L’Unità nazionale non la garantisce Garibaldi e nemmeno la Resistenza, perché i conti finali con il nazi-fascismo li hanno fatti in Germania ma non da noi – e poi c’è sempre chi ritiene che sia stata una lotta di liberazione guidata dai comunisti, dimenticando gloriosi comandanti monarchici, mentre per altri, per lo più nostalgici, fu guerra civile – forse la Nazionale di Bearzot ce la fece, forse “la più bella” Costituzione del mondo ci unificò idealmente e non solo, ma neppure il festival di Sanremo perché una minoranza spegne la tv. È predisposto e abituato a spaccarsi in due il Paese nostro, come nel referendum repubblica-monarchia o nel ventennio berlusconiano che non è mai del tutto finito, uno Stivale che insegue l’Unità sin dai tempi dei Comuni e non l’ha mai del tutto trovata. Siamo uno Stato unitario diluito in un arcipelago di usanze e dialetti, tanto che un uomo di Ortisei e un coetaneo di Castelbuono si approcciano come stranieri, pur avendo in tasca la medesima nazionalità.
Ma c’è un momento in cui l’Italia tutta guarda in un’unica direzione, quando compare, nella tarda primavera-estate il doppio anniversario di Falcone e Borsellino. Davanti a queste due figure, ormai leggendarie, di italiani, le differenze e i distinguo cedono, non c’è più destra e sinistra, non c’è retropensiero, subentra rispetto e ammirazione anche silenziosa. Non c’è discussione, tranne in quegli ambienti contigui a Cosa nostra e agli apparati deviati dello Stato che ne vollero la morte, tranne nella polemica intemerata giustizialisti-negazionisti, che ha creato un fossato di incertezze nella coscienza generale, tra chi vorrebbe, ed è in grande maggioranza, che vengano individuati e condannati i mandanti esterni e i complici, e chi, anche dagli scranni universitari, è certo che la guerra allo Stato non ebbe complici istituzionali o nella grande industria o all’estero, che associazioni segrete come la P2 di Gelli o la Gladio, creatura atlantica, non furono altro che gruppi di pressione, club esclusivi e conviviali come il Rotary.
E c’è anche retorica. Da trent’anni è così e ne conseguono cerimonie e sfilate, convegni e dichiarazioni. Soprattutto, libri e ne sono ricolmi, mai come in questi mesi, i banconi delle librerie, nell’intento di ricostruire la storia di una delle fasi più tragiche del Paese, sino al 1992, trent’anni fa, con la fine predestinata di Falcone e Borsellino, l’11 Settembre italiano, lo definì Andrea Camilleri, crollarono come le torri di New York i nostri giudici-gemelli. Tanti i titoli pubblicati intorno al trentennale, non tutti di qualità, alcuni solo per fare cassetta nell’emozione dell’anniversario. Proviamo a vederli da vicino, almeno quelli di sicuro interesse e validità storica e d’inchiesta.
Ma il “libro”, se così si può dire, più corposo, tremila pagine, è uscito il 6 agosto e motiva la sentenza di appello con la quale undici mesi prima erano stati assolti gli ufficiali del Ros e Marcello Dell’Utri, il braccio destro di Berlusconi. La Trattativa con Cosa nostra ci fu, ma a fin di bene, afferma la corte, per scongiurare nuove stragi. Anche se il Paese dovette subire in seguito via D’Amelio e le bombe di Roma, Milano e Firenze dell’anno dopo. Ha sancito difatti la corte dell’appello di Palermo che c’è una “mafia buona” con cui non è reato dialogare o venire a patti al fine di evitare guai peggiori. La mancata perquisizione del covo di Totò Riina, poi ripulito dai “picciotti” e persino imbiancato, rappresentò un segnale di disponibilità, come la rinuncia alla cattura di Bernardo Provenzano, episodio che costò l’uccisione dell’ex boss Luigi Ilardo, il quale portò i carabinieri al covo di “Binnu”. Dopo anni in carcere, Ilardo vuole cambiare vita. Accetta di trasformarsi in un infiltrato e fa arrestare sette mafiosi di calibro. A quel punto decide di svoltare e sottoporsi a un programma di protezione, pochi giorni prima verrà ucciso a Catania. «Sarebbe stata la collaborazione più importante dopo quella di Buscetta – disse in aula il pm Nino De Matteo – Ilardo preannunciava rivelazioni su alcuni omicidi richiesti da uomini delle istituzioni». Fu certamente “venduto” da chi doveva proteggerlo e consegnato al diavolo.
