«Le fiabe sono vere. […] Sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo o a una donna […], lo sforzo per liberarsi e autodeterminarsi […] anzi, il non poter liberarsi da soli: il liberarsi liberando», Fiabe italiane (Einaudi, 1956), Italo Calvino.
“Fiaba” e “favola” non sono la stessa cosa, ci hanno insegnato a scuola. La prima possiede l’elemento “magico”, la seconda no. Quest’ultima possiede l’“allegoria”, che non è come il “simbolo”: quasi. Le favole sono piene di animali e ci insegnano sempre qualcosa. Nelle fiabe, invece, ci sono le fate, gli gnomi, gli orchi e le streghe. Succedono cose che non si capiscono e che sono “magiche”, appunto: non reali. Le favole non sono proprio reali (perché gli animali non parlano, ad esempio), ma sono “allegoriche”: significano qualcosa di “simbolico” a cui si può arrivare con la “razionalità”. Questo “qualcosa”, di solito, è sempre “buono”. Le favole, infatti, sono “morali”.
È solo mettendo da parte i vincoli disciplinatori delle definizioni scolastiche che si può afferrare il potere magico della favola e della fiaba; due generi letterari che, nella tradizione letteraria italiana, hanno autori del calibro di – in ordine sparso – Rodari, Moravia, Malerba, Munari, ma anche Calvino, Eco, Buzzati. Ed è forse seguendo le orme di questi grandissimi che Luca Giommoni ha scritto il romanzo Il rosso e il blu. Una comune favola di migrazione (effequ, 2020). Seguendo la libertà disordinata della fantasia, che sfugge a regole e categorizzazioni, Giommoni è riuscito a scrivere un romanzo che parla di Mediterraneo, immigrazione, accoglienza, razzismo; la Libia dell’inferno e l’Italia della speranza.
Il rosso e il blu è la storia di Makamba, un giovane maliano che ha una missione: aggiustare il mondo attraverso l’acqua. Parte dal Mali e viaggia il mondo intero. Dalla Cina alla Svezia, passando per la Libia, approda in Italia, nel Centro di accoglienza straordinaria Arcobaleno. Lì incontra Benedict, Fagadan, Vasco, che cercano di cambiare il proprio futuro, ma anche Manfredi, Valerio, Santiago che, più che il futuro, cambiano il presente. La missione di Makamba in Italia, però, non è salvarsi: è salvarla.
Il rosso e il blu non si può raccontare: si può solo leggere. Ho letto il romanzo senza sapere niente e ogni singolo dettaglio è stato un attimo di scoperta e meraviglia, talvolta dolorosa; vorrei che fosse così anche per chi lo leggerà dopo aver conosciuto Giommoni in questa intervista. Per questo l’ho incontrato e gli ho fatto qualche domanda su Makamba e la sua favola.
Negli ultimi dieci anni, varie produzioni letterarie hanno cercato di raccontare l’immigrazione, i naufragi, il Mediterraneo contemporaneo le cui sponde sembrano incattivirsi e restringersi sempre di più. Nella letteratura italiana non sono numerosi i romanzi (mi viene in mente Nel mare ci sono i coccodrilli. Storia vera di Enaiatollah Akbar, Dalai Editore, 2011, di Fabio Geda, ma non molto altro) ma è uscita ottima non-fiction narrativa: penso a La Frontiera (Feltrinelli, 2017) di Alessandro Leogrande, ad esempio, o Appunti per un Naufragio (Sellerio editore, 2017) di Davide Enìa. Come ti sei posto rispetto a questa letteratura? Cosa pensavi che mancasse nel raccontare il Mediterraneo e i fenomeni migratori prima che uscisse Il Rosso e il Blu?
«Non credo che alla letteratura sulle migrazioni manchi qualcosa di preciso. Sia la saggistica che la narrativa vantano un buon numero di titoli, alcuni anche con una discreto eco. Partendo dalla mia esperienza professionale, mi sono concentrato sul raccontare un angolo di questo mondo, quello dei centri d’accoglienza, di cui si racconta troppo poco e troppo male. Rispetto a questo mi sono posto semplicemente portando una voce in più, aggiungendo una storia a un fenomeno, quello migratorio, raccontando le storie di persone con le loro esistenze in pausa, costrette a raccapezzarsi con traumi presenti, e passati, e paradossi burocratici, ma filtrando tutto attraverso la fantasia e la sua equità; perché forse l’unica cosa da opporre ai toni violenti e propagandistici con cui la politica e certi media hanno sempre narrato questa realtà è proprio una favola».
