di Alfredo D’Amato
“Fado negro” è un diario di viaggio. È l’insieme degli appunti presi da me, che nell’arco degli anni ho seguito una traccia – l’intreccio tra radici africane e cultura portoghese – in sei città a diverse latitudini: Maputo, Luanda, Salvador De Bahia, Praia, São Tomé e Bissau.
Una storia d’amore perché da queste città sono stato stregato. Mi sono fatto sedurre dal loro mistero, ho cercato di svelarlo senza riuscirci, tanto è profonda, densa, e intricata la loro sostanza. Tanto diversi sono i colori che brillano sotto il loro sole. Tanti sono gli spiriti che dormono nell’ombra delle cose.
“Fado negro” – che presto diventerà un libro – è la cronaca di una scoperta. Perché viaggiando, mi sono accorto di restare sempre allo stesso punto. A Salvador, il sapore del mango mi ha riportato a Maputo. A Maputo l’odore del dendè mi ha riportato a Luanda. A Luanda, la vibrazione del berimbau mi ha ricondotto a Salvador…
In ogni città, ho sentito risuonare gli echi dell’altra. I profili dei corpi, le rughe dei volti, la linea dell’orizzonte, le radici degli alberi si sono intrecciati nella mappa di un’anima comune.
Da secoli la loro gente guarda il mare dalla stessa prospettiva: quella di una città che da due altezze – la cidade baixa e la cidade alta – si affaccia su una baia che abbraccia l’oceano.
Il loro porto ha visto approdare le stesse navi: quelle dei colonizzatori portoghesi prima, quelle dei mercanti di schiavi poi. Nella loro terra sono germogliati gli stessi semi: la palma e il mango, la manioca, la canna da zucchero e il cacao. Nel loro cielo hanno dormito gli stessi santi, che resistendo a evangelizzazioni, totalitarismi e progresso ancora oggi governano anime e ispirano preghiere.
Nella loro pelle c’è scritta la stessa Africa: non solo un continente, non solo un colore, ma quel complesso insieme di storia, cultura, tradizioni, linguaggi, modi di rappresentarsi, che compone un’identità.
Proprio dalla pelle e dall’identità degli uomini, dalle loro facce consumate come il cuoio o levigate dal sole come l’ebano, ho iniziato per fotografare – attraverso le immagini su pellicola – la storia di chi oggi respira, si affanna, combatte, sorride, ama, piange e spera in queste città.
E sulle rughe e sui sorrisi di chi le abita, proverò a leggere il futuro di Brasile, Angola, Mozambico, Capo Verde, São Tome, Praia e Bissau: sette Paesi con una grande storia alle spalle e con un grande futuro davanti; per comprendere meglio la relazione che c’è tra ciò che è stato e ciò che sarà, per capire cosa resta di un doloroso passato e quale ruolo questi Paesi avranno, domani, nell’orizzonte del mondo.
Questo progetto che si delineò durante il primo mio viaggio in Africa, in Mozambico, due mesi del 2007 trascorsi a Maputo fra cultura autoctona e testimonianze del colonialismo portoghese. Di quel vastissimo impero i cui potenti – così come gli spagnoli – dicevano che non tramontava mai il sole.
Quindi sono ritornato nella mia Africa diverse altre volte, sia negli stessi luoghi sia in Paesi nuovi, dove facevo fatica a identificare le differenze dagli altri già visitati. E mi sono trovato sulle rotte dei negrieri: nei porti e angiporti si sente ancora l’eco di due secoli di capienti stive affollate di gente improvvisamente rubata alla libertà.
Quelle rotte portavano a San Salvador de Bahia, stato di Bahia, in Brasile. Primo sbarco dei conquistatori portoghesi e delle navi negriere. Infatti San Salvador è il punto più nero del Brasile, cioè dove c’è una prevalenza di cittadini negri. Da Bissau a San Salvador la più antica tratta oceanica grazie alla penetrazione in Brasile dei portoghesi.
Oggi di questi sradicamenti rimane una cultura dagli aspetti molteplici: a San Salvador la maggior parte dei neri sono seguaci del Condomblè, una religione ancora viva in Africa nella quale hanno posto spiriti e sacerdotesse che custodiscono i riti, ma che nel sincretismo popolare danno posto anche alla Madonna, a San Francesco e altre figure del cattolicesimo.
In questa serie di fotografie – difficili da assegnare ad ognuno dei sei Paesi in cui sono state scattate, così simili sono colori, edilizia, l’oceano, i vestiti e i volti della gente – le stesse profonde rughe che sembrano voler raccontare più di una vita.
A San Salvador ho fotografato una donna molto anziana: una Mãe-de-santo, sacerdotessa condomblè della confraternita Irmandadeda Boa Morte (fratellanza della buona morte), figlia di schiavi portati dalla Guinea Bissau. Ricordo che la persona che mi accompagnò all’incontro davanti a lei si inginocchiò, genuflettendosi sino a toccare con la testa il pavimento. Aveva 105 anni e la chiamavano Mãe Filinha che possiamo tradurre come Madre e figlioletta. Una persona che ispirava reverenza, raccontava di sua nonna legata a un carro come un mulo, su un percorso di 200 chilometri, dei suoi genitori, schiavi nelle piantagioni dell’interno: la canna da zucchero, il cacao, il mango, la manioca.
Nella musica di allegria, ma anche di tristezza, si avverte un sottofondo lontano del fato, con il sentimento portoghese della saudade, e racconta temi di emigrazione, di lontananza, di separazione, dolore, sofferenza. Ecco, un fado negro.
Questo mio “work in progress” prevede qualche altro viaggio nei sei Paesi che ho scelto e visitato più volte, ma sto aspettando che si dissolva il senso di confusione dal quale mi sento pervaso. Le uguaglianze che confondono le coordinate geografiche, le apparenti sovrapposizioni che ti fanno dubitare: ma sono a Praia oppure a São Tomé o, ancora a Luanda?
Forse si tratta di un aspetto del mistero che avvolge questa cultura afro-portoghese, nella quale ci sono residui del colonialismo del grande impero lusitano, del dolore dello schiavismo, e delle culture native di questi popoli dal volti segnati da rughe insondabili.