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Ettore e Nanda: una Finestra sul Mondo

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Ettore Sottsass e Fernanda Pivano

di Flavia Schiavo 

Dal 2003 al 2006 Ettore Sottsass tenne una rubrica “Foto dal finestrino” [1], su Domus. Uno scatto e un commento, niente affatto didascalico, quanto piuttosto poetico e immaginifico. Questa qualità sognante della scrittura, questa qualità sognante della parola e una certa qualità indagante e dichiaratamente soggettiva dell’immagine, al limite del criptico e dell’iconico, si intrecciava con un’altra cifra, questa volta più concreta, fattuale e materica che riportava gli oggetti alla loro intrinseca natura: sfuggente, ma assolutamente umana. E per questo flessibile ed evolutiva. Rilevando il “dettaglio” anche se e quando l’immagine registrasse una visione di insieme.

Nel rapporto tra figura e discorso, sotto ogni scatto, sembrava che Sottsass dovesse risolvere un suo personale dissidio (tra amore e odio) con la parola: tendente più al silenzio o alla sintesi, la potenza si esprimeva forse proprio in questa divergenza straniante tra l’espressività dell’immagine e il commento. Un ipervedente che accompagnava con un discorso scisso le immagini che avevano, già di per sé, una propria energia.

Ciò che emergeva dalle fotografie e dalle parole erano figure senza peso, non perché se ne annullasse la consistenza riducendole all’astrazione, quanto perché sia l’immagine che la parola svincolavano le stesse figure dal legame con il diktat della sola “funzione”. I soggetti ritratti, come pure gli oggetti progettati dal designer e gli edifici realizzati dalla Sottsass Associati [2], infatti, non erano figli della teoria o subordinati a un “a-priori”, ma erano frutto sia di una proiezione, di una “visione”, di un ascolto della contemporaneità, di un rinnovato rigore, sia dell’indagine sulle pratiche umane (includendo tra essi la gente comune) e della convinzione che anche nel quotidiano e nella sua trasformazione ci fossero risposte e germinasse il progetto.

Una lezione di democrazia non solo per gli architetti e i designers, ma per gli urbanisti: la cura per il “fare” e per l’utilizzo “domestico” delle cose, desacralizzate da tale utilizzo, mostrava infatti come dal singolo oggetto alla metropoli – dal “cucchiaio alla città” [3] – la progettualità fosse multisettoriale e appartenesse anche alle persone comuni e non fosse unicamente un’azione elitaria legata all’applicazione di tecniche e parametri o modelli.

Leggendo le parole di Sottsass, su una rivista o su qualcuno dei suoi libri, ne risento la voce, pacata e piena di passione. Voce ascoltata a fine inverno del 1982, quando noi, gli allievi del Corso di Disegno Industriale, partecipammo a una sua conferenza. (Sottsass fu invitato da Anna Maria Fundarò, nell’ambito di un Laboratorio interno al Corso, durante il quale il designer tenne alcune lezioni). Avevamo appena una ventina d’anni, e lui 65.  La Facoltà di Architettura era in via Maqueda, lungo quella strada noi legavamo le biciclette, spina centrale della città storica grande e diroccata, spesso illuminata dalla luce forte del sud e, a quel tempo, soffocata dai rumori e dagli odori del traffico.

Sottsass-case

Madras, India, Sottsass,  case, 1988

Il palazzo aveva ospitato, alcuni anni prima la Facoltà di Ingegneria, per poi accogliere Architettura in una fase in cui noi, architetti in fieri, che avevamo ancora un conto aperto con la cultura ingegneresca densa di tecnica e di regole precise, sognavamo un’Utopia e una Città, fatta di spazio pubblico, di architettura contemporanea (grande assente a Palermo) e una riforma urbana: la Bellezza porosa del futuro, credendo che con l’immaginazione si potesse cambiare il mondo. E cercando, prima di ogni consapevole coscienza, un “segno” che indicasse una direzione o che maieuticamente, consentisse l’emergere di un talento. Respirando nei racconti di chi ci aveva preceduto, l’onda lunga del ’68 di cui, allora, coglievamo poco gli aspetti critici. Mentre a Palermo, di lì a qualche anno sarebbe diventato Sindaco Leoluca Orlando (1985) e si sarebbe svegliata la Pantera (1989).

