Sono questi giorni d’estate, seppur singolari, ma a cui forse dovremmo abituarci, che come ogni anno fanno da sfondo a un inevitabile aumento degli approdi nelle coste europee, le nostre particolarmente, di migranti. Sono questi giorni di maggio e giugno che avrebbero dovuto vedere un aumento, quantomeno, seppur, lieve, della capacità empatica del nostro sguardo, attitudine, predisposizione, all’accoglienza, al salvataggio, di migliaia di vite che vengono da oltre mare, perché proprio in questi giorni tragedie climatiche e umanitarie hanno investito il nostro Paese. E invece no, ennesimi morti, ennesime vittime, ennesime tragedie nelle coste italiane e greche [1], in questi giorni.
Dialoghi Mediterranei, lo sappiamo, è da sempre in prima linea nel raccontare quanto succede, nell’intervenire nel dibattito nazionale e non solo, nello studiare e nell’interrogarsi su questo dramma umano di cui i nostri occhi e le nostre coscienze si vanno assuefacendo sempre di più in una sorta di placida e rassegnata tristezza e ipocrito rammarico tipicamente occidentalistico e niente più.
Anch’io sono alcune volte intervenuto sul dibattito, ho incontrato testi importanti di cui ho discusso, ho commentato studi utilissimi che da terraferma cercavano di far fronte a questo fenomeno storico destinato ad essere ricordato come una lunga e silenziosa, per noi, strage alla quale, come cittadini europei, abbiamo risposto spesso soltanto con omertà. Da terraferma dicevo.
Questa volta invece mi trovo di fronte un lavoro completamente nuovo, un esperimento che forse qualcuno non considererà sufficientemente rigoroso, ma finalmente un’esperienza, un lavoro, un viaggio, che ha tentato di costruire qualcosa di diverso dal solito: fare ricerca attraverso il mare. Questo è anche il titolo dell’introduzione di questo testo intitolato Crocevia Mediterraneo, di Equipaggio della Tanimar, a cura di Jacopo Anderlini e Enrico Fravega, edito da Elèuthera (2023). Cosa racconta allora questo volume, cos’è? Come si colloca nel dibattito e nel panorama culturale ed editoriale italiano? Anderlini e Pellegrino scrivono :
«su un’imbarcazione, abbiamo provato a dare conto della complessità di questo spazio – il Mediterraneo – in un viaggio di due settimane con tappe a Pantelleria, Lampedusa, Linosa e Malta, dove di volta in volta ci siamo riuniti con gruppi di ricercatrici e ricercatori a terra. Nell’arco di due settimane, dal 26 settembre all’11 ottobre 2022, abbiamo attraversato il Mediterraneo centrale facendo tappa nei principali snodi della mobilità migrante e del controllo confinario europeo. È la prima volta che un’imbarcazione di scienziati sociali abita questo campo in prima persona, nello spirito di una sociologia pubblica che possa confrontarsi e incidere direttamente sul reale. Un’etnografia del mare costellata di incontri e della partecipazione diretta in un contesto sociale complesso».
Il volume è quindi sia un’etnografia del mare che un diario di viaggio, in cui i capitoli, che scandiscono i giorni di viaggio passati per mare o nelle isole, sono le voci plurime o singole dei componenti dell’equipaggio. Si tratta quindi di un’esperienza tanto singolare, inedita, spiazzante per il lettore quanto per i membri dell’equipaggio stesso. Un’etnografia del mare come è stata appunto chiamata:
«l’applicazione al contesto marittimo dell’approccio etnografico ci ha costretto a rivedere una molteplicità di presupposti teorici ed epistemologici, mutando, in questo modo, sia le nostre pratiche sia il nostro sguardo. Fare ricerca in mare, sul mare, infatti ha comportato la revisione di alcuni nostri posizionamenti, sia rispetto all’oggetto di ricerca (basti pensare ad esempio che molte delle cose che accadono per mare, accadono di notte, regolate anche dalle maree, dal tempo, dal mare appunto, come è avvenuto per gli attracchi e gli sbarchi di cui siamo stati testimoni, che possono essere visti quindi solo se si è in mare e/o in porto), sia rispetto alle dinamiche tra i diversi membri del gruppo di ricerca (portati a vivere in uno spazio stretto di confronto costante e a percepire così molto più marcatamente come gli stessi eventi siano evidentemente vissuti in modo diverso e selettivo da ciascun/a etnografo/a, ad esempio). Così, nell’ambigua e a volte complessa sovrapposizione che è emersa tra gruppo di ricerca e “crew” si sono aperti inediti spazi di riflessione e di elaborazione; e sono emerse pratiche di lavoro di “analisi circolare” in cui tutti collaboravano con tutti: passare il tempo tra un incontro e l’altro a rileggere le proprie note di campo agli altri, registrare le note per comporle in dialoghi esemplari, trame di una drammaturgia corale».
