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Eva Carlestål, La famiglia. Un’indagine su una comunità di pesca in Sicilia, Istituto Euro Arabo, Mazara del Vallo 2012

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di Antonino Cusumano

Chi fa ricerca contrae dei debiti di riconoscenza nei confronti di quanti lo hanno aiutato, lo hanno guidato alla comprensione di un fenomeno o semplicemente lo hanno incoraggiato. Si pone per il ricercatore, alla fine del suo lavoro, il problema della restituzione. Se è vero che l’acquisizione dei dati conoscitivi comporta un complesso rapporto di negoziazioni, di mediazioni, di scambio tra soggetti con interessi differenti e talvolta conflittuali, la restituzione del sapere acquisito, il controllo delle informazioni ottenute sul campo e del loro uso pubblico, e la responsabilità del ricercatore verso gli informatori, sono questioni che presentano aspetti politicamente ed eticamente rilevanti, qualificanti della stessa esperienza scientifica e della attendibilità metodologica.

Sensibile a questi problemi Eva Carlestål ha sentito il bisogno di ritornare a Mazara per restituire i risultati della ricerca che ha condotto nella nostra città tra il 1996 e il 2001, in origine la sua tesi di dottorato, dal titolo La famiglia. The ideology of sicilian family networks, pubblicata nel 2005 a cura del Dipartimento di Antropologia dell’Università di Uppsala, oggi edita in lingua italiana a cura dell’Istituto Euro Arabo, con il titolo La famiglia. Un’indagine su una comunità di pesca in Sicilia, grazie alla traduzione di Deianira Ganga. Il libro è stato presentato a Mazara sabato 2 febbraio 2013 nell’Aula Consiliare. Sono intervenuti, insieme all’autrice, Gabriella D’Agostino, docente di Antropologia Culturale dell’Università di Palermo, autrice tra l’altro della nota introduttiva al volume, e il Presidente della Fondazione Buttitta, Ignazio E. Buttitta, cui si deve il concreto sostegno economico per la stampa dell’opera.

Già collaboratrice negli anni Settanta del sociologo Danilo Dolci, avendo soggiornato a Partinico e in altre località della Sicilia, Carlestål ha insegnato all’Università di Uppsala ed è attualmente Director of doctoral studies presso il Dipartimento di Language&Culture in Europe dell’Università di Linköping. Probabilmente nulla è più lontano dalla Sicilia della Svezia e per questo lo sguardo che Eva Carlestål getta su di noi, sul nostro modo di essere e di rappresentarci, di vivere e di abitare, di pensare, di mangiare e di parlare, ci aiuta a conoscerci, a conoscere noi stessi, talvolta a riconoscerci, a capire come ci vedono gli altri, ma ci aiuta anche a intravedere la cultura di chi ci guarda e ci rappresenta. Attraverso quel che la studiosa ha scritto su di noi, sulla struttura e sull’organizzazione delle famiglie nell’ambito delle società di pesca, sulla loro solidità e coesione ma anche sulla loro duttilità e pervasività, attraverso le sue descrizioni etnografiche e le sue interpretazioni antropologiche, intuiamo qualcosa della sua cultura d’appartenenza, del suo modo di essere e di pensare, delle sue abitudini e della sua concezione della vita, della società e del mondo.

Alcuni probabilmente i più scettici non si riconosceranno, non si ritroveranno nelle rappresentazioni della città e dei cittadini elaborate e proposte da Eva; alcuni, magari i più critici, i più suscettibili, i più permalosi, si sentiranno un po’ infastiditi, perfino indispettiti da certe sottolineature su determinate nostre abitudini, su alcuni eccessi o difetti comportamentali. Ma è bene ricordare che gli individui non sempre sono i migliori interpreti di se stessi. Tra le loro intenzioni e le concrete manifestazioni di comportamento, tra le norme dichiarate e le prassi consolidate ci sono spesso non poche contraddizioni e ambiguità. In questo iato, in questo scarto, in questa distanza tra ciò che diciamo di essere e ciò che facciamo o siamo di fatto, sta probabilmente il livello delle strutture profonde di una cultura. E l’antropologia serve proprio a defamiliarizzare il consueto e l’apparentemente ovvio, a rendere esplicito l’implicito, il sottinteso, l’irriflesso, quanto nel nostro senso comune appare scontato. Il compito dell’antropologo è in fondo quello di mostrare che quanto ci sembra ovvio e naturale non lo è affatto, che le cose che ci sono familiari possono essere viste sotto una luce diversa, che le rende in qualche modo strane, esotiche. Lo “sguardo da lontano” ci fa vedere quello che di solito non vediamo proprio perchè lo abbiamo costantemente sotto gli occhi. Questo estraneamento ci suggerisce che le nostre istituzioni sociali e i nostri modi di vivere non sono gli unici possibili né sono necessariamente migliori.