Quella mattina di fine inverno, varcando il portone, tra quei corridoi in penombra, dove si respirava un’aria un po’ umida che profumava di muffa, la muffa della dimenticanza e della storia, incontrammo Ettore Sottsass e la sua concreta utopia. Durante la giornata di lavoro egli ci mostrò un’infinita serie di diapositive, scandite da un clic, il ritmo e la cadenza del passaggio dentro il proiettore, prima dell’era del digitale. Erano un taccuino, un diario di viaggio: Colombia, Cile, Bolivia, India. L’altra parte del mondo insomma. Niente di accademico, nemmeno un’ombra del narcisismo con cui ci saremmo, in seguito, scontrati. Nessuno in quell’aula asseriva l’assoluto; ma, portando se stesso, narrava come il proprio “occhio” in movimento, curioso, incerto, interrogante, tanto quanto risolutivo e convincente, guardasse soprattutto l’alterità e l’esterno, introiettandolo e trasformando la pratica umana, osservata e registrata con le fotografie, in tensione culturale e in suggestione. Una ricerca sulla contemporaneità in un mondo globale, ma tutt’altro che omogeneo, ponendo al centro la curiosità e l’osservazione e soprattutto il “sapore” della “diversità” come valore. L’azione del “trasformare” non riguardava la bonifica di un luogo o l’imposizione di un modello, piuttosto atteneva l’innovazione tramite l’uso dei materiali e delle forme entro cui confluivano, non come semplice mimesi, le suggestioni mostrate.

Nel buio brillavano i colori di un’altra quotidianità. Abbandonata la teoria, le immagini offerte mettevano in luce il minimalismo e l’estetica, la bellezza casuale, sottile, innocente, carpita, insolita, che nasce senza sforzo dalle e con le persone comuni, in condizioni di scarsità ambientale. Non era la bellezza urbana dell’abbondanza bensì quella presente nei resti, negli scarti, prima che il riciclo diventasse di moda. Quella bellezza non convenzionale metteva in discussione l’ideale canonico: affascinato dall’assemblaggio, dagli esiti del “caso”, dalla potenza “organica” dei processi e dalla “frontiera”, Sottsass esplorava, insieme a noi, la nascita di una nuova estetica, nel superamento del classicismo e delle regole. Sostenibile, prima della “sostenibilità” quale concetto accreditato, era il progetto che impiegava poche risorse non opponendosi ai cicli e tutelando con naturalezza il contesto, abitato con “cura” dagli abitanti e non colonizzato da chi lo utilizzasse, sfruttandolo.

Si trattava di un’estetica sottrattiva, in cui il meno è più. Ecco, infatti, una casa senza progetto se non quello del desiderio che si traduce in un’architettura spontanea, alleggerita dallo sforzo teorico dell’accademia, senza alcuna codificazione. Ecco una strada che porta a un albero, un bordo che divide e che protegge. Ecco un frammento acceso di un intonaco blu, un azzurro intenso e minerale, che splende alla luce mediterranea di un sud lontano che forse pochi noi avevano, sino a quel momento, attraversato.

Sottsass,i i mobili e il nuovo spazio flessibile della casa, 1972

Sottsass, i mobili e il nuovo spazio flessibile della casa, 1972

Al centro di quel racconto non vi era un “Superego” né la miriade di oggetti che il designer aveva progettato, ma le case, le minuscole case, spesso unifamiliari, che implicitamente e criticamente rimanda- vano all’idea della cellula studiata dal Movimento Moderno, scardinando alcune tra le nostre convinzioni: muri di terra, disassamenti, scale senza parapetto su cui cresceva il muschio, facciate di riciclo costruite con mattoni colorati, stridenti e disadorne, finestre tutte diverse. Case senza modello.