Il libro è una storia di accoglienza e integrazione: i suoi personaggi – Makamba, Benedict e Fagadan, tra gli altri – vivono nel Centro di accoglienza straordinaria Arcobaleno. È la storia del loro arrivo in Italia, di coloro che li accolgono – Manfredi, Valerio e Santiago –, coloro che li respingono; è la storia del mondo da cui provengono e quello a cui approdano. È la storia delle loro famiglie, dei ricordi felici; dei loro viaggi e dell’inferno libico. C’è tanto Mediterraneo, in questo crocevia di storie. C’è, ma in un modo profondamente evocativo che non riesco ad afferrare a pieno. Se dicessi che è una favola profondamente mediterranea, mi aiuteresti nello spiegare a me stessa perché?
«Mediterraneo mi fa subito venire in mente il colore e la confusione, quindi direi che Il rosso e il blu è una storia profondamente mediterranea per il colore e la confusione. La fantasia e la coralità di voci presenti colorano la narrazione e la narrazione restituisce la pluralità di storie, usi, costumi, tradizioni, lingue differenti, tutta la confusione che è il mondo dell’accoglienza, ma è una confusione innocua, piena di un’umanità che ferisce, di poesia e di tenerezza, che fa commuovere, ridere o arrabbiare: un’umanità simile a quella che si può trovare a molte tavole in molte case, di amici e parenti.
Mettendo da parte le definizioni pedanti e scolastiche dell’una e dell’altra, mi verrebbe da dire che il Il rosso e il blu è una favola, sì, ma anche una fiaba. L’elemento magico – e quindi fiabesco – dei personaggi è quello che li rende apparentemente incapaci di comprendere la realtà. Non si tratta di assenza di comprensione, però: i personaggi super eroi del libro possiedono un potere – magico, appunto – che può conferire senso alla realtà solo trasformandola. Saresti d’accordo?
«Potrebbe sicuramente essere un’interpretazione. Un’altra potrebbe essere che i personaggi del libro comprendono fin troppo bene la realtà in cui si sono ritrovati e, se proprio devono impazzire, preferiscono trovare una giustificazione, magari anche assurda, ma comunque più accettabile della realtà che stanno vivendo. Non trasformano solo la realtà esistente: ne creano una nuova, più umana, quasi per negare la possibilità dell’esistenza della cattiveria nell’essere umano. In ogni caso, sono dei bei super poteri.
Nella lingua di noi umani, che non siamo eroi, di cosa è fatto questo potere?
«Se lo sapessi, sarei anche io un super eroe. Credo che in realtà il mondo sia pieno di eroi, solo che non se parla o, quando se ne parla, sono gli eroi sbagliati. Un eroe banalmente può essere l’anziana signora che cammina con il deambulatore o il signore che ti guarda male alla fermata dell’autobus, solo che non lo possiamo sapere. Forse la loro vera magia, il loro vero potere, è quello di non aver bisogno di armi, maschere, divise, notorietà, per farsi riconoscere e portare avanti le loro missioni. Con Il rosso e il blu ho voluto arricchire l’immaginario di questi eroi “dal basso” che affrontano le storture degli eventi con un’alzata di spalle o tracciando punti interrogativi nell’aria, che quando il lieto fine non c’è se lo inventano. Parlare di queste persone mi aiuta a ricordare che loro sono là fuori, anche se per vederli serve attenzione e curiosità, proprio come per certe figure fiabesche».
