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Femminicidi e dintorni

Foto di Anna Fici

Foto di Anna Fici

di Anna Fici  

Sono nata a Palermo nel 1966. Quando, alla fine degli anni Settanta, da adolescente, immaginavo il mio futuro non pensavo assolutamente che questo potesse essere inficiato dal mio essere di sesso femminile. Nulla di quanto avevo attorno mi portava a temere una cosa del genere. Non so se devo ritenermi fortunata. Probabilmente sì. All’interno della mia famiglia, di ceto medio, non si parlava di professioni più adatte agli uomini piuttosto che alle donne. Mia madre, nata nel 1929, era stata una delle pochissime donne iscritte ad Ingegneria. Non aveva portato a termine gli studi universitari per motivi economici ma per un paio d’anni aveva frequentato quella facoltà in mezzo a tanti colleghi maschi. E non le ho mai sentito dire che essere donna in mezzo a tanti uomini le abbia comportato qualche disagio.

Era arrivata a Palermo provenendo da un paese dell’entroterra siciliano: Cammarata. E viveva qui con la sorella. Negli anni Cinquanta abitavano in un appartamento loro due sole, ed avevano vent’anni o poco più. In seguito, ha lavorato come segretaria di redazione al giornale L’Ora di Palermo, anche qui in mezzo a tanti uomini. E i suoi racconti di quegli anni al giornale erano entusiasmanti. Un clima meraviglioso. Qualche ammiratore comunque educato e nulla più.

Nelle cose che per me sono state importanti, nelle cose che io ho voluto fare, il mio sesso non è mai stato un problema. Certo, anch’io ho ricevuto qualche apprezzamento pesante e indesiderato che oggi chiamano molestia. Anche io ho avuto un padre che, volendo a suo modo proteggermi, mi ha detto di sapere meglio di me che cosa avrei dovuto o potuto fare. Ma ciò che lui riteneva giusto che io non facessi non aveva a che fare con il mio sesso; solo con la mia maggiore o minore probabilità di ottenere gratificazione e sostentamento materiale. Per lui, della danza e del teatro, che allora erano la mia vita, non sarei riuscita a vivere.

Entro certi limiti, fa parte del ruolo paterno quando siamo ancora molto giovani, provare ad imporre il proprio punto di vista. Ma me la sono cavata. Sono stata infastidita ma non bloccata. Non ne sono uscita traumatizzata. Poi, da adulta, ho fatto qualche sgradevole esperienza, fuori dalla famiglia. A volte si cerca nell’altro quell’amore incondizionato che da piccoli non si è avuto o che si è avuto per un tempo troppo breve, non sufficiente a farci crescere sicuri, con un saldo senso di autostima. A volte questa mancanza può creare dentro di noi una voragine e può porci psicologicamente alla mercé dell’altro. Dunque bisogna essere fortunati a trovare brave persone che non approfittino della nostra fragilità. Sulla base dell’esperienza personale e poi anche di quella professionale (sono una sociologa), mi sono convinta che all’origine dei maltrattamenti psicofisici che una persona accetta di subire c’è un irrisolto bisogno di amore, di cui sono sempre responsabili, non sempre colpevoli ma responsabili – c’è una significativa differenza – i genitori. Alla base della violenza tra i generi, non diversamente dalla violenza tra pari (colleghi, compagni di scuola…) per me c’è soprattutto una genitorialità vissuta non come scelta ma come adesione ad un percorso socialmente indicato come “normale”. Le cose lasciate andare dentro le famiglie come se dovessero seguire un corso naturale, senza attenzione… producono spesso mostruosità.     

Ciò premesso, oggi credo proprio di dover fare un grande mea culpa. Si, perché per lungo tempo ho sottovalutato il fenomeno degli abusi, della violenza contro le donne e, soprattutto ho sottovalutato i femminicidi. Sono stata indotta a questo errore dalla mia storia personale e dallo scetticismo che è tipico di chi studia e presume di conoscere i meccanismi della comunicazione mediatica oggi. Ci si aspetta il peggio, ci si aspetta che una informazione, oramai del tutto assoggettata alle logiche del marketing, venda ciò che si vende meglio e di più. Così, se una notizia fa audience, perché non cercarne e/o confezionarne tante dello stesso genere? Dello stesso grado di appetibilità? Perché lo sappiamo, i drammi familiari o passionali sono un magnete potente, capace di attirare a sé tantissima pubblicità. Ed è solo di quest’ultima che oramai vive l’informazione. Altro che baluardo della democrazia! Così, l’ipotesi che il fenomeno esistesse da sempre e che adesso fosse semplicemente più comunicato e abbondantemente strumentalizzato era facile da fare. Ed io l’ho fatta.