E insieme a esse, una lunga serie di immagini: un letto disfatto di un albergo – con le tracce del corpo che restano su ogni oggetto vissuto – un fronte arancione, giallo, verde, di una piccola casa contenuta, senza sforzo, in un singolo fotogramma, il recinto intorno a essa, un orizzonte quale unico bordo di un campo di terra battuta, privo di strade e senza direzione apparente, in uno spazio senza barriere e senza confine. Dentro l’aula stracolma, in un profondo silenzio, un cielo molto azzurro, mentre l’idea del Monumento e della Storia, messa in discussione dai manufatti umani, e l’idea di Progetto si ridefinivano, più complesse e diversamente strutturate includendo altre possibilità e il dubbio.

Il progetto di Architettura, dunque, non stava unicamente nel controllo delle proporzioni, nella misura o nella tecnica. L’Oggetto emergeva oltre il Progetto canonico e, nascendo dall’uso, non da una funzione attribuita o dai rapporti metrici della Sezione Aurea, non essendo figlio di Loos, Vitruvio, di Le Corbusier o di Mies, era figlio del Mondo ed era in tal modo intensa espressione umana di una ritualità esistenziale.

Pur in questo carnale radicamento con le cose concrete, il suo racconto durante quella lezione, iniziava dal cielo, e pareva che Sottsass, come Pasolini, si chiedesse cosa fossero le Nuvole, dalla terra vista dall’alto, da un piccolo aereo a bassa quota, sfiorando il suolo. Da quell’altezza, atterrando, Sottsass coglieva i dettagli: nessuna mappa, ci diceva implicitamente, può contenere il mondo. Non l’ho mai dimenticato.

Tra il roco e il suadente, con quel monologo visivo e interiore, un flusso di coscienza di un architetto che aveva fatto del Design il suo centro di gravità, svagato in apparenza ed estremamente attento, Sottsass ci raccontava il suo viaggio, sperimentale e sensibile, in quel mondo di relazioni umane dove non esistono steccati disciplinari.

In quella aula in penombra non c’era l’America delle città, NYC – Chicago – Los Angeles, ma si manifestava una geografia differente e culture locali abitualmente irrilevanti.

Ettore Sottsass, notebook

Ettore Sottsass, notebook

All You Need Is Love

Sottsass, di cui si celebra quest’anno il centenario della nascita (a Innsbruck), e in questo mese il compleanno (il 14 settembre) – il cui lavoro, per circa 65 anni, ha prodotto oggetti (mobili; vetri; gioielli; design industriale e una splendida Valentine, un rosso oggetto di culto), allestimenti, opere di architettura, fotografie, è in mostra al Met [4] di NYC – fu, quindi, uno tra i designers più interessanti del XX secolo. Tra poesia e flessibilità, insieme a una vasta compagine di autori italiani [5], Sottsass portò avanti una ricerca empirica che, pur riprendendo gli insegnamenti del Bauhaus, ne cercava un superamento, in cui il classicismo, pur presente, e la misura delle cose, si dissolvevano in un flusso di invenzione, durante una delle fasi di transizione che la cultura e non solo quella italiana visse nel secolo scorso: la crisi del Movimento Moderno, parzialmente superata con alcune illusioni, tra cui il Postmodern che per alcuni anni sembrò fornire fascinose quanto fittizie risposte, che diedero, però, vita ad alcune opere e ad alcune elaborazioni innovative, in Italia, una tra tutte quelle di Aldo Rossi.

