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di Sura Bizzarri e Salvatore Clemente
Per l’occhio vigile, l’occhio dell’uomo che ogni sera passa a dare il cibo ai pesci, ogni minimo dettaglio è un’informazione, un segnale che allerta la sua attenzione.
Il colore dell’acqua, la densità stessa dei pesci, la direzione del vento che annuncia bonaccia o maestrale, l’increspatura dell’acqua o il tenore dello sciabordìo lungo la paratìa.
Ogni mattina, all’alba, l’uomo infila gli stivaloni e ripulisce le vasche, pastura i pesci e misura tutti quei parametri che fanno sì che l’allevamento viva, si alimenti e cresca in salute.
Ed ogni sera, al tramonto, è necessario controllare di nuovo lo stato delle cose e nutrire con farine industriali le bocche aperte come in cerca d’aria di quei pesci abituati soltanto a mangiare.
Spazio per muoversi ne hanno poco, del mare lì nelle vasche c’è solo l’acqua. Non esistono i fondali, la profondità, il rumore del vuoto. Non esiste la libertà.
Quei pesci sono tanti piccoli meccanismi industriali che si muovono in sincrono e condividono uno spazio sufficiente solo per mangiare. Le regole della vita hanno abdicato in favore di quelle della produzione. Mangiare, crescere, riprodursi, raggiungere il peso richiesto dal mercato.
L’uomo si muove con sicurezza fra gesti che sono sempre uguali e, già a colpo d’occhio intuisce lo stato del suo branco. I cicli di nascita, crescita e uccisione sono ben scanditi ma ogni piccolo eventuale discostamento dalle monotone tabelle industriali è immediatamente individuato dalla sua ormai consolidata esperienza.
Quella sera, il tiepido tramonto arancione si adagia sul mare, fermo, denso e come lubrificato. Nessun segnale, nessuna anomalia. Non c’è turbolenza sul pelo dell’acqua.
L’uomo pensa alla cena che lo aspetta, i racconti del bimbo, poi al bar a bere qualcosa. Indossa gli stivaloni di gomma direttamente sulle gambe nude, si passa la mano fra i capelli. Il caldo del giorno si sta smorzando nel crepuscolo. L’ora più bella. La sua pelle è asciutta, le mani callose pronte alle operazioni serali.
Esce sulla banchina con la busta della farina alimentare, il riflesso del sole sull’acqua completamente ferma. Prende la lunga pala per smuovere la superficie intonsa della grande vasca.
I pesci sono incredibilmente calmi; normalmente già dai suoi primi passi sulle assi di legno l’acqua si spacca in mille cerchi di bocche ansimanti aperte ad anello. Ma quella sera sembra voglia passare direttamente alla notte, saltare la cena e addormentarsi nel silenzio.
Ecco. Questo è indubbiamente un segnale. Ma l’uomo, abituato a dover gestire episodi di estrema concentrazione, di ferocia fra i pesci affamati, considera quella calma come il segnale di una buona giornata che va a concludersi nello scemare della luce.
La superficie non si increspa. Il silenzio si rompe dei suoi passi robusti. Ma niente vibra, niente si muove sotto la coltre oleosa e piatta dell’acqua già scura.
È senza forza, quasi come quello di un bimbo che gioca, il gesto con cui l’uomo intinge la lunga pala nell’acqua. E il bastone entra senza intoppi, senza incontrare resistenza alcuna raggiunge il fondo e si conficca nella sabbia fangosa.
Ma dove sono tutti i pesci? Un brivido percorre la schiena dell’uomo. Nettamente arriva la consapevolezza che qualcosa di anomalo sta virando la calma serale in desolazione. Le paratìe che delimitano la vasca sono perfettamente abbassate. Che si sia aperta una falla? Il pensiero già proiettato sulla sera deve concentrarsi sull’acqua scura. Gli occhi indagano la superficie bluastra, l’uomo deve immergersi nella vasca, percorrerne il periplo e verificare la tenuta delle protezioni.
