di Danilo De Marco
Undici anni fa, il 5 novembre, se ne andava il poeta Federico Tavan, visceralmente il più pasoliniano dei poeti italiani, e come Pasolini, poeta anche in lingua friulana, nella variante di Andreis. Quella lingua ‘debole’ il friulano, come la chiamava Pierluigi Cappello che «non avendo la possibilità numerica di tutti i vocaboli della lingua italiana, diventa lingua attaccata alle cose, tanto che si salda addosso alle cose».
Andreis, un paesino del Friuli che sulla carta geografica è poco meno di un puntino. Anzi non compare proprio. Federico cresce segnato da superstizioni, deliri e difficoltà psichiche. I suoi demoni lo invadono. È a pelle nuda, senza autodifese di fronte al mondo. Nei fogliacci del diario racconta le aspettative della famiglia. E che aspettative, dopo che Giacomina reputata la ‘strega’ del paese (da quelle parti nella stretta gola della Val Cellina nel 1643 furono contate 32 indemoniate) assale verbalmente in chiesa Cosetta, incinta di Federico: «vedrai vedrai cosa nascerà…un mostro». Insomma Federico ancora prima di nascere si era già beccato un vero e proprio malocchio.
Poteva capitare anche a te/ di nascere in un pentolone / tra rospi e intrugli / di streghe senza processo / e il dolore grande di una madre. / Io mi sono trovato a passare / da quelle parti.
A scuola viene castigato spesso perché «…ero lo zimbello, il complessato, il diverso…e continuavo a grattarmi» Poi in collegio al Don Bosco di Pordenone che si trasforma per lui in un vero e proprio Lager «il collegio di quel Santo di Don Bosco, roba da ricchi nel ’62…e i preti 37 aguzzini…Un esercito. Scodinzolante in nero».
Il padre si vergognava di quel figlio. Fa carte false per obbligarlo al servizio di leva. Viene esonerato dopo alcuni mesi perché, si dice, abbia baciato in bocca il suo capitano. Inizia a lavorare ma solo a momenti, tra ricoveri e vita normale. Breve soggiorno milanese. Lavora in un magazzino di tessuti all’ingrosso. Spedisce le cose dalla parte sbagliata del mondo. Alla catena di montaggio della REX sembra un sabotatore agguerrito. «Ma ero solo distratto…».
Federico Tavan è stato un fenomeno autentico, un talento poetico, per necessità di vita. Tutto contraddizione e tutto contrario a tutto, adattandosi a questo suo essere esistenziale in modo straordinario e doloroso, scrive Amedeo Giacomini.
Tavan è un personaggio omologo alla propria poesia che vive ed interpreta, scodellando all’esterno un’umanità rabbiosa: gridando, ridendo da anarchico, appunto, che ci vuole seppellire sotto il ghigno di una satira apparentemente autolesionistica. Egli è dunque essenzialmente poeta di contenuti, mentre le forme sono collegate alla pulsione del grido, del riso e magari del pianto sincero o della buffoneria.
«Non avevo mai pensato a Federico come una ypsilon, lettera che nel nostro abecedario manca. Capisco che ha ragione, è una ypsilon che ha cercato di entrare nel nostro elenco di lettere ed è stata respinta. Fuori di noi lettere riconosciute, c’è la ypsilon di un poeta stregato, che ha piantato fuori del recinto la sua lettera straniera, quella che più somiglia alla sagoma di un albero»: così dice di lui Erri De Luca.
Per il destino di Federico Tavan non ci sono risposte, come non ci sono state all’inizio del ‘900 per un poeta come Dino Campana che nel 1914 ha stampato a sue spese I Canti Orfici, prima di essere recluso, quattro anni dopo, nel manicomio di Castel Pulci fino alla sua morte nel 1932.
Ma anche per Alda Merini: Manicomio è parola assai più grande / delle oscure voragini del sogno, che ha trascorso ricoverata anni traumatici che le hanno sconvolta la vita.
Da quando Federico si era perduto dentro sé stesso, quietato solo dai farmaci e ritornato bambino…pur avvertendoci in anticipo «il poeta è morto…non scrivo più…ma di cosa dovrei scrivere oggi che ci hanno tolto anche le fate…di telefonini forse?», la malattia ha avuto il meglio sull’uomo e sul poeta.
Qualche anno prima, in un momento sereno della sua vita, in occasione di quei suoi due viaggi incantati a Parigi, di cui fui volontariamente accompagnatore e vittima sacrificale: «Eppure, se ci penso bene, senza ipocrisie e senza infingimenti, sto passando uno dei più bei momenti della mia vita, sono molto sereno, forse mi manca solo un grammo, per essere felice, ma un grammo è tanto».