25-11-2020Ho pensato, senza stare a verificare, che i numeri degli omicidi denominati “femminicidi” dalla stampa fosse di gran lunga superiore rispetto alla base oggettiva del fenomeno. E per un po’ magari ho avuto ragione. Ora no! L’incremento è costante e richiede attenzione! In un post destinato al mio profilo Facebook nel 2018 avevo scritto:  

«La violenza è violenza e non è né maschile né femminile ma universale. Sappiamo comunque che ancora nella nostra società ci sono tante donne in condizioni di svantaggio sull’uomo. Ma allora, evitando ogni retorica, contrastiamo lo svantaggio economico e sociale che rende le donne, talvolta, non libere. Perché di violenze ne subiamo tutti, maschi, femmine, gay, lesbiche, trans, anziani, malati…. La verità è che c’è chi può andarsene e chi no, chi è forte e chi è debole. La vera violenza è l’insicurezza socio-economica che costringe molte donne a subire le altre violenze a cui la vita ci espone. Ci sono due frasi dalle quali fuggire certamente e dalle quali io infatti sono fuggita: “Sei tu che mi provochi!” e anche: “Lo so io di cosa hai bisogno tu”. Ma se quando le si sente non si ha dove andare…».  

La chiave materialistica mi ha sempre convinto. E sono ancora d’accordo con quanto ho scritto a suo tempo. Ma mi rendo anche conto che la questione è complessa. Perché all’indipendenza economica, sociale e psicologica si arriva non soltanto grazie a delle opportunità materiali, che dovrebbero essere pari tra i generi, e pari tra tutti in generale, ma per cultura. È infatti per cultura che ancora molte donne, in Italia e nel mondo, non mettono al primo posto la propria autonomia, non ne fanno il primo obiettivo della propria esistenza, prima dell’amore e della maternità. È per cultura che non ne fanno oggetto di lotta. Naturalmente alcune, oggi molte di più che in passato, lo fanno. Ma l’indipendenza economica che è il prerequisito di ogni altra forma di autonomia, condizione necessaria ancorché non sempre sufficiente, non è per tutte il primo pensiero in fase di crescita. Vorrei precisare che “Lotta” non è un termine che mi piace. Fa pensare a persone negate, messe all’angolo e costrette a reagire scompostamente ad una situazione frustrante. Mi piacerebbe che si concepisse, non il femminismo – altra parola che trovo fastidiosa – ma il senso della Giustizia, in termini assertivi e non reattivi. Questa sarebbe davvero una sconvolgente conquista! 

Nella fase in cui si gettano le basi della propria esistenza, non sempre ci si rende conto di quanto sia importante non consegnarsi ad un uomo, non considerare la relazione di coppia un esito necessario, sufficiente ed esaustivamente positivo. Non sempre ci si rende conto di quanto sia importante asserire la propria libertà, supportando questa asserzione con gli strumenti necessari, primo fra tutti l’istruzione giusta! È per cultura che molte donne accettano l’inaccettabile. Per non parlare ovviamente dei Paesi in cui la questione è civile, politica e religiosa ad un tempo. Non entro nel merito perché non ne ho gli strumenti. Mi limito a qualche considerazione su di noi occidentali, europei. E mi chiedo se l’educazione ai sentimenti e agli affetti di cui oggi si discute tanto non dovrebbe essere affiancata da una educazione ai diritti di cittadinanza, primo fra tutti il diritto all’autodeterminazione, che da formale deve diventare sostanziale, concretamente esigibile per tutti.  