Le operazioni serali dovranno prolungarsi. Con un gesto timoroso e quasi disgustato l’uomo supera il bordo e immerge le gambe.
Chissà dove risiede l’origine degli avvenimenti, chissà quale sia la mano che accende la miccia, l’inizio della combustione che, a cascata, moltiplicando la sua portata, conduce alla deflagrazione!
A causa della nuova farina alimentare potenziata di aminoacidi, della combinazione d’essa con la salinità dell’acqua, o forse a causa di un salto evolutivo improvviso, di una eccezionale fecondità mediterranea, o di una qualsiasi mutazione della colonia ittica, i pesci hanno depositato milioni di uova, discostandosi dalla normalità del range dell’allevamento.
L’uomo, entrando nella vasca, mantenendosi prudentemente vicino alla paratìa, sente improvvisa una vibrazione che è un rombo basso nell’aria, ma soprattutto nella sua percezione. E una strana sensazione di sfinimento lo colpisce alle gambe. L’uomo vacilla, avverte l’eccezionalità che sta per scoperchiare. Ed ha paura. Il terrore folle di chi percepisce il pericolo ma non ha idea di quale sia la sua provenienza.
La verità è che un numero eccezionale di uova si sono dischiuse e una miriade di piccole creature stanno per invadere la vasca. Il tipico atteggiamento materno di difesa induce i pesci adulti a proteggere la prole, a trattenerla nella zona bassa e più profonda di quell’alveare di vita.
Al primo scuotersi della superficie dell’acqua, non appena la gamba dell’uomo, scavalcando il bordo della paratìa, si immerge nel liquido ancora tiepido di sole, la colonia è pronta all’attacco. Nel profondo, un lieve movimento che preannuncia qualcosa.
L’uomo si sorregge al bordo, pur cercando con la lunga pala di sondare il fondale e captare la presenza dei pesci. I movimenti della lunga sonda sono timorosi, piuttosto che bruschi e violenti. Ma inevitabilmente percepiti dai pesci.
L’attacco è improvviso. Una corrente che ha la forza del risucchio sale dal basso. I pesci adulti, ma anche quelli di modeste dimensioni risalgono improvvisamente. Gli animali devono aver scavato una falla fra la vasca e quella adiacente, giacché normalmente la colonia vive in ambienti separati in base al grado di maturazione.
Una serie di eventi si sono concatenati e hanno creato una potente bomba in grado di ribaltare i ruoli fra padroni e schiavi, fra vincitori e vinti, fra forti e deboli.
L’uomo si aggrappa con forza al bordo ma i pesci più grossi, con piccoli morsi, cominciano ad attaccare gli stivaloni, lì dove sono più consumati o lungo le cuciture, fino a creare strappi che si allargano e dilaniano la struttura stessa della calzatura.
E i pesci, allora, attaccano la carne viva, ormai nuda e inondata dall’acqua che gonfia e appesantisce quello che resta degli stivaloni. È la ferocia impazzita del kamikaze che raggiunge l’obiettivo e attacca, implacabile. È la forza della sopravvivenza, della continuazione della specie.
Quei pesci, guidati forse dall’istinto, o dall’intelligenza primordiale della sopravvivenza, sembrano aver preso coscienza di sé, di quella situazione di schiavitù e morte. E sono riusciti a collegare le varie vasche in modo che i pesciolini, alla schiusa, fossero in grado di raggiungere la grande vasca degli adulti, a sua volta comunicante con quella dei pesci di taglia media.
La rivoluzione dell’intera comunità ittica. Per la conquista dell’autonomia e della libertà. L’uomo è assediato; i piccoli morsi si fanno sempre più insistenti, sono come una pioggia di fine ghiaia sulla pelle. E la pelle brucia, come fosse cosparsa di sale. E comincia a lacerarsi, a slabbrarsi, a perdere sangue. E il sangue si disperde nell’acqua bluastra della sera e la tinge di ruggine.