Il genere della favola ha nomi importanti nella tradizione letteraria italiana. Oltre a chiederti in che misura i grandi autori di questa tradizione hanno guidato la tua scrittura, mi piacerebbe sapere come ti sei sentito a ricorrere a questo genere letterario per un romanzo contemporaneo che affronta un tema come quello dell’immigrazione. Come dicevamo, infatti, si tratta di una tematica che, dagli autori italiani di oggi, è stata affrontata più nella non-fiction che nella letteratura…
«Mentre scrivevo Il rosso e il blu potevo contare sulla compagnia provvidenziale di autori come Calvino, Eco, Buzzati, Rodari, Munari, maestri che ho sempre amato e che hanno senza dubbio influenzato la mia scrittura. Accanto alla tastiera del computer c’era sempre una copia di Baudolino, de Il segreto del bosco vecchio o Fantasia, di Favole al telefono o Marcovaldo. Volevo raccontare il sistema di accoglienza in Italia con un linguaggio differente da quello cui siamo stati abituati, e il linguaggio scalzo, sospeso, della favola mi sembrava quello più adatto. Vestire i miei personaggi di magia e affidare loro tutta una serie di evasioni fiabesche sono stati processi spontanei considerando che le persone di cui parlo nel romanzo brillano già di una poetica tutto loro. La mia intenzione era raccontare una storia che potesse essere libera dal tempo e allo stesso modo collocarla in un contesto storico ben preciso; la mediazione è avvenuta combinando l’espressività semplice ma aperta ai possibili infiniti della fantasia, tipica della tradizione della favola italiana, con il lessico più distaccato, più rigido, della burocrazia, così da avere un adeguato equilibrio tra allegoria e satira.
Altri due testi che mi sono stati molto vicini durante la scrittura de Il rosso e il blu, suggerendomi di adottare una narrazione polifonica, di rendere questa storia una favola corale, sono Il buon soldato Sc’véik di Hašek e Comma 22 di Heller, che non potrò mai ringraziare a sufficienza per gli amici che mi hanno regalato».
Le favole de Il rosso e il blu sono tante: sono quelle dei suoi personaggi, numerosissimi, ma anche dei suoi luoghi. Mi verrebbe da dire, però, che c’è anche un’altra favola, sospesa sopra tutte le altre, che si muove nello spazio del simbolismo, più che dell’allegoria. Se tu dovessi raccontare questo simbolismo ad un bambino nella forma di un’altra storia ancora, cosa racconteresti?
«Il rosso e il blu è un mare di storie, è una rincorsa continua tra fantasia e realtà, dove queste due dimensioni, a volte, si avvicinano, altre si toccano, altre ancora si osservano semplicemente da lontano. A ogni personaggio è affidata una precisa idea di mondo che viene proposta in maniera allegorica e fantasiosa; poi ci sono personaggi che sono esattamente quei mondi, figure simboliche che sono la risposta non violenta all’insensatezza delle cose. Anche lo spazio e il tempo non sempre sembrano quelli conosciuti; a seconda della visione di mondo di chi sta raccontando, si mettono in discussione confini, migliaia di chilometri, età anagrafiche. E a fianco della storia principale ce n’è un’altra, quella che le fa da cornice (Preludio, Interludio, Congedo) che si muove anch’essa in un limbo sospeso tra un luogo che non esiste e tutti i luoghi, in una dimensione dove ormai le favole servono solo a sperare che tutto vada bene quando tutto va male. Se dovessi raccontare a un bambino questo simbolismo con una storia nuova, probabilmente gli chiederei scusa e gli domanderei se posso raccontargli la storia di due personaggi che compaiono ne Il rosso e il blu. Se acconsentisse, allora gli parlerei di Kirmani, la bambina sudanese, e Fawziya, l’amica faraona abile giocatrice di dama, che fanno solo una veloce comparsa ma sono dei personaggi a cui sono molto affezionato e trovo che siano due dei più simbolici. Sarebbe una storia in parte nuova».
Hai lavorato come insegnante di italiano per stranieri e come operatore in un centro di accoglienza straordinaria. Il libro racconta del Centro di accoglienza Arcobaleno fondato da Manfredi, dove lavorano Valerio come insegnante di italiano, Santiago, come operatore, e Malang, come mediatore linguistico. Si direbbe quindi che tu, come autore, sei Valerio, forse Manfredi, ma sarebbe banale, a mio avviso. L’amore profondo che si sente per i tuoi personaggi fa pensare, infatti, che ci sia qualcosa di tuo in ognuno di loro. Cosa risponderesti se ti chiedessi: “tu, Luca, dove sei in questo libro?”