Esulta il quotidiano Il Riformista: «La Trattativa non ci fu. [...] furono gesti di grande umanità e di generosità finalizzati a fermare vite umane». Si indigna Roberto Scarpinato. La motivazione della sentenza legittima il «dialogare con la mafia, conviverci» e «su via D’Amelio viene preclusa una ricostruzione che chiama in causa apparati deviati dello Stato», scrive il magistrato solo da pochi mesi ex procuratore generale a Palermo. Il regista e autore palermitano Pierfrancesco Di Liberto, in arte Pif, è senza più forze: «Io sono ottimista, ma per la prima volta dico che è finita. Crolla tutto il castello di valori che abbiamo costruito. Scriverò alle scuole che mi hanno invitato per dire che non andrò, non saprei cosa dire».
Appunto, cosa dire? I nostri migliori autori di cose di mafie hanno ancora molto da dire a trent’anni di distanza, perché la storia è ancora tutta da scrivere. Piero Melati, giornalista nato a L’Ora e poi nel gruppo Repubblica, acquista la fiducia della famiglia e pubblica il suo Paolo Borsellino. Per amore della verità (Sperling & Kupfer), come un libro a più mani e a più voci, come un giallo letterario senza colpevoli, che collega con maestrìa fili, accadimenti, che svela retroscena, che lascia finalmente parlare i tre figli Lucia, Manfredi e Fiammetta, soprattutto la più giovane, la coccolata dal papà, i membri di una “famiglia reale” – a lungo in silenzio, poi al centro di polemiche, persino in casa, con lo zio Salvatore – una famiglia per lunghi anni incredibilmente trascurata, zittita, persino umiliata dalla prova delle impronte sulla famosa borsa privata dell’agenda rossa. Fiammetta finalmente parla, alza la sua voce, spiega il suo incontro in carcere con i fratelli Graviano, carnefici del papà, ed è il suo atto d’accusa verso quella parte torbida delle istituzioni, da Roma a Palermo, mai condotta in un’aula di tribunale, che non ha protetto il magistrato e la sua squadra, che è stata mandante o complice della strage di via D’Amelio.
Quanto fossero isolati e predestinati i martiri di Palermo lo si comprende da una fotografia descritta quasi subito da Attilio Bolzoni, uno dei migliori cronisti sempre in campo, nella nuova edizione di Uomini soli (Zolfo editore). Arriva da giovanissimo cronista in piazza Generale Turba, era il 30 aprile 1982. La scena è agghiacciante: una gamba del deputato Pio la Torre, segretario regionale del Pci, capopopolo dei contadini durante le occupazioni delle terre, riferimento del movimento pacifista contro i missili Nato a Comiso, penzola dal finestrino dell’auto crivellata di colpi. Al posto di guida il corpo insanguinato dell’amico e compagno Rosario Di Salvo.
«Quella mattina sono anch’io là, con il taccuino in mano e il cuore in gola. Saluto Giovanni Falcone, saluto Rocco Chinnici, non ho il coraggio di guardare Paolo Borsellino (…) mi avvicino al commissario Cassarà e gli chiedo: “Ninni, cosa sta succedendo?” Mi risponde: “Questa è una città di cadaveri che camminano”».
Dieci anni dopo, la profezia del futuro capo della Mobile, falciato da un commando nell’agosto 1985, si è totalmente avverata. Quel gruppo di famiglia in un esterno, tra i migliori inquirenti di giustizia e di polizia forse del mondo, ripreso dal fotografo Franco Lannino quando si accostarono al muro, fu eliminato, uno dopo l’altro, con grande “scruscio” – tre con autobomba e tritolo sotto l’autostrada, Cassarà sotto casa da un commando in assetto militare e armi da guerra.
«L’Italia, a onta del suo aspetto bonario, leggero, spensierato è – diceva Norberto Bobbio – un Paese terribile che non rifugge dal delitto politico». Una sequenza interminabile ha insanguinato l’Italia, sempre senza colpevoli, sempre accompagnata da depistaggi.