Non un grido, l’uomo tenta solo di reggersi saldamente per poter risalire sulla base di cemento. Ma le sue gambe si stanno sfaldando sotto l’attacco di quelle bocche tonde e avide. Il suo corpo si sta assottigliando e consumando. Inesorabilmente. Senza la spinta delle gambe è impossibile risalire.
L’attacco dei pesci non è più volto ad aggredire ma a mangiare la preda; la guerra si è trasformata in un banchetto. I morsi non si limitano a lacerare ma staccano porzioni di carne per cibarsene. Le gambe son quasi disfatte, l’osso, la struttura portante è già in evidenza.
Non esiste alcuna possibilità di sopravvivere. L’uomo, insieme al sangue che esce a fiotti, sta perdendo le sue ultime forze. Gli occhi si appannano e il dolore non è più focalizzato in un punto. L’intero corpo pulsa di una nausea che vorrebbe rigettare se stessa.
Il branco è interamente ammassato sull’uomo. Nella calca convulsa i pesci si aggrediscono l’un l’altro, impazziti e focalizzati sull’odore forte del sangue.
L’acqua è un brulicare ferruginoso, una contorsione argentata baciata dalla luna nascente. Lo sciabordìo ora è assordante. E schizzi di acqua e sangue e ferocia. Un massacro che miete vittime inconsapevoli; i pesci si nutrono dell’uomo e di se stessi.
Ma il continuo incalzare, la forza di quella miriade di piccoli corpi che preme e spinge il corpo ormai senza vita dell’uomo contro la paratìa compie l’ultima impresa.
La cinta metallica cede improvvisamente in uno stridore che sembra un urlo. L’argine si piega su se stesso e ogni velleità di prigionìa cade miseramente.
La colonia ingigantita e inferocita dal dilaniamento della preda esplode in guizzi argentei che fiottano nel mare aperto come il sangue da una ferita.
L’uomo non esiste più e il mare accoglie una nuova generazione inferocita di pesci. Dalla riva, i pochi passanti usciti a respirare l’aria fresca della sera notano uno strano ribollire dell’acqua, in lontananza. E un riflesso argenteo che quasi li acceca.
E sotto, negli abissi, nell’acqua che tocca e circonda ogni terra una nuova specie, simile alle altre ma consapevole della forza dell’unione, si muove e conquista lo spazio seguendo la inebriante scia della libertà.
Com’è profondo il mare… com’è profondo il mare!
Dialoghi Mediterranei, n. 47, gennaio 2021
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Sura Bizzarri, nativa di San Marcello Pistoiese, in Toscana, il suo primo romanzo La primavera del Botticelli uscito nel 2009 è stato adottato come testo di lettura dal liceo scientifico locale. Sono seguiti altri lavori, anche collettivi, da lei curati. Si tratta per lo più di esperienze di sperimentazione organizzate ricalcando episodi di city telling. Nel 2018 è uscito il suo ultimo romanzo, I ragni zingari, storia adolescenziale omosex che mette in evidenza gli episodi di estrema solitudine che caratterizzano il passaggio dalla fanciullezza all’età adulta. È socio fondatore dell’associazione Letterappenninica, che si occupa di preservare e diffondere la cultura delle Terre alte.
Salvatore Clemente, palermitano che scopre la passione per la fotografia negli anni settanta. Inizia con una Yashica FRII, per poi passare a Contax. Necessità di autofocus lo portano all’uso di fotocamere Nikon per approdare infine al digitale (Nikon). Ha realizzato molteplici reportages nel corso di diversi viaggi (Cina, India, Pakistan, Peru’, Vietnam, Cile, Argentina, Marocco, Sud Africa, Birmania, Bolivia, ecc…). È autore con M. Lo Chirco del volume Un’immagine, un racconto, pref. Nino Giaramidaro, Palermo 2009.
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