di Enzo Pace
Apertosi con l’attentato alle Torri Gemelli a New York l’11 settembre 2001 e sull’orlo di una guerra nucleare alle porte dell’Europa, il terzo millennio sembra condensare nei suoi primi venti anni un brevissimo secolo. In apparenza non ci sono analogie con il secolo breve descritto e analizzato da Eric Hobsbawm [1], che lo storico inglese faceva iniziare con la Prima guerra mondiale e concludere con il crollo dell’Unione Sovietica (1991).
Tuttavia, a ben guardare, nel respiro cortissimo della storia contemporanea, gli avvenimenti che si sono succeduti dal 2001 a oggi sembrano ingranarsi con la stessa continuità e coerenza del secolo breve.
Non c’è più il comunismo sovietico, ma l’homo sovieticus tiene saldamente il potere, per dirla con le parole di Anna Politkovskaja [2]; non c’è più traccia di maoismo in Cina, giacché esso è stato il presupposto ideologico alla modernizzazione del dispotismo asiatico [3] e un prerequisito di una via asiatica al capitalismo di Stato; la cultura liberale americana è stata profondamente compressa e compromessa con l’assalto dei fans di Trump a Capitol Hill nel gennaio del 2021: sconfitto elettoralmente, Trump continua a interpretare il desiderio diffuso nella popolazione statunitense dell’America First, espressione di un popolo fedele (agli ideali dell’evangelismo conservatore), patriottico e difensore dei valori tradizionali (famiglia, contro l’aborto in ogni caso e contro il riconoscimento dei diritti civili alle persone di diversa identità sessuale e di genere).
È accaduto che nella Russia post-comunista si sia ricostituita con l’avvento del regime di Putin l’alleanza organica fra potere politico e Chiesa ortodossa in nome di una rinnovata sinfonia fra potere mondano e potere spirituale, concordi nel leggere una partitura che esalta gli accordi e i rimandi fra sacro e profano, fra tradizione (custodita da un’istituzione ecclesiastica sotto la guida del Patriarca Kyrill) e governo dell’ordine sociale. Da Deng Xiaoping in poi, con una decisa svolta poi con Xi Jinping, il confucianesimo è stato completamente recuperato, assieme al buddismo e al taoismo, in nome della preservazione dell’anima culturale e spirituale del popolo cinese [4].
Le religioni, dunque, indebolite dalle forme moderne individualizzate di credere nel relativo, sembrano godere di ottima salute grazie anche alla rinnovata santa alleanza con regimi politici di diversa configurazione storica e culturale. Le politiche d’identità, che hanno ispirato tali regimi, sono state possibili grazie alla mobilitazione di valori e simboli di natura religiosa. Si sono create le premesse necessarie e sufficienti per legittimare il ricambio delle élite politiche, da quelle che credevano nello Stato laico, in società democratiche aperte e differenziate, dove la diversità culturale e religiosa era di casa, ad altre che, invece, progettano il ritorno a Stati confessanti in società in cui le differenze sono solo tollerate e di fatto (e anche in punta di diritto in alcuni casi [5]) gerarchizzate, dove c’è chi ha più diritti degli altri perché alcuni sono considerati i custodi della memoria culturale e spirituale originaria di un popolo, legittimando, a volte, la superiorità di un’etnia sulle altre. Una sorta di post doc, propter hoc applicato alla sociologia e all’antropologia: poiché tu non appartieni all’etnia originaria giustifica il fatto che tu sia trattato in modo differenziato: dopo di noi, prego!
Tutto ciò nelle retoriche neonazionaliste si presenta come una naturale ragionevole discriminazione. Le religioni sono usate e, in alcuni casi, si prestano di buon grado a tale bisogna per legittimare politiche discriminatorie a difesa dell’etnia originaria, vera e propria costruzione politica della realtà sociale [6].
Di fronte a quanto è accaduto in questi anni terribili (in senso letterale: che atterriscono), ci si può chiedere che relazione ci sia fra le politiche d’identità di tipo etnoreligiose e la violenza del sacro. Un tema quest’ultimo che Peter Berger [7] evoca quando, dopo aver per anni sostenuto la teoria della secolarizzazione, ne annuncia la sua inadeguatezza esplicativa di fronte a forme di credenza religiosa caratterizzate dalla furia del sacro. Le religioni storiche autorevoli, avvezze o a blandire o ad addomesticare il sacro, non sembrano in grado di contenerne la forza immaginifica di un altro ordine sociale. Negli ultimi venti anni abbiamo visto agire senza troppi scrupoli morali combattenti della fede in nome di Dio, Allah e del Dharma (hindu o buddista) che hanno incoraggiato militanti di movimenti radicali e fondamentalisti a ricorrere alla violenza e, in alcuni casi, hanno fornito argomenti teologici per giustificare atti di feroce aggressività appoggiandosi a un’ermeneutica del tutto arbitraria dei sacri testi.