Da Portella della Ginestra a via D’Amelio. Con I nemici della giustizia, (Rizzoli), Saverio Lodato, altro nome importante, altro palermitano se non di nascita di impegno e di lavoro – torna ad intervistare il pm Nino De Matteo, dopo Il patto sporco, per affrontare i mali della giustizia e gli ostacoli apposti dal sistema politico al suo corretto funzionamento.
Filosofo e teologo costruttore di comunità di base e con il talento di saper comunicare con i più giovani, Augusto Cavadi, prolifico autore qual è, è tornato in libreria con Quel maledetto 1992 sempre per i tipi Di Girolamo, dopo i fortunati Il Vangelo e la lupara e Il Dio dei mafiosi. Il pensatore palermitano fa un bilancio della storia dell’antimafia in Italia e propone una strada per vincere in modo definitivo la battaglia secolare contro il crimine organizzato e il malaffare.
Ci spostiamo a Milano con Giovanni Bianconi, storico inviato del Corriere della Sera, e il suo Un pessimo affare (Solferino), ricostruzione autorevole di quegli anni da parte di un testimone del tempo. Con Al di sopra della legge (Solferino) il magistrato catanese Sebastiano Ardita, oggi membro del Csm, accolto sempre da grande folla ai suoi incontri, racconta la mafia dietro le sbarre, forte dell’esperienza di nove anni al vertice del Dap, il dipartimento penitenziario. Giuseppe Lo Bianco, cronista di nera e giudiziaria di antica scuola, sempre in coppia con la collega Sandra Rizza, svela particolari inediti in Dietro le stragi (PaperFirst). Con Giovanni e io (Chiarelettere) si entra nel privato del giudice più famoso e amato del mondo, tramite l’amicizia e il lavoro comune del sociologo Pino Arlacchi che ha ricoperto a livello internazionale (Onu e Ue) ruoli apicali nel contrasto e nello studio delle mafie.
Un ambito a parte sono i romanzi a tema mafia, sbocciati negli ultimissimi anni. Gli autori sono cronisti di nera e giudiziaria, che hanno sempre raccontato fatti più che storie, sempre con linguaggio e argomenti da terzietà, imparziale, e che ora si lanciano in mare aperto intrecciando cronaca e immaginazione letteraria. È il caso di Enzo Mignosi, autore di A doppia mandata e di Sandra Rizza, Nessuno escluso, entrambi editi da Ianieri, nella collana “Le dalie nere”, diretta da Raffaella Catalano e Giacomo Cacciatore, che nella vita sono moglie e marito.
Non è mancato all’appuntamento Roberto Saviano con Solo è il coraggio (Mondadori), la vicenda di Giovanni Falcone come un romanzo attraverso testimonianze e documenti anche inediti.
Per finire, le donne. Graziella Proto, direttrice del mensile Le Siciliane, testata germinata da I Siciliani di Pippo Fava, del quale è stata stretta collaboratrice, si occupa, assieme alle colleghe Giovanna Cucé e Nadia Furnari, della “settima vittima” di via D’Amelio, Rita Adria, la ragazza del Trapanese di famiglia mafiosa, testimone di giustizia, che si suicidò dopo la morte di Borsellino, perché perse ogni speranza di futuro, sola, quindi abbandonata in un appartamento romano.
In Io sono Rita (Marotta e Cafiero), appaiono per la prima volta misteri e circostanze ambigue che circondano la fine della diciassettenne, responsabilità pubbliche non ancora chiarite. Infine, la bagherese Francesca La Mantia che ha imboccato una strada vincente per raccontare ai bambini le vicende tragiche ed epocali del Paese, affiancate da illustrazioni. Con questa felice formula è spesso in tour, invitata dalle scuole di tutta Italia. Dopo il fascismo, ecco la mafia raccontata ai bambini ne La mia corsa, storia di un “picciriddu” dei quartieri palermitani che cambia vita e prospettive dopo il casuale incontro con il giudice Rocco Chinnici e il capo della Mobile Ninni Cassarà.
Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre 2022
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Antonio Ortoleva, ex giornalista del Giornale di Sicilia, già direttore e co-fondatore del periodico antimafia “Il Quartiere nuovo” di Palermo e docente di giornalismo a contratto presso l’Università di Palermo. Autore di reportage di viaggi, del volume C’era una volta l’India e c’è ancora, Navarra Editore, e più recentemente dello stesso editore Non posso salvarmi da solo. Jacon, storia di un partigiano.
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