E ancora, tutto il libro è costellato da una dimensione audio-visuale che cerca di restituire il sentire e il vissuto dell’equipaggio andando a costituire una dimensione narrativa che trascende sia la dimensione diaristica che quella etnografica. Ci ritroveremo quindi non solo parte noi stessi della crew ma noi stessi isolani, viaggiatori, ricercatori e testimoni di ciò che avviene in quei luoghi e in quel – nostro – mare. Tutto il volume è attraversato non solo da uno spirito di scoperta e ricerca ma da un afflato umano, da una solidarietà e urgenza umanitaria che investe il lettore, accademico e no, spingendolo ad aprire gli occhi e il cuore a ciò che ogni giorno succede poche miglia oltre le nostre coste. Se i luoghi tracciati e visitati sono solite prede del turismo, di massa o di nicchia, qui li ritroviamo raccontati da una pluralità di sguardi, questa volta animati da tensioni troppo spesso aliene e lontane da quei luoghi, quelle traiettorie, quelle onde.
«Il Mediterraneo è sicuramente uno spazio conteso dai diversi dispositivi e apparati di controllo confinario, dall’incontro/scontro tra gli ordinamenti giuridici degli Stati e il diritto internazionale, dall’insopprimibile volontà a muoversi verso un futuro che si spera migliore. Uno spazio composto da economie diverse e intrecciate tra loro, dal turismo, alla pesca, alle zone economiche speciali, alla finanza, dove vecchi poveri e nuovi ricchi si incontrano. In questo contesto, il passato, la memoria, diventa o un rimosso scomodo con cui è difficile fare i conti o un campo di battaglia per definire presente e futuro di un luogo. La solidarietà, a volte irruenta a volte più silenziosa, o negata e schiacciata, è il filo rosso che attraversa tutte queste tappe. Una solidarietà talvolta legata a esperienze e memorie passate di un luogo o proveniente da altrove, capace già di eccedere il gesto compassionevole e farsi azione (quindi politica), prefigurando futuri post-confinari».
Come detto prima, Crocevia Mediterraneo è sia un’esperienza nuova per il lettore quanto un’esperienza nuova in senso assoluto per l’equipaggio:
«da qui scaturiscono le due principali sfide metodologiche che abbiamo cercato di affrontare nella nostra missione nautico-etnografica. La prima ha a che fare con il “decentramento conoscitivo” che abbiamo dovuto operare stando in mare. Stare in mare, stare male, “stare mare” ha cambiato il nostro posizionamento sul campo e il nostro modo di pensarci. Innanzitutto, perché i tempi della ricerca, e i margini di autonomia dei ricercatori imbarcati a bordo della Tanimar, sono mutati radicalmente; fortemente condizionati dall’esperienza del vivere in barca. La seconda sfida riguarda la dimensione collettiva dell’esperienza che abbiamo vissuto in barca e il tentativo di trasformarci da équipe di ricerca in crew. Ovvero di provare a rompere l’individualismo metodologico che caratterizza anche le pratiche di ricerca non-standard, provando a realizzare un’etnografia collettiva. Una scelta che ci imponeva, innanzitutto, di diventare gruppo».
È un viaggio a più direzioni e un viaggio ricorsivo questo libro. Una narrazione che veleggia fra il racconto di viaggio, l’evocazione poetica e l’orizzonte etnografico, che si immerge nella collettività di chi la produce per riemergere fra la collettività di chi la riceve provando, e secondo me riuscendoci, a portarci con sé.
Come detto, i capitoli sono tappe che seguono le coordinate del viaggio. Alcuni giorni come il terzo presso Lampedusa sono come dei resoconti stesi da una pluralità di voci dell’equipaggio, a più mani, altri invece sono più intimi, dove ogni voce è uno sguardo diverso pur per lo stesso itinerario, lo stesso spazio dentro e fuori. La barca e il mare e le isole. Come scrive Luca Queirolo Palmas nel terzo capitolo scritto con Jacopo Anderlini, Daniela Leonardi, Antonino Milotta, Vincenza Pellegrino, dal titolo Stare mare. Appunti corali, in navigazione verso Lampedusa – Mar Mediterraneo 36° 29’ Nord – 12° 04’ Est:
«Luca. La chiesa ha suonato le campane a morto, prima che lasciassimo il porto. Il viaggio inizia. Per alcuni di noi è un battesimo del mare. Il secchio del vomito è a portata di mano. L’onda formata spaesa chi fino a oggi è stato in porto cullato dal beccheggio della Tanimar. A ognuno di noi viene dato un giubbotto e delle consegne di sicurezza. Abbiamo indumenti, abbiamo cibo, la sicurezza di due skipper a bordo, e la barca ci protegge dall’acqua che è sotto di noi. Mentre la radio gracchia e mantiene il contatto con lo spazio del soccorso e delle informazioni. I nostri corpi prendono confidenza con l’ambiente in cui ci muoviamo, passando attraverso la sofferenza. È ancora una volta un privilegio bianco il nostro, questo tipo di sofferenza. Ripenso alle barche del cimitero, a quelle condizioni di viaggio, a quei volti anonimi che provo a immaginare. Ricordo le parole del nostro amico Georges, al racconto della sua traversata, le persone che piangono, le persone che pregano, le persone che vomitano e si pisciano addosso, le persone che urlano e si spingono, per salvarsi a volte a spese di altri. L’acqua ovunque, il motore che si arresta, i soccorsi che non ci sono, la radio che non risponde. Sul cellulare, appare un messaggio – è di un’amica marinaia sbarcata da poco da una missione di soccorso della flotta civile».