Dopo una fase iniziale di collaborazione con il padre, anch’esso architetto, Sottsass aprì un primo studio di Design; dal 1957 divenne art director di Poltronova, per cominciare, l’anno successivo, una lunga collaborazione con la Olivetti (come freelance), in stretto rapporto con la “Weltanschauung” di Adriano. Da questa trentennale attività nacque anche una rinnovata maniera di concepire la “postazione” domestica e quella di lavoro negli uffici (es. il sistema Synthesis), un uso innovativo di alcuni materiali, una ricerca riguardo ai colori da utilizzare (neutri o caratterizzanti e, in alcuni casi, stridenti), alle forme e alla relazione ergonomica tra il “corpo” e lo spazio (la suddivisione degli ambiti; l’ampiezza delle stanze e delle postazioni di lavoro; la precisione millimetrica nell’identificare i rapporti e le dimensioni degli oggetti, come le sedute delle seggiole o degli sgabelli, le scrivanie, le altezze dei piani di lavoro) e un oggetto di culto: la Valentine. Progettata con Perry A. King, la macchina da scrivere, nata nel 1968, e premiata con il Compasso d’oro [6]  nel 1970), divenne un’icona del XX secolo, tra l’altro, anticipando l’utilizzo friendly e la trasportabilità dei successivi notebooks, tablets e laptops. La parte posteriore della macchina era, infatti, concepita come chiusura (l’intera macchina era racchiusa in una sorta di “secchiello”), comprendendo la maniglia, mentre la parte esterna, in un lucido e colorato ABS, la proteggeva dagli urti esterni.

Manifesto-pubblicitario-dellOlivetti

Manifesto pubblicitario dellOlivetti

Esisteva, in un certo senso, un’analogia tra la Valentine e le case che Sottsass ci mostrò: oggetti conclusi in sé, di ridotte dimensioni, autosufficienti, ma pensati da e per le persone. Valentine, che già nel 1970 faceva parte della collezione permanente del MoMA (di New York), era e ancora è un oggetto contemporaneo, non elitario (il costo era contenuto, e l’oggetto era definito dallo stesso progettista e dalla Olivetti come una penna BIC: di tutti e per tutti), anticipatore e innovativo, alla stessa stregua della campagna pubblicitaria, mirata a promuoverne la vendita, che vide tra gli autori, oltre allo stesso Sottsass, Milton Glaser che inseriva nei suoi posters (molto differenti da quelli che avevano, intorno alla metà degli anni ’20 pubblicizzato le macchine da scrivere Olivetti) la macchina in un ambito atipico rispetto all’uso sino a quel momento comune. Coerentemente, gli spot pubblicitari non puntavano all’informazione o alla divulgazione delle caratteristiche tecniche del prodotto, ma costruivano narrazioni, quadri e contesti che rimandavano agli aspetti culturali innovativi connessi al sound internazionale contemporaneo (si pensi, ad es. al film del 1968 dei Bealtles – che dal 1966 avevano smesso di esibirsi in pubblico – Yellow Submarine): il Movimento degli Hippies e la cultura psichedelica, come pure l’emancipazione femminile, la reinterpretazione degli stilemi classici; sequenze e “storie” che suggerivano dichiaratamente quanto la Valentine fosse un oggetto leggero e informale. In tal senso se la macchina da scrivere rossa in ABS rifletteva l’internazionalizzazione della società italiana (almeno in alcuni, pochissimi, aspetti), gli spot contribuirono ad arricchire il linguaggio di comunicazione pubblicitario, e il repertorio audiovisivo della Olivetti, costituito da numerose tipologie [7].

Nel 1949 Ettore Sottsass, quand’era ancora squattrinato, alle soglie del dopoguerra, mentre l’Italia stava entrando nel cosiddetto Boom economico, sposò Fernanda (detta Nanda) Pivano. Entrambi trentaduenni vissero una lunga storia (interrottasi, poi, da un divorzio) che oltre all’amore li influenzò reciprocamente.

