelosamente custoditi, ma nella memoria virtuale di apparecchiature avanzate e di uso quotidiano come gli smartphone. Una volta raccolti, infatti, tali repertori vengono poi “caricati”, “postati”, “condivisi” in rete su piattaforme multimediali e social media a uso degli internauti.
L’etno-musicologo si concentra in particolare su Youtube e Facebook rilevando, a titolo esemplificativo, alcune parole chiave (rosario popolare, litania tradizionale, tradizionale lamento della Settimana Santa) e documenti audio-visivi (Inno popolare Ave Maris Stella, Inno tradizionale alla Madonna di Canneto) riguardo a musiche tradizionali descritte, commentate e criticate oltre che riprodotte. Aggiunge inoltre che «le fonti di cui oggi disponiamo sul web, ovvero i documenti audio-visuali, al contrario delle trascrizioni su pentagramma o dei quaderni con i testi verbali dei canti, sono già “suono”, sono già musica e canto interpretati e fissati attraverso la registrazione. Questo nuovo modello di fruizione dei repertori sonori ha, infatti, trasformato l’esperienza materiale della musica stessa e ne ha stravolto le dinamiche di trasmissione e acquisizione».
Le etnografie del contemporaneo ripropongono dibattiti di grande attualità negli studi etno-antropologici per l’articolata conformazione del loro oggetto di studio. Esse pongono altresì interrogativi e riflessioni. Una fra tutte: oggi, periodo critico, di passaggio e assestamento verso nuovi sistemi ideologico-culturali, sono sufficienti i vecchi “strumenti del mestiere” per interpretare l’intricato articolarsi dei fenomeni socio-antropologici? Dai dati edotti anche dai suddetti studi risulterebbe in atto una ridefinizione dei metodi di ricerca, alla luce delle nuove forme di comunicazione: accanto all’inossidabile e ancora notevolmente proficua “pratica sul campo”, adottata dai giovani studiosi, il contributo di Perricone segnala un rimodellamento di alcuni approcci, in funzione dei nuovi contesti locale/globale e dell’apertura alle relazioni transfrontaliere, mentre il saggio di Giordano invita a non sottovalutare gli ambienti di produzione multimediale e diffusione telematica, dove oggi si esprimono pubblicamente le pratiche culturali, anche quelle di matrice tradizionale. La web search, perciò, è da considerare oggi uno strumento fondamentale per la ricerca folklorica.
Un altro fattore emerge con grande potenza da questi “studi novelli”: la dimensione del contemporaneo non può prescindere dal suo passato e dagli sviluppi storico-ideologici che l’hanno prodotta, in quanto ne è intimamente connessa e da essa acquisisce le peculiarità distintive quale effetto o stadio momentaneo di un processo perennemente in divenire. È come dire, filosoficamente, che l’ultimità lega l’uomo al suo principio; oppure, secondo Perricone: