La prima settimana d’agosto, a Cefalù, antica cittadina del Palermitano affacciata sul mar Tirreno, è tempo di festa. Diversi sono i segni che comunicano, anche all’osservatore meno attento, la presenza di comportamenti rituali tipici del calendario festivo siciliano, in particolar modo delle comunità marinare che d’estate celebrano i propri Santi protettori. Città di mare e dal retaggio contadino, Cefalù oggi fonda la propria economia sul turismo di tipo balneare e culturale, ma il settore ittico costituisce ancora un’importante risorsa per i suoi abitanti, oltre ad essere elemento costitutivo della loro identità. A ciò sembra alludere lo stemma della città, che raffigura tre pesci attorno a un pane ‒ o ad una sfera d’oro ‒ su uno sfondo azzurro mare. Al mattino o alla sera, passeggiando su corso Ruggiero ‒ cuore del centro storico, luogo di ritrovo e del commercio per eccellenza ‒ è facile incontrare i pescatori in sosta con le loro carriole, cariche di pesce azzurro appena catturato, come sardi (sarde), anciovi (acciughe), capuna (lampuca), ‘nfanfari (pesce pilota), muccu (neonata). Gli stessi pescatori, anno dopo anno, a testimonianza del forte legame uomo-mare-divinità, sono tra i principali attori della festa del ss. Salvatore della Trasfigurazione. Il 6 agosto, quando i festeggiamenti in onore del Cristo giungono al culmine, sono loro i fieri organizzatori della tradizionale antinna a mari, spettacolare evento ludico-competitivo che si tramanda di padre in figlio e si ripete probabilmente da almeno tre secoli. Alcuni uomini di mare, inoltre, durante la solenne processione conducono a spalla, per voto o devozione, il fercolo del Santo lungo le vie del centro storico.
La celebrazione in onore di Gesù Salvatore, oltre ad avere un palese significato sacro in forma cristiana e a ricordare il noto episodio biblico della Trasfigurazione del Signore, si verificava non a caso a conclusione del ciclo del grano e può essere dunque interpretabile, analogamente a molte altre feste stagionali del Mediterraneo, come cerimonia di ringraziamento per ciò che la Natura e le divinità hanno concesso all’uomo, nonché come rito propiziatorio per il prossimo raccolto. Si tratta di ricorrenze di probabile origine precristiana, il cui senso è stato evidentemente modificato con l’avvento del Cristianesimo ed inglobato dalla nuova religione. I significati di rinnovamento vitale in senso cristiano e precristiano, la rigenerazione del Cristo da un lato e della Natura dall’altro, infatti, non sono in antitesi, piuttosto ‒ com’è tipico della Sicilia, terra di sovrapposizioni e bricolage culturali ‒ si compensano tra loro in un perfetto sincretismo. È dunque intuibile come, nel corso della novella era cristiana, i contadini delle campagne cefaludesi nonché gli uomini di mare, nei campi di grano e lungo le coste tirrene ‒ in particolare nei momenti critici del ciclo agrario, dei viaggi commerciali a bordo di bastimenti a vela, delle battute di pesca su lancitieddi a remi ‒ si siano agevolmente adattati ad invocare la protezione del Santo. Non solo i praticanti di un mestiere assai rischioso o soggetto all’imprevedibilità della natura, come quello del pescatore, del marinaio o del contadino, ma in generale i cittadini di ogni estrazione sociale e professionale sono da secoli particolarmente devoti a Gesù Sabbaturi. Salvatore, non a caso, è un nome assai comune tra i cefaludesi, specialmente tra i discendenti e i primogeniti degli uomini di mare. Secondo le fonti orali, infatti, al Santo spetterebbe il merito di aver salvaguardato gli abitanti e i loro beni in occasione di epidemie, terremoti, tempeste e naufragi. A lui ci si rivolge dunque per ottenere qualsiasi tipo di grazia e protezione.
Due eventi in particolare ricordano i miracoli del Santo. Il primo è costituito dai numerosi rintocchi delle tonanti campane del Duomo, il pomeriggio del 5 agosto, seguiti dallo sparo dei mortaretti e dalle allegre marce della banda musicale. Il frastuono festivo è un segno di gratitudine per lo scampato pericolo del terremoto del 5 febbraio 1783, che rase al suolo la città di Messina ma risparmiò Cefalù. Il secondo rituale consiste nella novena che precede la festa, ovvero negli inni dialettali intonati da un gruppo di fedeli che annualmente si radunano, per nove sere consecutive, dal 28 luglio al 5 agosto, di fronte l’edicola votiva di via Candeloro, nell’antico quartiere della Giudecca, fino a pochi decenni fa abitato prevalentemente da pescatori. Così cantano i fedeli in lode al Santo:
«Ludamu e cantamu Gesù Sabbaturi, ca è patri d’amuri, ca è tuttu bontà […]. Chistu è la fonti chi sparma li razii e a tutti fa sazi, cuntenti nni fa […]. Nu gran tirrimutu chi misi ruina ‘n Calabria e Missina, nta l’autri città […]. Evviva pi sempri Gesù Sabbaturi che è patri d’amuri, che è tuttu bontà! […] alzati bannera, scanzati cuolera nta tutti i città […]».
Il canto popolare fa riferimento a specifici rituali della festa, come l’alzabandiera sulla sommità del Duomo, e ai miracoli del festeggiato, in particolare lo scampato terremoto del 1783 e l’arginata epidemia di colera del 1834. Poiché da secoli si tramanda oralmente, alcuni fedeli hanno talvolta apportato piccole varianti a determinate strofe. Nel periodo postbellico, ad esempio, qualcuno inserì tra gli eventi da scongiurare anche la parola ‘guerra’.
Nelle abitazioni cefaludesi è quasi immancabile l’immaginetta del Cristo Pantocratore affissa sulla soglia, in cucina o in camera da letto, a protezione della casa e del nucleo familiare che vi risiede. L’immagine del ss. Salvatore ricorre poi, sotto forma di dipinti, sculture o stampe, in decine di edicole votive sparse per le viuzze del centro storico, dalle più semplici e umili a quelle di pregevole fattura o frutto di particolare interesse storico-artistico, come l’antica edicola con dipinto sulla facciata dell’Osterio Magno, elegante palazzo nobiliare del XIII-XIV secolo affacciato sul corso. Queste piccole strutture architettoniche, costantemente curate dai residenti nelle loro immediate vicinanze, la prima settimana d’agosto, a seconda del gusto personale o del grado di devozione, sono addobbate a festa. Talvolta assumono le sembianze di veri e propri altarini domestici, coperti da tovaglie bianche o merletti ornati con motivi sacri. Ninfi (fiori di cartapesta), ceri, lampade, festoni, bandierine, piante e boccioli d’ogni tipo circondano le immagini del Salvatore. Segni variopinti di allegria e devozione si snodano nei vicoli e negli anfratti più nascosti del paese.
Visibile dal 2 al 10 agosto, in mezzo alle due maestose torri del Duomo arabo-normanno, tra le tante icone spicca la bandiera del Cristo Pantocratore, fedele riproduzione del magnifico mosaico bizantino sul catino absidale. La basilica, simbolo della città ‒ analoga per committenza, stile e splendore degli interni alla Cappella Palatina di Palermo e al Duomo di Monreale ‒ fu fatta costruire nel 1131 dal re normanno Ruggero II d’Altavilla. Secondo la leggenda, l’edificio sarebbe un enorme ex voto, il grandioso prodotto di una grazia ricevuta il 6 agosto del 1130: il miracoloso approdo della nave reale a Cefalù in seguito ad una spaventosa tempesta che mise in pericolo la vita stessa del sovrano. Segno della secolare fortuna di questo racconto leggendario, nella toponomastica, è la denominazione dell’attuale via Porto Salvo, che non a caso dal mare sale verso il Duomo. Gli storici ritengono, tuttavia, che la basilica sia stata voluta dal sovrano per precisi motivi politici. Comunque sia, da allora, probabilmente, Gesù Salvatore fu considerato il patrono emerito di Cefalù. I più antichi documenti finora rinvenuti sulla festa cefalutana risalgono infatti ai secoli XII e XIII. In particolare, una pergamena del 1157 firmata da Daniele, antivescovo di Cefalù, fa riferimento a due libbre di cera messe a disposizione dal prelato per la festa del ss. Salvatore. Un secondo manoscritto in lingua latina, databile 1212, contiene informazioni analoghe circa tre libbre d’incenso fornite dall’arcivescovo per la suddetta celebrazione, e riguardo a vigneti, mosto, rotoli di cera e di incenso annualmente destinati alla festa della Trasfigurazione o del ss. Salvatore da alcuni membri di una delle confraternite religiose di Cefalù.
Nonostante dal 1954 l’Immacolata sia stata proclamata dal Pontefice patrona ufficiale della città, la festa del ss. Salvatore continua ad essere considerata la più sentita e partecipata dalla maggior parte della popolazione. In occasione dei festeggiamenti in onore del patrono storico, inoltre, alcuni emigrati fanno ritorno da Nord Italia, Nord Europa e America, riunendosi al paese e alle famiglie d’origine. Rientrano anche molti degli ormai residenti presso altre città siciliane. La festa assume dunque per la comunità cefaludese, intesa nel suo senso più ampio e globale, un forte valore di coesione sociale. Questa funzione socializzante si estende anche agli abitanti del circondario e ai numerosi turisti di passaggio. Tutti accorrono per assistere ai principali eventi in programma, come l’appizzata ra bannera, a ‘ntinna a mari, a pricissioni, i jochi i focu. Persino gli emigrati impossibilitati a far ritorno in patria sono resi partecipi della festa, in tempo reale, tramite i mezzi elettronici ed informatici.
L’evento che segna l’apertura ufficiale dei festeggiamenti, nel pomeriggio del 2 agosto, è l’alzabandiera, seguito dai festosi e numerosissimi rintocchi di tutte le campane delle chiese del paese. In occasione del commovente rito, gran parte degli abitanti si riunisce in piazza Duomo per osservare lo spiegamento della bandiera. Corso Ruggiero si anima di gruppi d’ogni tipo: parenti, amici, vicini di quartiere, conoscenti e gli immancabili turisti. Al concerto dei campanili, tra i quali si distingue nettissima la ‘prima voce’, quella imponente delle campane della Cattedrale, si aggiungono il rumore dei mortaretti e i brani della banda musicale, che percorre poi le strade del centro storico. Si crea così, in ogni piazza e vicolo di Cefalù, un lieto frastuono, inequivocabile segno di festa. Il grande vessillo raffigurante il Cristo Pantocratore è issato in cima al Duomo da un gruppetto di uomini e lasciato tradizionalmente sventolare per dieci giorni tra i due torrioni. Il 10 agosto la bandiera è ammainata e conservata per l’appizzata dell’anno venturo. La data non è casuale: anticamente, infatti, dall’età normanna al tardo Rinascimento, segnava la fine del ‘porto franco’, ovvero dell’esenzione dalle tasse doganali concessa ai numerosi commercianti provenienti via mare o via terra in concomitanza della festa. Ancora oggi, dal 2 agosto, si svolge una fiera, residuo dell’antico porto franco. Se in passato si allestiva un esteso mercato degli animali, del sale e del legname, oggi, tra il centro storico e l’inizio del lungomare, alle poche bancarelle di semi, dolciumi e tradizionali merci dell’artigianato locale (soprattutto attrezzi da lavoro agro-pastorale, seggiole impagliate, arredi e utensili da cucina), si aggiungono giocattoli, abiti, accessori, ninnoli e souvenir messi in vendita da immigrati africani ed asiatici, a testimonianza degli attuali processi culturali connessi al fenomeno della globalizzazione.
Al mattino, dal 2 al 6 agosto, si odono gli spari dei mortaretti e le allegre marce dei complessi bandistici, che girano per le vie e le principali contrade del Comune. Le luminarie variopinte, in passato lampari da pesca, addobbano strade e quartieri. Anche la Cattedrale era illuminata e addobbata con drappi colorati. Sulla sommità della Rocca, rischiarata dalla luce dei fari, spicca la luce dorata della grande croce metallica. Il simbolo, eretto nel 1925, è ormai parte integrante del paesaggio cefaludese e fu illuminato per la prima volta nel 1932, in occasione della festa del ss. Salvatore. Fino al 2000, anno del Giubileo, la croce era accesa soltanto in occasione dei festeggiamenti patronali. «In questi giorni di festa», scrive nel 1948 la cefaludese Anita Maggio nella propria tesi di laurea sul folklore della città, «le campagne sono deserte, tutti sono in paese ed escono dalle case a passeggiare ornati di gioielli più o meno veri, e mettendo in mostra gli abiti nuovi» (Maggio 1948-49: 20).
In casa, i primi giorni d’agosto, si preparava la pasta a taianu (pasta nel tegame). Si tratta di ziti, ovvero lunghissimi maccheroni, solitamente spezzati, conditi con carne rossa, melanzane fritte in olio d’oliva, sugo di pomodoro, pecorino e basilico. La pasta, tirata a mano con uno stelo (busa o juncu) e poi stesa ad asciugare su una canna, era prima sbollentata e in seguito cotta a legna nel tradizionale recipiente di terracotta, con l’aggiunta di brace ardente sul coperchio del tegame. Per strada, invece, bambini e ragazzi adocchiavano o acquistavano dalle bancarelle dei venditori ambulanti (i loggi) torrone, ceci abbrustoliti e frutta secca (calia e simienza), ma anche palle e palloncini, trombette, fischietti e flauti (friscaletti). Entrambe le usanze sopracitate sono ancora assai in voga, anche se i gusti alimentari, ludici e musicali di piccoli e grandi cefaludesi sono in parte cambiati, adattatisi a tecniche e mode contemporanee.
Degli antichi eventi ludici che allietavano la festa resistono soltanto u jocu di pignati (il gioco delle pentolacce) e soprattutto a ‘ntinna a mari (l’antenna a mare). In passato, sul lungomare, sul molo o sul corso, il pubblico assisteva ad altre avvincenti gare, i cui principali protagonisti erano gli uomini della marineria. A cursa di li varchi (la regata), le gare di nuoto, le corse dei cavalli, l’albero della cuccagna terrestre, a cursa di sacchi (la corsa dei sacchi) sopravvivono soltanto nella memoria degli anziani. Alcuni di questi giochi competitivi sono sporadicamente riproposti in rare edizioni della festa, benché la maggior parte sia stata col tempo sostituita da altri divertimenti, come la roulette e il tiro a segno negli anni ’50 o i moderni spettacoli musicali e teatrali.
A ‘ntinna a mari, a Cefalù, è l’evento ludico-competitivo dell’anno. Gli abitanti, specialmente i pescatori, ne vanno particolarmente fieri. Lo spiega bene lo storico locale Domenico Portera, che allude al prestigio sociale ottenuto dai partecipanti alla gara, allo stesso tempo agonistica e spettacolare:
«Dalle mie parti si dice che la Festa del SS. Salvatore non avrebbe senso senza la ‘ntinna a mare; è come se volessimo strappare da un corpo un cuore e pretendessimo che il corpo continui a sopravvivere. In effetti la marineria di Cefalù, se non sul piano economico oggi come oggi, almeno sul piano affettivo, sull’identità, è il cuore della città […]. La ‘ntinna voluta dai nostri pescatori, da essi curata, organizzata e realizzata racchiude l’essenza stessa del legame uomo-barca, uomo-mare. […] non si dava inizio alla processione se prima non veniva ad esaurirsi la gara. […] per l’occasione, specie i più anziani ‒ (i giovani tengono alla forma per le centinaia di ragazze che li assistono) ‒ si bardano di vesti di donne, con ridicoli pigiami o con vestaglie delle loro mogli o sorelle. […] A volte la gara può durare per ore… Chi riesce a prendere la bandiera sottolinea la vittoria con il grido Viva il SS. Salvatore a cui fa coro tutto il popolo presente» (Portera 1984: 167-168).
La stessa icona cristiana che svetta tra le torri del Duomo, e che durante il regno di Ruggero costituiva lo stemma di Cefalù, è stampata sul vessillo da catturare durante il gioco della ‘ntinna a mari, in fondo al lungo palo (antinna) proteso sulle acque del molo e abbondantemente cosparso da sapone molle, olio di sarde e sivu, grasso suino che un tempo i marinai utilizzavano come lubrificante per tirare a secco le imbarcazioni. Vinta la divertente e suggestiva competizione, che prevede anche la presenza di travestimenti carnevaleschi con lo scopo di provocare il riso tra il vasto pubblico di tifosi, l’ambita bandiera è ostentata con orgoglio alla folla e gelosamente custodita in casa del trionfatore. Il rito di ascensione di questo albero della cuccagna per soli uomini di mare è interpretabile, per la presenza stessa degli elementi arboreo ed acquatico, come simbolo di rigenerazione del mondo naturale e dunque della vita umana, oltre che sovraumana (si pensi agli episodi biblici di Trasfigurazione e Resurrezione), ma anche alla stregua del mitico Albero cosmico o della Vita, axis mundi che mette in comunicazione il mondo terreno (l’uomo) con quello celeste (l’icona del Santo), nonché come prova di virilità e rito di iniziazione allo status sociale di maschio adulto in età da lavoro, pronto a oltrepassare la soglia che divide la casa e la barca, la terra dal mare, sotto lo sguardo augurale e protettivo della divinità. Dalla gara, infatti, sono escluse donne, bambini, ragazzi, forestieri e chiunque non sia discendente dai vecchi pescatori o marinai di Cefalù, portatore altresì di un determinato cognome. Mentre il pubblico incita e canzona gli equilibristi tramite ‘nciurie, lo speaker commenta la gara ripetendo da decenni gli stessi nomi (Provenza,Machì, Cefalù, Brocato, Gugliuzza, Papa e pochi altri) ai numerosissimi spettatori presenti in ogni anfratto terracqueo della Vecchia Marina. Valorosi uomini di mare come Santo Aquia e Sebastiano Cefalù sono ricordati dai concittadini, specialmente dai più anziani, per le loro decennali vittorie. Dell’antinna e dei suoi protagonisti, in paese, si parla tutto l’anno, a testimonianza dell’attaccamento dei cefaludesi a questa tradizione, vecchia probabilmente almeno tre secoli. Nonostante la bandiera di quest’anno rechi la scritta “232ª edizione”, appunto, è un’ipotesi assai credibile che il gioco dell’antenna sia diffuso almeno fin dal 1729, come attestato da un documento notarile del 1750 custodito presso la biblioteca del Museo Mandralisca. Il manoscritto, firmato da Nicolò Caruso, Regio Maestro «Notaro della Corte Giuratoria» di Cefalù, responsabile dell’erogazione dei finanziamenti per la festa del ss. Salvatore, fa riferimento, oltre alle «onze […] per far venire trombette da fuori», al denaro destinato all’acquisto di «polvere […] tanto per li bombardieri quanto per la milizia urbana», di «luminarie d’oglio e legna», di «palij della corsa alle volte per mare, e quasi ogn’anno per terra, e per opere, antenne ed altre spese minute di festino» (Caruso 1750). L’uso del termine «antenne», al plurale, lascia intuire che allora, in occasione dei festeggiamenti, si allestivano sia l’albero della cuccagna terrestre che quello acquatico. Oltretutto, gli anziani ricordano bene che in passato, per la festa patronale, erano diffuse entrambe le versioni del gioco e che si svolgeva un’unica gara per tipo di cuccagna, con un solo palo per competizione. Considerando infine che il funzionario Caruso si riferisce a pratiche già ampiamente radicate, si potrebbe dunque ipotizzare che la tradizione della ‘ninna a mari sia diffusa sin dai primi del ‘700, ovvero da almeno tre secoli, e che il numero dell’edizione stampato sulla bandiera da acchiappare non renda giustizia alla storia del gioco, probabilmente più vecchia di mezzo secolo e oltre.
Il 6 agosto, a partire dal tramonto, poco dopo la ‘ntinna, si svolge la solenne processione del Santo. Ma attenzione a non confondere la processione del 6 agosto, quella du Santissimu Sabbaturi, con quella del ‘Salvatorello’ o Sabbaturi nicu, che si snoda il 2 luglio in via Roma, partendo dalla chiesa del ss. Salvatore alla Torre, edificata negli anni ’70 a ridosso di una preesistente edicola votiva offerta al Santo in seguito all’epidemia di colera che nel 1834 minacciò la popolazione.
A pricissioni, dopo la Santa Messa, parte e si conclude o chianu, ovvero a piazza Duomo. L’uscita della statua del Cristo dal portale della basilica e la sua discesa dai gradini verso il piazzale sottostante, gremito di gente, sono rimarcate dai rintocchi delle campane e dal fragore dei fuochi pirotecnici. La folla applaude, mentre qualcuno acclama a gran voce «Evviva Gesù Salvatore!» e i fedeli rispondono in coro «Viva!». La discesa del fercolo e il suo giro per le principali vie del centro storico sono preceduti dal rullo dei tammurinara, che attirano l’attenzione della folla su ciò che di lì a poco accadrà. La vara è sontuosamente addobbata con fiori e il Santo, per aspetto e postura, ricorda il Cristo della Trasfigurazione di Raffaello. La scultura è un’opera di un artista locale del XIX secolo. In passato era portata in processione la reliquia della Santa Croce, costituita da un frammento della corona di spine del Signore. Il corteo è accompagnato dalle autorità civili, militari e religiose della città. A precedere il Sindaco e la Giunta comunale, circondato da quattro paggi in abiti tradizionali, è un mazziere, anch’egli in veste cerimoniale. Questo, originariamente servo di un magistrato, dal XVIII secolo porta in processione una preziosa mazza settecentesca in argento, simbolo di autorità, ieri della magistratura e oggi del governo. La mazza reca in cima l’immagine del Cristo Pantocratore, a testimonianza di una continuità ancora attuale tra le sfere religiosa e civile, sacra e profana. I membri delle antiche Confraternite religiose, che in passato per le loro azioni caritatevoli godevano di un certo prestigio sociale, indossano casacche dai diversi colori, ornate con medaglioni argentei o ricami dorati, e sfilano davanti il fercolo portando con sé croci, ceri e gonfaloni. Tra le soste della vara in alcuni punti strategici della città, come quelle dinnanzi a edicole votive, chiese, piazze e luoghi di ritrovo, è prevista quella a Porta Pescara, per la benedizione del mare e dunque dei suoi lavoratori. La banda musicale e uno stuolo di fedeli in preghiera, tra cui un folto gruppo di donne scalze per penitenza o grazia ricevuta, seguono il fercolo del Santo. Molti devoti preferiscono invece aspettare l’arrivo del corteo ai lati delle strade o dall’alto dei balconi. Si creano in questo modo, stretti attorno al Cristo, più gruppi di seguaci. Così, trovandosi momentaneamente l’uno di fronte all’altro, parenti, amici e conoscenti si vengono incontro e si salutano tra loro con gesti e brevi battute. Quello della processione è insomma uno spazio in cui la dimensione pubblica entra in comunicazione con quella privata. Terminato il giro del paese, i portatori ormai stanchi riportano la vara su per la gradinata e all’interno del Duomo. Poco prima di rientrare nell’edificio, la statua è nuovamente salutata al grido di «Evviva Gesù Salvatore!».
Chiude la festa u jocu i focu, spettacolare sia per grandezza e originalità dei fuochi artificiali, alcuni dei quali sono sparati dall’acqua, che per lo scenario nel quale sono inseriti, alla Vecchia Marina. La notte tra il 6 e il 7 agosto, infatti, a brillare insieme alla fragorosa masculiata sono le vecchie case dei pescatori e il numeroso pubblico sul lungomare, illuminati a giorno per pochi suggestivi attimi. Ad incorniciare lo sfavillante quadro provvedono le maestose torri del Duomo e la Rocca con la sovrastante croce metallica. Visti dalla spiaggia, i giochi pirotecnici si specchiano sulle acque del mare. Siano queste agitate o calme, sia presente o meno la luna, sia il cielo stellato o nuvoloso, creano un paesaggio luminoso ed un frastuono festivo difficile da dimenticare. Ascoltato l’inequivocabile boato finale, un’ultima volta il pubblico della festa applaude esaltato, mentre qualcuno acclama ancora «Evviva Gesù Salvatore!», rinnovando l’elogio di quel «Cristo Pantocratore che ammonisce, benedice, protegge e “domina” ogni atto della città: civile e politico, amministrativo oltre che religioso» (Portera 1988: 117-118), quel Santo la cui figura, sotto forma di stemma, mazza o bandiera, vede ancora congiungersi magistralmente mondo sacro e profano, capace di trasformare un piccolo porto del Tirreno in uno spazio festivo dai tratti allo stesso tempo locali e globali.
Dialoghi Mediterranei, n.9, settembre 2014
Riferimenti bibliografici
Buttitta, Ignazio Emanuele; Palmisano, Maria Emanuela (a cura di), Santi a mare. Ritualità e devozione nelle comunità costiere siciliane, Regione Siciliana, Soprintendenza del Mare, Fondazione Ignazio Buttitta e Folkstudio di Palermo, Palermo 2009.
Caruso, Nicolò, documento del 28 marzo 1750, Cefalù, Archivio storico Fondazione Mandralisca, sezione I, faldone I, n° 73.
Daniele, antivescovo di Cefalù, pergamena del 1157, Biblioteca Nazionale di Francia, t. 80, n° 225.
Diploma dell’archivio capitolare della Cattedrale Chiesa di Cefalù, volume primo, pp. 1-13, volume secondo, pp. 541-550, Archivio storico Fondazione Mandralisca, Cefalù [1212] 1734-35.
Maggio, Anita, Cefalù e le sue tradizioni, tesi di laurea, Università degli studi di Messina, relatore prof. Di Giacomo, anno accademico 1948-49, pp. 18-21.
Marino, Nico, Compendio di note, appunti, indicazioni e documenti sulla storia di Cefalù, Fondazione culturale Mandralisca, Citta di Cefalù, Archeoclub d’Italia, Cefalù 2005.
Portera, Domenico, Cefalù al di là della storia, La Bottega di Hefesto, Palermo 1984.
Portera, Domenico, Cefalù. Memorie storiche, La Bottega di Hefesto, Palermo 1988.
Portera, Domenico (a cura di), Il libro rosso di Cefalù, Publisicula editrice, Palermo 1989.
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Roberta Cortina, giovane laureata in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo, ha discusso una tesi, esito di ricerca sul campo, intitolata La cuccagna sul mare. Il gioco della ‘ntinna sulle coste siciliane. È interessata agli ambiti d’indagine relativi alla cultura del mare e ai processi culturali connessi alle dinamiche migratorie. Attualmente è impegnata nella raccolta di storie di vita nell’ambito di uno studio sulle attività del Terzo Settore.
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