Nel teatro delle sacre rappresentazioni delle guerre sante non ci sono solo i guerriglieri di Allah [8], ma anche gruppi di monaci buddisti con il kesa arancione (Sri Lanka) o bordeaux (Myanmar) che, in difesa dell’identità etnonazionale singalese o burma, scendono in piazza invocando la chiusura delle macellerie halal (nello Sri Lanka) o la cacciata dei rohingya di fede musulmana considerati stranieri indesiderati in patria (Myanmar).
La combinazione, del resto, di patriottismo ultramontano e fondamentalismo etnoreligioso comporta sovente una politica dei segni. Oltre alla riscrittura della storia e la riattivazione di schemi narrativi mitici sulle origini pure di un popolo, in alcuni casi i movimenti patriottico-fondamentalisti ricorrono a un repertorio di azioni che ha che fare con la sacralizzazione del territorio. Si cambiano i nomi di una città, com’è avvenuto nello Stato dell’Uttar Pradesh in India, quando è stato eletto nel 2017 governatore Yogi Adityanath. Questi è un monaco appartenente a un ordine religioso tradizionalista e nazionalista (il Nath), membro del partito del popolo indiano (Bharata Janata Party), attivista del Rashtriya Swayamsevak Sangh (Organizzazione Volontari Nazionalisti) cui si deve la distruzione nel 1992 dell’antica moschea Babri nella città di Ayodhya, giacché sorgeva, secondo tale movimento sul luogo di nascita del dio Rama. La città di Allahabad, dunque, è stata per legge ribattezzata nel 2018 con il nome Prayagraj, in omaggio all’antico nome Prayaga (in sanscrito: luogo del sacrificio), che aveva sino al 1583, fino all’instaurazione dell’impero moghul musulmano in India.
Alla confluenza di due fiumi sacri, il Gange e lo Yamuna, il luogo è meta di un grande pellegrinaggio (ogni dodici anni), il Khumb Mela ed è considerato dagli hindu l’ombelico del mondo. Alcuni gruppi nazional-religiosi ebraici (il Gush Emunim, in particolare) che hanno colonizzato dal 1967 i territori occupati dopo la guerra dei Sei Giorni hanno sistematicamente cercato di far coincidere la mappa di un territorio con quella tracciata nella Bibbia. I nomi biblici, in tal caso, segnalano che i confini della Terra Promessa (Eretz Israel) tornano visibili: quando tale processo sarà concluso l’arrivo del Messia sarà alle porte [9]. La sacralizzazione o risacralizzazione del territorio può contenere un grado più o meno elevato di violenza, che può essere simbolica e/o fisica. Risacralizzare per qualcuno significa tornare alla purezza originaria della propria identità religiosa. Al tempo stesso, è un atto che espropria la memoria di qualcun altro. Quando poi, queste azioni di sacralizzazione del territorio si dispiegano in contesti già segnati in passato da conflitti o, peggio, da guerre, producono violenti scontri fra opposti schieramenti.
Sacro e religione sono, del resto, una coppia che semanticamente scoppia: vanno a braccetto, ma, come ci è stato insegnato dai fondatori delle moderne scienze delle religioni, da Mircea Eliade a Émile Durkheim per fare solo due nomi fra i tanti, il sacro costituisce un’eccedenza di senso che la religione non riesce a ridurre. Le religioni provano a circoscrivere e regolare lo spazio in cui si può fare esperienza del sacro, della sua potenza immaginifica che fa, appunto immaginare, l’esistenza trascendente di una comunità superiore alle singole volontà umane. Le religioni difficilmente ci riescono, giacché l’esperienza del sacro ha a che fare con i sensi (emozioni, passioni, corporeità), con il bisogno di possederlo e di essere posseduti da ciò che ci appare potenza superiore alla trama dei desideri particolari dei singoli individui.
Le pagine di Ernesto De Martino ne La fine del mondo [10], da questo punto di vista, restano ancora illuminanti. In alcuni casi, le religioni cercano d’imporre una disciplina del senso, sacrificando e reprimendo la parte passionale ed emotiva dell’esperienza del sacro, in altri si stabilisce nel corso dell’evoluzione storica di una religione un ragionevole compromesso fra riti canonici e ritualità selvagge (le sacré sauvage di Roger Bastide [11]), in altri ancora dietro le maschere dei santi e delle sante potenti di una religione si celano (ma non più di tanto) divinità africane (come nel candomblé o l’umbanda). La tensione fra sacro e religione si scioglie ogni qualvolta si celebra il sacrificio, un rito in cui la violenza è rappresentata, messa in scena per trasformarsi in rito di riparazione e pacificazione. Illusoria e temporanea, tant’è che tale canovaccio drammaturgico va ripetuto uguale a se stesso nel tempo.
Questa è in buona sostanza la tesi di René Girard [12], di cui vorrei da ultimo ritenere un’idea che mi sembra utile per leggere i movimenti di sacralizzazione del territorio che ho descritto sommariamente poco sopra. L’idea è che il sacro abbia a che fare con il desiderio mimetico e con la rivalità mimetica. Imitare, nel linguaggio di Girard, significa che noi desideriamo ciò che gli altri desiderano e lo vogliamo solo per noi stessi. Si tratta di un desiderio primario e ancestrale, traccia culturale della memoria del rettile della specie umana. Quando il territorio si sublima nella Terra-Patria [13], i suoi confini diventano sacri, si definiscono come un oggetto di un desiderio collettivo. In tal caso, il miracolo dal sacro è far apparire unito ciò che nella realtà è differenziato: un insieme d’individui avverte in tal modo di condividere un sentimento d’attaccamento a un oggetto comune, il sentirsi simili grazie all’attaccamento alla Terra-Patria.
In tal senso, il desiderio mimetico consente di stabilire la distanza, il confine non facilmente valicabile, con chi potrebbe essere potenzialmente il rivale che minaccia il sentimento d’identità che ci lega e ci identifica grazie al rapporto speciale con la Terra-Patria. L’idea non è nuova, ma il ritorno nel secolo brevissimo dei movimenti nazionalisti e delle retoriche patriottarde è un fenomeno relativamente recente. La religione è, a volte, un mero pretesto, in altri casi non c’è alcun nesso, come, per esempio, nella lunga sanguinosa lotta per l’indipendenza dell’Euskadi, così ben descritta nel romanzo di Fernando Aramburu, Patria.
Senza religione, il sacro finisce per interpretare il bisogno di marcare un territorio con segni inviolabili. Un’etologia del sacro che, fuoriuscito dalle mura domestiche di una religione, tende facilmente a legittimare il ricorso alla violenza sia essa fisica o simbolica.
Dialoghi Mediterranei, n. 58, novembre 2022
Note
[1] The Age of Extremes. The Short Twentieth Century, London, Penguin-Michael Joseph, 1994 (it. Il secolo breve, Milano, Rizzoli, 1995).
[2] La Russia di Putin, Milano, Adelphi, 2005.
[3] Uso questa controversa nozione elaborata da Karl Wittfogel, Oriental Despotism, New Haven, Yale, 1957, riprendendo alcuni gli spunti sul modo di produzione asiatico sparsi in vari testi di Karl Marx, nel senso della sovranità assoluta del partito unico, supremo regolatore delle sfere principali della vita sociale, economica, culturale e religiosa.
[4] Sul recupero del confucianesimo come una sorta di religione civile della Cina contemporanea ha scritto pagine illuminanti Maurizio Scarpari, Ritorno a Confucio, Bologna, Il Mulino, 2015.
[5] Come, per esempio, le legge sulla libertà religiosa della Russia approvata nel 1997 sotto la presidenza di Boris Eltsin o come i nuovi regolamenti entrati in vigore sull’esercizio della libertà religiosa nel febbraio 2018.
[6] Per dirla con Peter Berger e Thomas Luckmann, La realtà come costruzione sociale, Bologna, Il Mulino, 1966.
[7] The Desecularization of the World: Resurgent Religion and World Politics, Grand Rapids, Eerdmans, 1999.
[8] Farhad Khosrokhavar, I nuovi martiri di Allah, Milano, Bruno Mondadori Editore, 2002.
[9] Renzo Guolo, Terra e redenzione, Milano, Guerini, 1997.
[10] Torino, Einaudi, 1977.
[11] Le sacré sauvage et autres essais, Paris, Payot, 1975 (it. Milano, Jaca Book, 1979).
[12] La violence et le sacré, Paris, Grasset, 1972 (it. Milano, Adelphi, 1980).
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Enzo Pace, è stato professore ordinario di sociologia e sociologia delle religioni all’Università di Padova. Directeur d’études invité all’EHESS (Parigi), è stato Presidente dell’International Society for the Sociology of Religion (ISSR). Ha istituito e diretto il Master sugli studi sull’islam europeo e ha tenuto il corso Islam and Human Rights all’European Master’s Programme in Human Rights and Democratisation. Ha tenuto corsi nell’ambito del programma Erasmus Teaching Staff Mobility presso le Università di Eskishehir (Turchia) (2010 e 2012), Porto (2009), Complutense di Madrid (2008), Jagiellonia di Cracovia (2007). Collabora con le riviste Archives de Sciences Sociales des Religions, Social Compass, Socijalna Ekologija, Horizontes Antropologicos, Religiologiques e Religioni & Società. Co-editor della Annual review of the Socioklogy of Religion, edito dalla Brill, Leiden-Boston, è autore di numerosi studi. Tra le recenti pubblicazioni si segnalano: Cristianesimo extra-large (EDB, 2018) e Introduzione alla sociologia delle religioni (Carocci, 2021, nuova edizione).
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