Nell’ultimo anno ci sono state alcune cose che mi hanno indotta a riconsiderare la mia sottovalutazione del fenomeno. Innanzi tutto, il confronto con i numeri. Fonti non giornalistiche come l’Istat o il Ministero degli Interni forniscono un quadro agghiacciante che non può essere ignorato. Oramai sono dati noti. Nel mondo la violenza contro le donne interessa 1 donna su 3. In Italia i dati Istat mostrano che il 31,5% delle donne ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale. Le forme più gravi di violenza sono esercitate da partner o ex partner, parenti o amici .[1]

In secondo luogo, una analisi di coscienza mi ha portata a capire che il mio fastidio verso questo argomento è stato determinato dalla profondissima avversione che ho sempre provato verso la retorica e le risposte simboliche: rischiano di sortire un effetto catartico che poi finisce con l’esaurire la spinta al vero cambiamento: lo risolve in un nastro rosso, in un bell’orange the world… in un hashtag virale o, in altro campo, in una bella fila di lenzuola con scritte antimafia… O, peggio, in un brand sfruttabile che trasforma un valore non negoziabile, ad esempio il rifiuto del pizzo, in un vantaggio competitivo e quindi in uno strumento di negotio. C’è il gluten free e c’è il pizzo free [2] che si vendono entrambi. Ma sì! E perché no?

Lo so, lo so: ogni frase qui potrebbe e dovrebbe aprire spazi di discussione, critica, chiarimento… E mi si potrebbe obiettare che è stato necessario rendere conveniente la legalità per ottenere qualche denuncia in più da parte dei vessati. Io risponderei che ad un progresso pratico non sempre corrisponde un progresso morale. E potremmo discutere il significato del concetto di “progresso”. Ma non vorrei perdere il filo. Insomma sì, lo so che abbiamo bisogno di totem intorno a cui stringerci e che questi sono i totem della contemporaneità. Però anestetizzano. Più ci affidiamo ai simboli, più perdiamo il contatto con la concretezza delle cose e ce ne stacchiamo emotivamente.

Oggi la violenza ha fondato e diffuso una sua estetica, ha creato un codice linguistico che vorrebbe esserle antagonista e finisce con l’estetizzarla e con l’estetizzare la lotta (in questo caso lotta, purtroppo) che dovrebbe essere un fatto concreto, faticoso.

1492421664-femminicidio-ex-fidanzato-che-non-accetta-fine-amorePer affrontare certi argomenti nel contesto pubblico occorrono le immagini, perché siamo “nel mondo delle immagini del mondo”, un luogo infido ma che costituisce oramai il nostro habitat. Tuttavia, quali immagini possono ancora farci provare dolore, paura, rabbia, sgomento, indignazione? Quali immagini possono rimetterci in contatto con le vere ferite? Fino a farci venire la voglia di curarle e prevenirle davvero? Io le sto cercando. Muovendomi in mezzo ai milioni di pixel che oggi invadono la nostra vita, le sto cercando e mi sto chiedendo, per esempio, se le nostre, quelle di noi fotografi, di noi dinosauri in estinzione, possano ancora servire a smuovere il mondo o, più modestamente, a smuovere qualcosa. Temo che oramai possiamo aspettarci poco dal fotogiornalismo; e non per colpa del fotogiornalismo ma per un complesso problema di ecologia dei media. L’esposizione mediatica di ciascuno di noi, singolarmente considerato, e di noi tutti insieme come società ha generato dinamiche del tutto analoghe a quelle delle intolleranze alimentari che poi talvolta sfociano in vere e proprie allergie. Siamo diventati intolleranti alla realtà, allergici alla verità, alla base fattuale delle cose. Questo ci induce a rimuoverla, a negarne l’esistenza, a digerirla solo se trasformata in storie, secondo quel complesso e trasversale processo di stagionatura che chiamiamo storytelling.

Dunque, mea culpa! Avevo buttato l’acqua con tutto il bambino. Si dice così? Avevo permesso che il disturbo del discorso mediatico e sociale diffuso sui femminicidi mi togliesse la capacità di sentire a pieno la gravità del fenomeno.

Una terza cosa che mi ha dato da riflettere è il recente caso di Giulia Cecchettin. Mi sto allineando con tutti coloro che hanno sostenuto che questo caso abbia rappresentato una svolta? Che abbia favorito la definitiva presa di coscienza da parte della collettività? Che ci abbia reso impossibile ignorare il problema della tossicità relazionale che vittimizza soprattutto le donne? Beh, sì!