Eva Carlestål non si è limitata a osservare, ascoltare, registrare. Non è rimasta sulla soglia della città, vi si è trasferita, ha preso contatto con famiglie, uomini e donne della comunità, ha condiviso gli spazi urbani, ha partecipato ad eventi pubblici e privati, (processioni, comizi, riunioni politiche, conferenze sulla pesca, manifestazioni culturali, perfino matrimoni), ha promosso quella trama di fatti e relazioni personali che costituiscono lo specifico di un’indagine sul campo, è entrata nelle case e perfino nelle scuole anche attraverso la figlia Teresa, che con lei ha condiviso la permanenza a Mazara frequentando il liceo locale. Eva ha in altre parole perseguito e realizzato quel metodo di indagine che in antropologia si chiama “osservazione partecipante”, finalizzata alla comprensione empatica del sentire comune dei soggetti indagati, e per questo ha praticato in prima persona le abitudini dei mazaresi, condividendo modelli e strategie della cultura locale.

Molti sono gli aspetti della vita cittadina che Eva ha attentamente osservato e descritto, a cominciare dalla nostra orgogliosa difesa delle pratiche alimentari, mai solitarie e sempre occasioni festose di convivialità, per certi aspetti accompagnate forse da un’eccessiva enfasi siculocentrica. La studiosa svedese dedica alcune pagine al nostro senso dell’ospitalità, generosa certo, ma anche probabilmente a volte esuberante, ingombrante, perfino invasiva rispetto alla libertà e ai diritti della privacy individuale. E comunque sottesa e regolata da impliciti modelli d’inclusione e di esclusione.

Del complesso rapporto pubblico/privato, approfondito e ampiamente argomentato con numerose esemplificazioni, anche in simmetrica corrispondenza con il difficile equilibrio dentro/fuori, l’antropologa dimostra quanto il confine sia ambiguo, per certi tratti ben marcato e per altri assai incerto e opaco, reversibile, spesso giocato secondo logiche di affiliazione e di appartenenza, di equivoca commistione o di rigida separazione.

Ma le cose forse più interessanti e più originali Eva probabilmente le scrive sulla donna mazarese, sulle donne che sono figlie o mogli di pescatori, la cui visibilità e forte presenza sono evidentemente correlate all’assenza del padre o marito, costretto in mare per lunghi periodi dell’anno Ci fa scoprire il loro ruolo centrale nella gestione non solo dell’organizzazione delle attività domestiche e familiari ma anche e soprattutto nella strutturazione e trasmissione dei valori morali e affettivi, dei saperi e dei poteri formali e informali. Cogente è il vincolo di dipendenza che lega il figlio alla madre in un sistema di matrifocalità in forza del quale le donne sono chiamate a “fare da padre e da madre”, così da dichiarare all’antropologa (“tu sei donna e mi puoi capire”) timori e ansie, premure e apprensioni, desideri e insoddisfazioni. Probabilmente solo una donna, la sensibilità di un’antropologa, avrebbe potuto cogliere le diverse sfumature del mondo affettivo e sentimentale delle mogli oppresse da una solitudine densa di supplenze, di impegni e incombenze familiari.

C’è, in verità, molto dello specifico femminile nello sguardo della ricercatrice: l’attenzione per gli aspetti più minuti della vita quotidiana, il registro colloquiale e narrativo della sua scrittura, i livelli di partecipazione umana e sentimentale alle vicende dei suoi informatori, il suo percorso metodologico tra micro e macro analisi, la sua particolare sensibilità per i temi della maternità, dell’affettività, della moralità.

Molto di ciò che Eva Carlestål riferisce alla famiglia mazarese – plasticità e sussidiarità, camaleontismo e solidarietà – è probabilmente da ascrivere a modelli culturali che appartengono ormai all’intero nostro Paese. Niente affatto chiusa su se stessa ma al contrario flessibile ed estroflessa nella sfera pubblica, la famiglia allargata svolge un ruolo non secondario nell’elaborazione e applicazione di precisi codici organizzativi e normativi che orientano e permeano la vita della comunità. Sono fin troppo note le pratiche della mediazione e della cooptazione familiare nella politica e nell’amministrazione, soprattutto quelle degenerate nel clientelismo e nel nepotismo. Sappiamo quanto la logica onnivora dei reticoli parentali possa inquinare e corrompere la gestione della cosa pubblica. E tuttavia, al di là dei fenomeni prodotti dal cosiddetto “familismo amorale”, la famiglia era e resta, oggi ancor più di ieri, in tempi di gravissima crisi del welfare statale, un fondamentale ammortizzatore sociale, un prezioso presidio economico a difesa degli equilibri della collettività. Lo è per i giovani che hanno difficoltà ad entrare nel mondo del lavoro. Lo è per le donne che non possono contare su una adeguata ed efficiente rete di servizi pubblici. Lo è per le persone anziane o per quelle non autosufficienti che trovano all’interno del nucleo familiare l’unico sicuro riparo assistenziale.

La verità è che in una società e in una cultura di tipo collettivista, la famiglia è una grande Madre, possessiva ma anche protettiva, solida ma anche solidale, pervasiva ma anche comprensiva. Nulla di più distante, nel bene e nel male, dalle società e dalle culture individualistiche del Nord Europa. Probabilmente nulla di più antropologicamente lontano dalla Svezia di Eva Carlestål.

Dialoghi Mediterranei,n.1, aprile 2013
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