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Copertina di libro di F. Pivano

La Pivano nata a Genova si trasferì con la famiglia, quando era adolescente, a Torino e frequentando il Liceo Classico Massimo D’Azeglio, ebbe come insegnante Cesare Pavese (1908-1950) che, oltre alle pagine di prosa e agli scritti che ne fanno uno dei protagonisti della letteratura internazionale fu, come è noto, sensibilissimo traduttore e studioso della narrativa inglese (S. Lewis, H. Melville [8], S. Anderson, D. Defoe, C. Dickens, J. Joyce).  Dominato da un profondo senso di solitudine e incline al suicidio – il “vizio assurdo” come lui stesso lo definiva – di ritorno a Torino dove iniziò a collaborare stabilmente con Einaudi (1942), Pavese visse un’esistenza caratterizzata da amori irrisolti che in parte furono occasione di riflessione e di scrittura, in parte di radicati tormenti esistenziali. Lo scrittore fu, inoltre, l’indiscusso trait d’union tra la cultura e la letteratura americana e la giovane Fernanda (la loro complessa “amicizia” si radicò nel 1940) di cui, peraltro, si innamorò chiedendola in moglie; Nanda era, secondo lui, “diversa dalle ragazze qualsiasi” e “troppo preziosa per essere ignorata”. Tracce di questo amore non corrisposto in alcune lettere (alla cui pubblicazione Fernanda si oppose) e in alcune liriche composte da Pavese: Mattino; Notturno [9], Estate.

Lo scrittore, di contro, perennemente dislocato (tra Torino, il confino in Calabria e il Monferrato dove viveva la sorella) – e non solo in amore – dopo la Liberazione si iscrisse al Partito Comunista, collaborando con l’Unità e vivendo una fase, sino alla morte per suicidio, di altissima produzione letteraria.

Il primo lavoro di traduzione di Fernanda Pivano fu l’Antologia di Spoon River, una raccolta di liriche di Edgar Lee Master (1915) che, potrebbe dirsi, ha segnato la mia generazione. Avversata dal Regime Fascista, la cultura americana, soprattutto quando, come in Spoon River, esprimesse e rappresentasse immagini non convenzionali, vide la luce in Italia proprio grazie al sodalizio tra Pavese e alla Pivano. Lo scrittore donò una copia della raccolta a Nanda che era curiosa di scoprire quali fossero le differenze tra la letteratura inglese e quella americana. Il contrasto tra l’epica classica e l’immediatezza di Lee Masters toccarono profondamente Fernanda che tradusse i testi. Pavese per caso lesse la traduzione e propose la pubblicazione a Einaudi. Era il 9 marzo del 1943. Da quell’Antologia scaturì uno dei dischi più belli di Fabrizio De Andrè (con cui Nanda intrattenne una importantissima relazione di intesa intellettuale e complicità) che, a soli 18 anni lesse le liriche, ne scelse nove e con la collaborazione di G. Bentivoglio e N. Piovani, lavorando sui testi, scrisse le musiche, raccogliendo i brani in Non al denaro non all’amore né al cielo. Nel 2005, inoltre, il fotografo americano William Willinghton ritrasse i luoghi che avevano ispirato il poeta statunitense, raccogliendo le immagini in un volume (con scritti della Pivano) dal titolo Spoon River, ciao (pubblicato nel 2006).