Si intrecciano così incontri con gli isolani, memorie, riflessioni che vanno a contaminare il mero resoconto di viaggio componendo una nuova etnografia che magari meno piacerà all’accademia ma che risulta più autentica e restituisce quel senso di emergenza che soggiace il lento quotidiano delle isole attraversate. Chi ha vissuto in un’isola, chi ha viaggiato verso un’isola e non per turismo, sa bene a cosa mi sto riferendo. C’è nelle isole siciliane del Mediterraneo un diverso senso del tempo e dello spazio che questo lavoro riesce a far trasparire oltre la pagina e senza mai tacere sul già tenebroso silenzio che avvolge questi luoghi che vivono direttamente le migrazioni e tutto ciò che comportano. Le conversazioni con gli isolani inoltre ci danno modo di cogliere l’anima etnografica ma anche umanitaria del testo, lì dove la voce degli abitanti oltre a offrirci uno spaccato reale di chi vive il Mediterraneo da sempre ci regala spazi di riflessione sul presente del nostro Paese e dell’Europa, quest’ultima, ancora sospesa ancora fra mito, narrazione e realtà sociale.
«La Tanimar lascia Lampedusa dopo diversi giorni di maltempo in cui persino i mazaresi hanno trovato riparo sui moli dell’isola. Per noi il riparo obbligato ha permesso di incontrare storie, di frequentare il porto stando nel porto. L’isola ci ha lasciato con le campane a morto, suonate dal traghetto che ha appena attraccato e sta scaricando una bara. A Lampedusa non si nasce, né si muore. A pensarci bene, anche a Pantelleria siamo partiti con le campane a morto. E ora, mentre la porta d’Europa scorre sotto i nostri occhi, lì sotto sulla scogliera vediamo l’ennesimo relitto abbandonato. Fresco di arrivo, con il motore fuori- bordo schiaffeggiato dalle onde. Anche lui trasuda morte. D’altra parte, tutte le coste dell’isola sono adornate di relitti più o meno recenti… alcuni ormai si sono elevati a terra, tanto che sembrano piovuti dal cielo più che portati dal mare. (Il mare è un macello, Lampedusa-Linosa 36° 02’ Nord – 14° 11’ Est, Queirolo Palmas).
E così fra scenari, timori e speranze, il lettore rimane saldo aggrappato al resto dell’equipaggio fino a Linosa e infine Malta, le ultime due tappe del testo e del viaggio della Tanimar, dove gli autori-equipaggio, prima di arrivarvi, scrivono che «ci si potrebbe perdere in tutto questo mare, così come fanno le nostre parole che scivolano, si scompongono e non trovano più un solido attrito terrestre (Terra di mezzo, mare di mezzo – Malta 35° 54’ Nord – 14° 30’ Est, Colombo, Daminelli, Fravega, Goletti, Queirolo Palmas).
Resta difficile continuare a parlare di Crocevia Mediterraneo senza inevitabilmente citare interi capitoli che seppur brevi risultano densissimi sia nei contenuti di interesse etnografico sia nelle immagini che riescono a evocare. Per familiarità, abitudine, canone, spesso siamo abituati ad associare questi tre elementi, mare-viaggio-poesia, al mito nella sua accezione fantastica e favolistica. Resta quindi altrettanto difficile cogliere l’elemento poetico, la bellezza dei luoghi, l’esotismo senza tempo della vita nell’isola, l’insondabile e incessante incedere delle onde, nella sua invece estrema crudezza, materialità e feroce realtà, scinderlo dalla fantasia per riuscire a rivelarlo fra gli scogli, i relitti, l’amarezza disincantata degli abitanti, l’orrore nel volto di chi è scampato alla morte.
Questo lavoro riesce quindi a riportare alla luce il viaggio come pratica del sapere geografico, cosa audace, non banale e non semplice, e riesce anche a incarnare con onestà epistemologica l’idea di elaborare un’etnografia nuova che si sappia muovere fra l’inchiesta, il racconto e il documentario senza rinunciare a ciò che alla fine, più di tutto, è in grado di muovere gli esseri umani: la speranza.
Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023
Note
[1] https://www.repubblica.it/esteri/2023/06/14/news/migranti_naufragio_grecia-
404423891/?ref=RHLF-BG-I404436993-P1-S1-T1
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Giuseppe Sorce, laureato in lettere moderne all’Università di Palermo, ha discusso una tesi in antropologia culturale (dir. M. Meschiari) dal titolo A new kind of “we”, un tentativo di analisi antropologica del rapporto uomo-tecnologia e le sue implicazioni nella percezione, nella comunicazione, nella narrazione del sé e nella costruzione dell’identità. Ha conseguito la laurea magistrale in Italianistica e scienze linguistiche presso l’Università di Bologna con una tesi su “Pensare il luogo e immaginare lo spazio. Terra, cibernetica e geografia”, relatore prof. Franco Farinelli.
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