«Sicuramente con Valerio ho una forte affinità professionale, ho condiviso le stesse gioie e frustrazioni, ma tutti i personaggi del libro sono l’unione di diverse personalità e peculiarità che ho conosciuto lavorando nel mondo dell’accoglienza, e non solo; per certe sfaccettature mi sono ispirato anche a persone a me vicine, amici, parenti. Chiaramente voglio un gran bene a tutti i miei personaggi, anche quelli che fanno solo una veloce comparsa, e forse io sono proprio una comparsa in questo libro, sono uno dei tanti personaggi che ha avuto la fortuna di conoscere Makamba, Benedict, Fagadan, Malang».
Ci sono scene di forte dolore nel tuo libro. Le descrivi, però, prendendo strade che lo trasformano – lo trasfigurano con estrema delicatezza e, proprio per questo, lo restituiscono al lettore in tutta la sua potenza. È come se, raccontandolo in una lingua che è delicatissima, il dolore arrivasse per contrasto, cogliesse di sorpresa. E arrivasse, quindi, più doloroso che mai. Si può solo leggere per capire. Cosa ti ha guidato nella scelta di descrivere il dolore in questo modo?
«Nonostante tanti episodi raccontati nel libro li abbia vissuti in prima persona o li abbia visti succedere, narrare dolori così lontani (la delusione, la sofferenza, la frustrazione, che si nascondono dietro a sguardi, sorrisi, gesti) richiede sempre una buona dose di accortezza per non cadere in una retorica facile e in degli stucchevoli buonismi. Io ho adottato un atteggiamento di distacco dalle situazioni più atroci, dando il male per assodato come può essere assodata la proprietà transitiva o un regolamento dell’Unione Europea. Non sono assodati invece i comportamenti dei personaggi, che reagiscono a ogni ostacolo e difficoltà con un mix di candido ottimismo e imprevedibilità – quell’imprevedibilità che è tipica della fantasia. Tutti incontrano il male ma nessuno se ne lascia contagiare; anzi, gli oppongono solo la loro bonaria semplicità, arrivando non solo a mettere in dubbio l’esistenza stessa del male, ma anche a mostrarlo in tutta la sua ridicola assurdità».
Mi sentirei di dire che c’è tantissimo coraggio in questo libro. C’è nei personaggi, nei loro atti eroici, in te che hai deciso di scriverlo e negli editori che hanno deciso di accogliere la sfida di accogliere un tema così complesso. Cosa diresti a riguardo?
«Non so se il coraggio mi si possa associare, non mi definirei una persona coraggiosa; quello che ho fatto è stato semplicemente credere nella storia che avevo da raccontare, così come i personaggi del libro credono talmente tanto nelle loro imprese surreali che arrivano a dedicare loro intere esistenze. Per me era importante condividere tutto il campionario di umanità che ho incontrato lavorando all’interno del sistema di accoglienza, avvicinare questo mondo a chi non lo conosceva o lo ha sempre guardato con sospetto, e farlo con la leggerezza di una favola. Sono stato fortunato a incontrare Silvia e Francesco (effequ): anche loro credono nel potere delle storie, di quelle che devono essere raccontate, e hanno creduto in quella de Il rosso e il blu. D’altronde, guardando i loro titoli, sia di saggistica che di narrativa, gli argomenti trattati e le posizioni adottate, non si può di certo dire che a effequ manchi il coraggio. A loro modo, sono dei Makamba, armati delle loro storie, di una buona dose di ottimismo e di semplicità, impegnati anche loro a portare avanti una missione di puro bene».
Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021
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Enrica Fei, arabista, studentessa di dottorato in Politiche del Medio Oriente, analista su Iraq e Iran per un’agenzia di consulenza, è scrittrice di racconti, testi teatrali, recensioni e articoli su Medio Oriente e società. Divisa fra la passione per la letteratura e quella per il settore socio-umanitario e gli affari internazionali, studia lingua e letteratura araba e francese, mediazione inter mediterranea e relazioni internazionali. Viaggia molto, soprattutto nel Medio Oriente (in Egitto, Marocco, Siria, Giordania, Libano, Bahrain, Kuwait e Iran). In Giordania studia per più di un anno all’Istituto Qasid, dove perfeziona il suo livello di arabo che, ad oggi, utilizza correntemente per lavoro. Ha vissuto a lungo a Londra ma, nel 2018, si è trasferita a Berlino. Vive tra Berlino e Firenze. Sta curando la traduzione dall’arabo del poeta Ahmad al-ʿAjmii, conosciuto in Bahrain.
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