Ernest Hemingway e Fernanda Pivano

Ernest Hemingway e Fernanda Pivano

L’incontro con Pavese, dunque, fu determinante per la Pivano, tanto quanto la giovane studiosa fu determinante per Sottsass. Affascinati, sia l’americanista sia il designer, dalla contemporaneità, che in quel momento aveva la sua massima espressione soprattutto nell’America urbana del nord, entrambi condussero una ricerca decisamente empirica. Con una forte matrice che potrebbe definirsi antropologica sia Ettore che Nanda esplorarono il contesto come “testimoni partecipanti”. Esterni alle strettoie teoriche e ai vincoli accademici, né l’uno né l’altra infatti vi appartennero, ambedue affrontarono la propria ricerca “incontrando” l’alterità e concentrandosi sulla sperimentazione, con forti connessioni con la cultura Pop, d’oltre Oceano. L’“intervista” e l’osservazione diretta, che per Sottsass era condotta attraverso il viaggio e la survey, accompagnarono il confronto di Nanda con i grandi protagonisti letterari: nel 1948 la Pivano incontrò Ernest Hemingway con il quale intrattenne una profonda e intensa relazione amicale, traducendo A Farewel to Arms. Fernanda fece il suo primo viaggio negli States nel 1956 e fu, in Italia, il canale culturale che consentì la diffusione delle opere e delle “icone” letterarie dei cosiddetti Roaring Twenties, tra essi  F. Scott Fitzgerald, Dorothy Parker, William Faulkner. Negli anni successivi la sua militanza diretta la portò a contatto con gli scrittori della Beat generation, come Allen Ginsberg, Jack Kerouac, William S. Burroughs, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti, fino ai più recenti Charles Bukowski – intervistato nel 1980 e nel 1984 a San Pedro in California – Jay McInerney, Bret Easton Ellis, David Foster Wallace (morto anch’egli per suicidio), Chuck Palahniuk e Jonathan Safran Foer.

Tratto comune a Nanda ed Ettore era l’essere immersi nel contemporaneo, privi dei filtri della teoria e intrisi di quel nomadismo culturale che portò entrambi in America e che ci consentì di affacciarci, oltre l’Atlantico, in quel continente che aveva concepito una nuova cultura. Individui generatori, catalizzatori, innamorati, come molti di noi del Viaggio.