Tavan era corpo, debordante presenza fisica, abbracci infiniti e voce urlante. Per Federico si tratta di farsi vivere e di sopravvivere al male fatto (venire al mondo) tra quello che è il ‘mal fatto’ e quello che fa male. Fuori dalla sua casa nella piazzetta di Andreis, il suo sgangheratissimo Bateau Ivre, al posto del suo nome appende una targa in legno con scritto “Qui dorme lui”. Per salvarsi da un suicidio a portata di mano gli resta solo la possibilità d’amore …me stesso da amare e una poesia d’amore che prende a pugni il nulla parlando de monades/e de me. Ne esce una poesia tempestosa, congiunta ad una condizione di profonda perturbazione e a un’estrema necessità di felicità semplici:
Se fos normal/e sunarés/dute’ li cjampanes…E po’ via/ pa’ chî prâtz/a deventâ/flours/âs/e/la meil/ (Se fossi normale/suonerei tutte le campane. E poi via per i prati a diventare fiori, api e miele).
Tavan è vissuto in balia della vita fin dall’infanzia – scrive Anna De Simone – e la vicenda esistenziale dell’uomo va ripercorsa in maniera non invasiva ma con molto rispetto e delicatezza. La sua poesia si muove lungo una linea che va dalle Poesie a Casarsa di Pasolini, fino ad alcuni innovatori non solo della lirica in friulano, ma più in generale della poesia del Novecento e fino ai nostri giorni. Basterebbero i nomi di Novella Cantarutti, Amedeo Giacomini, Pierluigi Cappello, Ida Vallerugo.
Mario Turello ne abbozza un secco e acuto ritratto: «Ha appreso l’arte della bisnonna dell’ava-banda/vecja contrabandiera/inteligjenta, che nascondeva esibendo: no jodéu ch’ài al cos/ plen de tabac, e otteneva col riso di non essere presa sul serio. A pari Federico, il berretto a sonagli indosso, contrabbanda tra understatement e meditata stravaganza, la poesia, non insana e non minore, ma autentica e intelligente. Non poeta eccessivo, Tavan, ma eccentrico; al margine, ma nel limite, e più divergente che diverso».
In quella parentesi dei suoi anni quasi felici, Federico faceva risuonare le sue poesie nelle osterie, nelle piazze, in incontri pubblici e manifestazioni culturali. Eroe, vittima: frammento, rivelazione ed enigma di quell’umanità di cui tutti siamo parte, inconsapevoli. Generoso nel darsi e nel non sottrarsi pubblicamente, mettendosi in gioco senza alibi o sotterfugi, scrive Paolo Medeossi, che lo ha seguito nei durissimi anni del ricovero. Gratitudine a Aldo Colonnello, anima del Circolo Culturale Menocchio di Montereale Valcellina, per avergli fatto da levatrice e aver intuito la grandezza poetica di Tavan.
Per averlo accompagnato con affetto, tatto e perseveranza, senza influire sulla sua creatività e, assieme, sistemato tradotto e pubblicate le sue poesie (pubblicazioni queste del Menocchio, le uniche attendibili e rispettose.)
Federico, questo Menocchio moderno, dice di lui la poetessa Ida Vallerugo, «…che gira per le strade facendo a pugni con il nulla e con il suo grido lacerante e nuovo…che ha in sé grazia, verità… e rogo. Poterlo stringere. Dire alla morte. È nostro. Federico! Nostra preziosa eresia».
Mi auguro che questa sua vicenda umana si riveli con la stessa intensità anche in quelle, secondo Federico, “diecimila fotografie” che gli ho scattato, e ne possa uscire leggendole, quel ruvido piacere con cui Federico cercava di liberare la sofferenza e il suo vivere il mondo. Fotografie, in verità sempre e comunque sorta di “autoritratti”, che Federico si “scattava da solo”. Fotografie dissacratrici, altre giocose, quasi sempre disperate, che rivelano quell’essere profondamente anarchico che era e che resterà Federico Tavan.
Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
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Danilo De Marco, fotografo e giornalista indipendente da ormai più di 25 anni, ha collaborato con i più importanti quotidiani, settimanali e mensili italiani: dal Corriere della Sera alla Repubblica, dall’Unità al Manifesto, Internazionale, Avvenire, Carta ecc…In Francia con Le Monde, Le Monde Diplomatique, Nouvelle Observator, Lire ecc…In Austria e Germania con Di Press, Süddeutsche ecc…In Messico La Jornada. Ha camminato mezzo mondo: dal Tibet al Messico, dalle montagne dei Kurdi in Turchia e Iraq a quelle degli U’wa in Colombia, fino alle Ande dell’Ecuador. Dalla valle del Narmada in India ai tamil dello Sri Lanka, dai campesinos della Bolivia al Brasile dei Sem Terra, dalle foreste del Congo a quelle dell’Uganda: e tanto altro. Molte esposizioni fotografiche, i libri, che raccontano soprattutto le R/Esistenze attraverso il mondo dei popoli ingiustificatamente sottomessi alla legge del più forte.
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