La biografia antropologicamente più interessante è senza dubbio l’autobiografia. Narrare è consustanziale alla natura umana. Narrare di sé, della propria vita, è quanto gli antropologi hanno da sempre chiesto agli altri, ai soggetti delle proprie ricerche, pur lasciando poi sistematicamente fuori dalle loro pagine modi, tempi, contesti e tecniche di queste metodologie, dell’esperire di queste storie. Lungamente rimosse e oscurate, queste narrazioni che costituiscono il nerbo intimo delle etnografie hanno finalmente trovato spazio e riconoscimento nelle scritture dell’antropologia ‘riflessiva’, nel ripensamento e rivalutazione di quelle note di campo che registrano dati personali, relazioni interpersonali, memorie sentimentali e approcci emozionali solitamente espunti nelle monografie canoniche dalla censura preventiva dell’autonascondimento, perché ritenuti materiali grezzi, elementi di emicità non sufficientemente scientifici.
Cadute le certezze epistemologiche e ridimensionate le ambizioni di costruzione di un sapere onnisciente e totalizzante, l’autobiografia è entrata nella storia dell’antropologia con il suo patrimonio di oralità e soggettività, con il suo complesso articolarsi tra fabula e intreccio, tra la materia narrata e la forma del discorso. Raccontare una vita, fare della vita il campo, il testo, l’oggetto e il soggetto ermeneutico dell’incontro etnografico significa in fondo recuperare all’antropologia lo studio dell’uomo nella sua singolarità e totalità di corpo, cognizioni e immaginazioni, nei suoi diversi modi di dare ordine e senso al mondo vissuto e rappresentato. Ecco perché le storie di vita, se da una parte sono esemplari di un unicum quale è indiscutibilmente l’esistenza di ciascuno individuo, dall’altra sono destinate a tracimare il vissuto fattuale e personale essendo testimonianze di spaccati sociali, documenti di rappresentazioni collettive, frammenti di milieu culturali. Così che attraverso il racconto il discorso sull’uomo diventa discorso sugli uomini, in piena consonanza con le istanze ultime dell’antropologia.
«Nessun racconto è naturale, – ha scritto Tzvetan Todorov (1995: 24) – una scelta e una costruzione presiederanno sempre alla sua formazione; è di un discorso che si tratta, non già di una serie di accadimenti». Vale per tutte le storie di vita, per quelle che l’antropologo ascolta, registra e studia e anche per quelle che l’antropologo racconta – indirettamente o direttamente – narrando dell’altro o narrando di sé. Narrare è sempre, nella pratica quotidiana come nelle scritture formalizzate, un mettere in comune, un tessere relazioni, un disporsi al ricordare e al riconoscersi, un esercizio di oggettivazione e di presentificazione. Ogni autobiografia è in fondo l’inestricabile intreccio di memoria e racconto e in quanto tale assume una dimensione mitopoietica e un ruolo di particolare rilevanza in antropologia come in tutte le scienze sociali.
A guardar bene, il paradigma narrativo, oggi declinato in molta saggistica nel segno di un rimescolamento dei saperi e dei generi e sulla scia di una generale ibridazione e commistione dei registri di scrittura, si è accompagnato nel dibattito antropologico degli anni ottanta e novanta del secolo scorso alla crisi della rappresentazione etnografica e alle questioni aperte sulla messa in forma testuale degli studi. Da qui la cosiddetta “svolta retorica”, la critica alla presunta oggettività scientifica che lasciava nell’ombra la presenza dell’etnografo e la riscoperta del suo ruolo autoriale fino a farne, in alcuni casi, il nuovo originale narratore della modernità. Sia diario o biografia intellettuale, ricognizione o introspezione, la scrittura, che ribalta l’Altro nell’io, diventa veicolo di autoanalisi nel farsi stesso della ricerca guadagnando una centralità epistemologica nella più avvertita consapevolezza della sua natura eminentemente letteraria.
Quando l’oggetto della narrazione è lo stesso soggetto narrante, quando l’antropologo è l’autore della narrazione e scrive la sua autobiografia ai confini con il genere letterario, quello che nel lavoro empirico sul campo rappresenta un efficace strumento investigativo per avvicinarci alla comprensione dell’Altro diventa un prezioso sguardo da insider, una sorta di metaetnografia, una formidabile chiave di lettura per capire le tecniche e l’etica delle esperienze di ricerca, le criticità e le epifanie, i risvolti umani legati alle fragilità esistenziali, ai dubbi, ai disagi, agli interrogativi irrisolti, alla condizione di spaesamento, ovvero a quel “disancoramento cronico” denunciato da Lévi Strauss. Si alza il sipario sul dietro le quinte, su schegge di vita privata e aspetti inediti del mestiere, su storie imbarazzanti o sorprendenti, sulla processualità e le dinamiche dei rapporti sperimentati e delle forme del dialogo tentato o intrapreso.