Dialoghi Mediterranei, n.27, settembre 2017
Note
[1] Le fotografie e i commenti della rubrica furono raccolti e pubblicati su un libro, dal titolo omonimo, edito da Adelphi.
[2] In connessione con il gruppo Memphis, intorno agli anni ’80 alcuni tra i designers più importanti del periodo costituirono la Sottsass Associati. Fondatori, oltre a Sottsass, A. Cibic, M. Marabelli, M. Thun, M. Zanini. Le realizzazioni del team furono soprattutto negozi e showrooms.
[3] La frase di Ernesto Nathan Rogers (membro, tra l’altro, del gruppo BBPR) formulata nel 1952, contenuta nella Carta di Atene, rimanda a una progettazione multi orientata, dall’oggetto domestico (un cucchiaio, una sedia, una lampada) a un grattacielo e transdisciplinare in grado di tenere in considerazione anche i fattori umani e antropologici, puntando a un’evoluzione radicale del progetto di architettura. La frase, che ebbe un’enorme fortuna, fu utilizzata anche come titolo di un volume di Ugo La Pietra.
[4] Al Met Breuer è in corso una mostra (dal 21 luglio al 8 ottobre 2017) intitolata: Ettore Sottsass: Design Radical, che celebra e illustra il lavoro di Ettore Sottsass, presentando non solo gli innumerevoli manufatti (lampade, teiere, oggetti di ceramica, mobili, ecc.) ma alcune fotografie e disegni del designer. Un percorso che mostra l’attività di Sottsass, come pure le matrici culturali le influenze che anche le culture orientali ebbero sul suo lavoro. Un elemento ricorrente: l’apparente semplicità, forse sarebbe meglio dire l’essenzialità dell’opera di Sottsass unita alla energia visionaria che attingeva anche alla cultura psichedelica degli anni ’60.
[5] Alcuni tra essi, A. Branzi, U. La Pietra, D. Santachiara, furono invitati dalla prof. Fundarò, sempre nell’ambito del Corso di Disegno Industriale. Disciplina per noi affascinante per gli esiti nazionali e internazionali e per la “filosofia” connessa all’oggetto e nel contempo insidiosa per la coesistenza di una interessante e feconda tradizione connessa all’artigianato e alla fase del Liberty siciliano contraddistinto dalla produzione di mobili e oggetti, insieme a una sostanziale debolezza del settore di produzione industriale locale, con alcune eccezioni tra cui i mattoni di graniglia di marmo. Tali pavimentazioni, realizzate con marmi poco pregiati, ebbero tra ’800 e gli anni ’40 del ’900, vastissima diffusione. Ancor oggi riconosciute e a volte mantenute, testimoniano la presenza di un abitare improntato al decoro, di una piccola borghesia locale solida.
[6] Il Compasso d’oro è un autorevole premio mondiale di Design, istituito nel 1954. Nato da un’idea di Gio Ponti fu organizzato per anni dalla Rinascente per evidenziare i prodotti del Design italiano che durante quella stagione iniziale era caratterizzato da una interessantissima ricerca in stretta relazione con le case di produzione e le industrie, tutte o quasi localizzate al nord della penisola. Non si trattava solo di oggetti, ovviamente, ma soprattutto di mobili: sin dalla fine degli anni ’20 lo stesso G. Ponti aveva progettato una linea chiamata Domus Nova che puntava, come affermava lo stesso progettista a porre in primo piano le questioni essenziali dell’igiene, della praticità e della comodità. Cercando una distanza dal rigore razionalista del Bauhaus, la linea puntava a un rinnovamento deciso della tradizione italiana. Sottsass vinse il premio nel 1959 (Calcolatore Olivetti, Elea 9003), nel 1970 (Elaboratore elettronico G 120; Addizionatrice elettronica Olivetti Summa 19; Olivetti Valentine), nel 1989 (Nuovo Milano, set di posate, di Alessi).
[7] Dai film scientifici-industriali (per un pubblico specializzato) o di divulgazione scientifica, ai film di ricerca, di interesse tecnico, a quelli informativi che illustravano il ciclo produttivo per evidenziare il valore tecnico e per valorizzare il prodotto; sino ai film Tecnico-didattici mirati all’addestramento professionale, sino ai documentari di interesse sociale relativi al mondo del lavoro, sino ai prodotti giornalistici a quelli che puntavano ad affrontare i temi relativi all’igiene e agli infortuni sul lavoro, sino a quelli squisitamente pubblicitari. Diversi destinatari e differenti linguaggi, i film avevano diversa diffusione e differenti obiettivi.
[8] La prima traduzione di Moby Dick, cosa nota, è di Cesare Pavese. Una prima edizione del 1932 fu ripubblicata nel 1941 con alcune variazioni.
[9] Notturno: La collina è notturna, nel cielo chiaro.
Vi s’inquadra il tuo capo, che muove appena
 e accompagna quel cielo. Sei come una nube 
intravista fra i rami. Ti ride negli occhi
 la stranezza di un cielo che non è il tuo. La collina di terra e di foglie chiude 
con la massa nera il tuo vivo guardare, 
la tua bocca ha la piega di un dolce incavo 
tra le coste lontane. Sembri giocare 
alla grande collina e al chiarore del cielo:
 per piacermi ripeti lo sfondo antico 
e lo rendi piú puro. Ma vivi altrove. 
Il tuo tenero sangue si è fatto altrove. 
Le parole che dici non hanno riscontro 
con la scabra tristezza di questo cielo.
Tu non sei che una nube dolcissima, bianca
 impigliata una notte fra i rami antichi».

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Flavia Schiavo, docente di Fondamenti di urbanistica e della Pianificazione territoriale presso l’Università di Palermo, ha pubblicato saggi, monografie e articoli su riviste nazionali e internazionali. Conduce attività didattica e di ricerca in Italia, Europa e America del Nord, dove è stata visiting presso la Columbia University. Tra le sue pubblicazioni, Parigi, Barcellona, Firenze: forma e racconto (Sellerio 2004); Tutti i nomi di Barcellona. Il linguaggio urbanistico (F. Angeli 2005).

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