Dai Diari postumi di Malinowski a quelli nel Marocco di Paul Rabinow, dall’autoetnografia di Paul Radin ai Tristi Tropici, per citare solo alcuni esempi rappresentativi di epoche diverse, l’antropologia postcoloniale ha dialogato con la letteratura, raccontando esperienze materiali e accidentali del livello quotidiano della ricerca, aprendo la strada nelle monografie alle storie di vita che incrociano i destini di chi narra e di chi ascolta, dando voce al “non detto” metodologico e alla soggettività dello stesso autore che si fa scrittore. In questo contesto si può collocare il volume di Ulf Hannerz, Il mondo dell’antropologia pubblicato poco più di dieci anni fa in Italia (2012), che circumnaviga la storia e la geografia della disciplina e ne descrive traiettorie e sfide della contemporaneità muovendo dalla sua personale biografia intellettuale, dalla sua prospettiva di studioso attore e protagonista sul proscenio di queste vicende. Più recentemente, negli anni 2017-18, la rivista semestrale Erreffe. La ricerca folklorica ha dedicato due numeri (72,73) alla “Autobiografia dell’antropologia italiana”, raccogliendo le testimonianze di diversi studiosi chiamati dai curatori Gianni Dore e Glauco Sanga a ricordare e ricostruire relazioni, connessioni ed evoluzioni del proprio percorso curriculare così da tracciare le linee della storia collettiva della disciplina. Dal dialogo tra voci, scuole, approcci e orientamenti diversi è scaturito un bilancio critico e autocritico dell’antropologia così come è stata appresa, praticata e insegnata nel nostro Paese.
«Si inserisce nel filone dei resoconti autobiografici legati alla ricerca sul campo e si ispira a capostipiti dell’etnologia come Hortense Powdermaker, Laura Bohannan, Claude Lévi-Strauss, Paul Rabinow, Alma Gottlieb, Harry West o Roy Willis» – come l’autrice Heike Behrend dichiara nell’introduzione – il volume, La scimmia in bermuda. Autobiografia spietata della ricerca etnografica, edito in Italia da poche settimane da Bollati Boringhieri. Un libro che si legge come un racconto ma si rilegge come uno studio di questioni e temi assai sensibili del fare e del ripensare l’antropologia. Una vita con le sue intense esperienze di incontri, di relazioni, di tensioni e di emozioni, di successi e di frustrazioni, un’esistenza di donna e di studiosa retrospettivamente ripercorsa e tradotta nella scrittura di un memoir, nella riscrittura di storie umanamente e scientificamente partecipate ma anche ironicamente ripensate. «Storie – scrive l’antropologa tedesca – ingarbugliate nient’affatto eroiche, di equivoci culturali, conflitti ed errori verificatisi durante le mie ricerche sul campo nell’Africa orientale». Aspetti, fatti e concetti marginali e irrilevanti nelle monografie accademiche e che valgono invece a decostruire i miti di certa letteratura etnografica, trionfante di successi e di certezze.
Nel mettere insieme i ricordi del suo lavoro svolto per quasi mezzo secolo in Africa, Heike Behrend dimostra che i fallimenti sono una parte essenziale dell’attività etnografica e che sul malinteso, frequente pietra d’inciampo degli incontri, si costruiscono le conoscenze più profonde che scaturiscono da quella accidentale incomprensione data dalle differenze destinata a risolversi nelle dinamiche della contiguità conflittuale e della reciprocità dello scambio. Accade, in fondo, per le culture quello che Calvino (1993: 66) osservava per il linguaggio che vive e si rinnova quando non smussa le punte espressive, quando non spegne «ogni scintilla che sprizza dallo scontro delle parole con nuove circostanze». Tutto il libro racconta “le scintille” accese nei contatti, a volte casuali, nelle interazioni, spesso “collisioni”, e nel dialogo, impervio per l’asimmetria dei ruoli e le necessarie mediazioni linguistiche, tra l’autrice e i soggetti delle sue indagini: «le energie produttive che può sprigionarsi anche dagli insuccessi», «le esperienze abbastanza destabilizzanti che rendono possibile una comprensione del diverso». A cominciare dal nome – “scimmia” – col quale era chiamata l’etnologa berlinese dagli abitanti delle colline di Tugen nel Kenya nord-occidentale, quando vi giunse nel 1978. Nella loro cosmologia era assegnata alla categoria degli estranei, dell’alterità primitiva: il paradossale rovesciamento – quasi un contrappasso – dei processi occidentali di tassonomia, un gioco di specchi e di sguardi incrociati, che ci fa scoprire di essere osservati mentre osserviamo, di essere agiti mentre agiamo. E nella lunga storia coloniale e postcoloniale la scimmia è figura simbolica che migra da un fronte all’altro, da colonizzati a colonizzatori.
«Quando i più anziani sulle colline di Tugen mi chiamavano “scimmia”, un simile epiteto non si riferiva soltanto alla mia condotta impacciata, selvaggia e scimmiesca, come avevo ipotizzato all’inizio, ma era anche una replica alle umiliazioni e alle discriminazioni da loro stessi patite in epoca coloniale».
“Etnografia inversa” è definita dalla stessa autrice questa autobiografia che trasforma la protagonista e la narratrice del testo in oggetto dei soggetti osservati, nella descrizione di come essi la vedono, di come la chiamano. L’io della studiosa s’intreccia a quello degli altri, dei tanti uomini e donne incontrati sul campo, così che le storie individuali si contaminano e si rimescolano dentro un circuito di riflessività, un efficace rapporto di mutualità. Nelle 200 pagine del libro pochi sono i cenni alle sue vicende meramente private concentrandosi piuttosto su quanto accaduto durante le ricerche, sui cinquant’anni di viaggi e ripetuti soggiorni tra Kenya e Uganda, sulle ingenuità e sulle incomprensioni, sulle fortuite e felici esperienze e sugli irriducibili e fecondi contrasti, sui cambiamenti postcoloniali nelle strutture del potere e nel sistema delle rappresentazioni. Un racconto schietto e una postura critica con se stessa estranea a quel mondo e perciò attenta a spiegare e chiarire il contesto di ruoli e relazioni dentro il quale hanno preso corpo e forma i progetti scientifici dei suoi libri, tra tortuosi percorsi fatti di vicoli ciechi, pericolosi attraversamenti, improvvisi ripensamenti e faticosi ricominciamenti.
Tra la stampa di un libro e la successiva Heike Behrend è tornata ogni volta nei luoghi delle sue indagini, si è confrontata con gli abitanti, ha dialogato con loro nel tentativo di invertire lo sguardo e di «decolonizzare il lavoro etnografico». La studiosa ha infatti avuto modo di interrogarsi e riflettere sulle questioni dell’intertestualità e sulle problematiche cruciali delle eredità coloniali nel dibattito antropologico, sulla distanza tra le immagini etnografiche di reificazione esotizzante dell’Africa e le «molteplici modernità» nate dai processi di penetrazione e indigenizzazione del fenomeno della globalizzazione che non ha prodotto passiva assimilazione e omogeneizzazione da parte delle popolazioni quanto piuttosto frammentazioni e differenziazioni, antinomie e paradossi, antichi miti e nuove critiche. Scorre parallela alla biografia della ricercatrice tedesca la storia stessa della disciplina, la sua inquieta identità, le mobili frontiere dei suoi saperi tradizionali. Tanto più che nel suo ricercare e studiare gli “altri” l’etnografa finisce con l’imbattersi nelle memorie degli “altri” etnografi che prima di lei avevano percorso le stesse strade del continente nero. «La loro presenza aveva lasciato tracce nei soggetti osservati», annota. Un cortocircuito di sovrapposizioni e di rappresentazioni che offre un inedito scandaglio conoscitivo delle contraddizioni interpretative e degli equivoci culturali generati intorno ai concetti di tribù, etnie, etnicità, cannibalismo, stregoneria, etc. Della stessa ambigua e onnicomprensiva definizione semantica del postcolonialismo è criticamente riletta la complessa dimensione del “post”, ovvero delle rinnovate forme di dipendenza e di oppressione.
Questi fenomeni e modelli culturali Heike Behrend ha a lungo studiato sfidando e violando i confini della sua identità di antropologa e di donna bianca europea. In Kenya, sulle colline di Tugen, dove ha lavorato dal 1979 al 1985, ha assistito e partecipato ai rituali di iniziazione, alle credenze attribuite alle ombre degli spiriti, al ritorno dei morti nel mondo abitato. Qui i nomi pure molteplici sono più longevi delle persone che li portano reiterandosi eguali per generazioni. Essi vincolano i nascituri agli antenati e secondano la concezione ciclica del tempo, l’ordine della Storia fondato sulla circolarità degli eventi. Sui corpi degli uomini e delle donne è iscritta, con perforazioni, circoncisioni, tatuaggi e cicatrici, non solo la vita individuale ma anche la biografia sociale, dal momento che «il loro “Io” apparteneva in primo luogo agli altri». Le ombre proiettate dai corpi sono parte della persona e in quanto tali non possono essere toccate né calpestate. Da qui l’idea della fotografia come ombra materializzata, congegno magico che rapisce o divora le anime dei fotografati. Una interpretazione che l’autrice rilegge in controluce negli studi da Frazer ad oggi per decostruirne i significati primitivi e dimostrare la corrispondenza per certi aspetti incestuosa tra l’etnologia e la fotografia, se è vero che quest’ultima è stata introdotta in Africa, durante l’epoca coloniale, da viaggiatori, missionari, ricercatori e funzionari amministrativi in maniera estensiva «per classificare, tipizzare, immaginare e dominare i suoi abitanti (proprio come si faceva in Europa per i matti e i criminali)». Un connubio che nella sua pratica antropometrica – come ha scritto recentemente Antonello Ricci nel suo bel libro Sguardi lontani (2023: 10) – costituì «un peccato originale che si distese come un’ombra sulla storia della ricerca antropologica, perpetuandosi a lungo anche con episodi violenti», «un atto di dominio volto a reificare la dignità della persona».
Heike Behrend, nel ribadire la rovinosa connessione tra sorveglianza e controllo coloniale e fotografia antropologica, sottolinea come al tempo stesso l’uso del prodigioso apparecchio tecnico abbia alimentato la cultura della magia, dell’incantesimo e dell’illusione. Nella sua ricognizione sul campo la studiosa, che si è rifiutata di fotografare e ha deciso di comprare o acquisire immagini presso laboratori locali, ha verificato i rapporti di lunga durata che le popolazioni intrattengono con la produzione e il consumo delle fotografie e in specie dei ritratti, ritenuti al pari delle ombre come una parte o un’estensione della persona immortalata. Così la loro vendita nel fiorente mercato del collezionismo etnografico è possibile solo dopo che l’acquirente ha guadagnato la fiducia del possessore e con lui si fa fotografare: uno scambio di immagini che sancisce il patto di alleanza nelle relazioni tra chi compra, chi vende e il soggetto ritratto.
Alle sue esperienze fotografiche sulla costa dell’Africa orientale l’antropologa dedica un denso capitolo del libro, passando in rassegna storie di fotografi di strada che si servono del mezzo per inserirsi negli interstizi del turismo di massa, ne descrive gli studi che con «fondali dipinti, arazzi turchi, animali di pezza, cartelli, fiori di plastica e ghirlande made in China» creano un mondo globalizzato, una modernità africana ibridata o spogliata delle sue tradizioni, una sorta di feedback transculturale che traduce e riplasma il linguaggio dei media occidentali. Nell’uso popolare la fotografia conserva un rapporto elettivo con i morti e di essi ricompone la biografia in una narrazione per immagini che ne celebra e commemora le relazioni, il prestigio, i poteri. In questo moderno culto degli antenati la fotobiografia, distribuita a tutti i partecipanti al funerale e custodita dai familiari, disegna e riproduce una vera e propria mappa sociale con le posizioni e le gerarchie occupate dal defunto. Qualcosa che assomiglia, almeno in parte, ai certi necrologi figurati diffusi nei nostri paesi.
Nell’Uganda settentrionale negli anni 1987-1989 e poi dieci anni dopo, nel 1997, nella regione occidentale Heike Behrend si è fisicamente immersa nei riti di possessione e nelle pratiche della stregoneria e del cannibalismo. Nel territorio dominato dalla savana e dalla boscaglia in mezzo alla guerra civile che ha coinvolto le missioni cattolica, anglicana e i seguaci musulmani, l’antropologa si è avvicinata al movimento Holy Spirit di Alice Lakwena che combatteva contro l’esercito governativo. Ne ha raccolto le voci, le utopie salvifiche, le contraddizioni politiche. Ne ha sperimentato soprattutto le sedute spiritiche di possessione a cui ha partecipato abbandonandosi alla confidenza altrui dell’ignoto, pur restando sulla soglia per non perdersi del tutto. «In un certo senso mi lasciai catturare dalla loro arte e fui posseduta dalla loro possessione», scrive. Riconosce nell’oscura sequenza delle fasi di spersonalizzazione e di annullamento del medium nello spirito evocato qualcosa delle performance teatrali, delle metamorfosi e del trascendimento dell’io nelle misteriose e creative possibilità di diventare un altro entrando nel corpo di un altro.
Durante la crisi dell’Aids a Toro, nell’Uganda occidentale, con l’epidemia si diffuse la caccia al cosiddetto stregone cannibale, una figura dal potere immaginario generata dal terrore quotidiano, dalle paure incontrollate dell’apocalissi. «A Toro – ammette la studiosa – dovetti confrontarmi con condizioni sociali di disintegrazione e disperazione tali da farmi abbandonare per sempre l’idea un po’ ingenua dell’etnologia come scienza che intende preservare un potenziale utopico positivo». A fronte di questo scenario l’inverosimile dei racconti di stregoneria e cannibalismo trova spazio nelle narrazioni della Chiesa cattolica che assume i caratteri di un movimento carismatico o pentecostale e guida la lotta contro streghe e cannibali con il ricorso alla prassi dell’esorcismo. La verità è che nella cosmologia come nella organizzazione sociale della popolazione ugandese la figura del cannibale si spiega nella logica dello scambio di cibo che assicura la vita e la saldezza della comunità: «tanto i mangiatori quanto i mangiati erano parte di un meccanismo sociale di annientamento, ma anche di rigenerazione e riproduzione», essendo le due pulsioni opposte, quella distruttiva e quella riproduttiva, ‘incorporate’ nell’atto stesso del mangiare.
È noto che in tutte le culture nulla è meno naturale e meno materiale dell’atto naturale e materiale del mangiare, primo e irriducibile bisogno dell’uomo. In un contesto di ricorrenti carestie e crisi alimentari Heike Behrend ha avuto modo di verificare quanto il cibo, sostanza fondante di vitale energia, sia la forma principale della comunicazione, paradigma della ricchezza e misura esistenziale, al centro di complessi cerimoniali e di sequenze rituali fino a segnare i confini tra puro e impuro, tra obblighi e tabù, tra universo dei vivi e regno dei morti, tra Eros e Thanatos. Quando incontra la stregoneria la studiosa denuncia le fragilità e le insufficienze delle procedure scientifiche della conoscenza unitamente alle inadeguatezze e precarietà delle teorie e dei saperi antropologici. «Mi era chiaro che la stregoneria – come la morte – oltrepassa i confini della razionalità scientifica e va riconosciuta come presenza dell’ignoto, come una forza che proviene da altrove». Allegoria dell’alterità, il fantasma perturbante dello stregone o del cannibale, che sfugge ai paradigmi della realtà logica e dell’evidenza empirica, va ricondotto all’insieme culturale in cui si manifesta ed entro il quale trova luoghi di senso. In questo orizzonte la ricerca non può escludere di individuare i profondi tratti comuni sotto le apparenti differenze. L’elementare e universale umano, in termini lévistraussiani.
Tutte le pagine del libro dell’antropologa tedesca Heike Behrend, fra le più autorevoli africaniste, sono attraversate da questo onesto desiderio di investigazione e di interrogazione, da una tensione umana e culturale volta a conoscere e a capire l’altro (a partire dalla lingua), a tentare un dialogo oltre le faglie e le fratture prodotte dal colonialismo e postcolonialismo. Si possono leggere come lo studio dei diversi modi in cui le società africane coniugano la modernità in un inestricabile intreccio di relazioni con l’universo dei media, in un gioco di simboli, immagini e rappresentazioni che rimbalzano da un contesto ad un altro e si rispecchiano e si influenzano reciprocamente. Nel lavoro etnografico, qui dispiegato come un’officina che rende visibile la cassetta degli attrezzi, ora ripensato da una prospettiva teorica e metodologica lontana dalle convenzioni accademiche, libera dall’osservanza delle regole imposte dai modelli delle monografie già date alle stampe, risaltano la grazia e il coraggio dello sguardo femminile, l’attenzione ai dettagli, la cordialità e la generosità delle relazioni e degli incontri, la schiettezza nel rendere conto della processualità delle ricerche, degli errori commessi e dei fraintendimenti, dei dubbi e delle disillusioni, dei disagi, dei rischi e delle emozioni. Non è senza significato che la studiosa porta con sé nei suoi soggiorni in Africa il figlio di sette anni e con lui condivide le passioni della ricercatrice e le attenzioni della madre.
Tra autobiografia critica, saggio antropologico e letteratura di viaggio, La scimmia in bermuda, prima opera di Heike Behrend tradotta in Italia, è forse prima di tutto un racconto, una rassegna di storie, con una trama di rocambolesche avventure e epifaniche scoperte, con personaggi gli uomini e le donne che l’antropologa ha incontrato e che l’hanno aiutata a conoscere e a capire non solo il mondo osservato ma anche e soprattutto se stessa nel mondo. Assidui e preziosi compagni di viaggio, accanto ai maestri dei suoi studi – da Malinowsky a Evans-Pritchard, a Lienhardt, a Jean Rouch – sono stati mediatori, traduttori e collaboratori, anziani che l’hanno guidata nei labirinti degli usi e costumi della vita quotidiana, profetesse che l’hanno introdotta nei conflittuali movimenti religiosi, medium ed esorcisti, indovini e guaritori, protagonisti dei riti di possessione spiritica, giovani studenti, registi, fotografi e artisti di strada.
Nomi e storie di un’umanità spesso ai margini delle scritture scientifiche e qui al centro delle esperienze vissute e raccontate dall’autrice. «Non mi presento al lettore soltanto come un soggetto autonomo e un’osservatrice – scrive nell’introduzione Heike Behrand – quanto piuttosto come un oggetto osservato con la massima attenzione nell’ambito di casualità, incertezze, conflitti e rapporti di forza estremamente diversi». Sta in questa frase probabilmente il senso profondo dell’etnografia tout court, le problematicità e le imprevedibilità della ricerca, le segrete connessioni di antropologia e letteratura, l’esercizio di un’interrogazione autobiografica che coinvolge osservato e osservatore. Mentre si riannodano i fili dei molteplici incontri, delle letture, delle vite degli uomini e delle donne, si intrecciano gli intrami e gli stami di questo singolare breviario che è bilancio autocritico di una intellettuale ma anche testimonianza critica di una stagione di transizione nella storia dell’antropologia, tra l’età postcoloniale e quella globale.
Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
Riferimenti bibliografici
Behrend H., La scimmia in bermuda. Autobiografia spietata della ricerca etnografica, Bollati Boringhieri Torino 2023.
Calvino I., Lezioni americane, Mondadori Milano 1993.
Franceschi Z. A., Storie di vita. Percorsi nella storia dell’antropologia americana, Clueb Bologna 2006.
Hannerz H., Il mondo dell’antropologia, Il Mulino Bologna 2012.
Lévi-Strauss C., Tristi Tropici, Il Saggiatore Milano 1960.
Ricci A., Sguardi lontani. Fotografia ed etnografia nella prima metà del Novecento, FrancoAngeli Milano 2023.
Sanga G., Dore G., Autobiografia dell’antropologia italiana, in “Erreffe. La ricerca folklorica”, nn. 72-73, 2017-2018.
Todorov T., Poetica della prosa, Bompiani Milano 1995.
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Antonino Cusumano, ha insegnato nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo. La sua pubblicazione, Il ritorno infelice, edita da Sellerio nel 1976, rappresenta la prima indagine condotta in Sicilia sull’immigrazione straniera. Sullo stesso argomento ha scritto un rapporto edito dal Cresm nel 2000, Cittadini senza cittadinanza, nonché numerosi altri saggi e articoli su riviste specializzate e volumi collettanei. Ha dedicato particolare attenzione anche ai temi dell’arte popolare, della cultura materiale e della museografia. È autore di diversi studi. Nel 2015 ha curato un libro-intervista ad Antonino Buttitta, Orizzonti della memoria (De Lorenzo editore). La sua ultima pubblicazione, Per fili e per segni. Un percorso di ricerca, è stata edita dal Museo Pasqualino di Palermo (2020). Per la stessa casa editrice ha curato il volume Per Luigi. Scritti in memoria di Luigi M. Lombardi Satriani (2022).
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