Giulia era una ragazza, viveva ancora in famiglia, non si era ancora consegnata ad un uomo e non intendeva farlo. Eppure, per un fatto culturale, pur volendo da tempo affrancarsi da quello che sarebbe diventato il suo assassino, si era messa al secondo posto. Aveva messo al secondo posto progetti, ambizioni, speranze e curiosità nei confronti della vita. Al primo aveva messo il timore che lui facesse un gesto sconsiderato contro se stesso. Aveva ceduto ad un ricatto affettivo, equivocando, fraintendendo l’amore. E sbagliandosi su se stessa, attribuendosi una capacità di governo nei confronti del disturbato e depresso Filippo che non era realistica.

Questo fatto, mi ha messo davanti la mia rabbia verso le donne che forse è rabbia verso me stessa, verso la me stessa che per troppo tempo ha rinunciato all’assertività facendosi definire dagli altri. Perché la maggior parte delle donne assassinate, pur dopo aver affrontato reiterati maltrattamenti e minacce, pur dopo aver fatto delle denunce a seguito delle quali le forze dell’ordine avevano intimato all’uomo di mantenersi a debita distanza, sono poi volontariamente andate a un ultimo incontro chiarificatore?

Cosa ci porta a vivere sulla nostra pelle, letteralmente sulla nostra pelle, il massimo della disistima verso noi stesse, cioè a non credere di avere un senso e un valore in mancanza di un uomo, e il massimo della sovrastima della nostra capacità di gestire quell’uomo? Di tenere a freno il suo malato e morboso bisogno di possesso? Ci percepiamo come incomplete senza un lui, senza quel particolare lui e, allo stesso tempo, supereroine nei suoi confronti, capaci di cambiarlo e addirittura di guarirlo? Questa incongruenza si, mi fa rabbia! Tanta rabbia!

31osakaspklL’ho capita meglio attraverso Raffaella Scarpa che mi ha fornito un ingresso secondario al problema della violenza e dell’abuso, ovvero un accesso linguistico. Lei ha studiato la violenza compressa dentro le parole, i toni, i gesti, prima che si palesi e diventi cronaca. Il linguaggio dell’umiliazione e il suo contraltare: l’illusione di controllo insita nell’arroganza. Il totalitarismo linguistico nella vita quotidiana. Il suo libro su Lo stile dell’abuso mi ha dato la giusta prospettiva. Guardando le cose dal suo angolo poco si salva di ciò che noi chiamiamo amore, amore di coppia, affetto genitori-figli, sentimento di appartenenza familiare. Tutto torna alla famiglia e al patrimonio di sensibilità espresse in gesti, sguardi, toni e parole.

Tanti tanti anni fa, durante una breve vacanza a Rimini, trovai tra le bancarelle una felpa di cotone blu con l’immagine di Paperino. Sulla parte anteriore c’era un paperino allegro accompagnato dalla scritta: “Buoni si nasce”. Sulla parte posteriore c’era invece un Paperino imbufalito accompagnato dalla scritta: “Cattivi si diventa”. Ho mostrato questa felpa a tutte le classi di assistenti sociali a cui ho tenuto i corsi di Sociologia della devianza per circa vent’anni. Ritenevo fosse un buon principio da cui partire, che fosse necessario far capire loro che il male non esiste ed esiste invece la cattiva socializzazione o, in casi limite, la malattia psichiatrica. Ma cosa ne penso oggi? Penso che i confini tra la cattiva socializzazione, con tutto ciò che si cela dietro questa espressione, e la malattia psichiatrica si siano fatti confusi. Che siamo in una situazione in cui la cattiva socializzazione non è più un esito eccezionale ma un fatto generalizzato.

Credo sia vero che il problema è antico. Ma oggi la violenza compressa o espressa verso le donne fa parte di una tendenza generalizzata all’aggressività che emerge diffusamente. Ne rappresenta un aspetto con elementi peculiari che però fa parte dei molteplici effetti di un rapporto contraddittorio, patologico con la libertà che caratterizza la nostra epoca. Siamo potenzialmente più informati ma di fatto disinformati dalla sovrabbondante informazione di dubbia qualità; potenzialmente più liberi ma di fatto schiacciati dalla precarietà materiale ed esistenziale dovuta alla globalizzazione. Il bisogno di certezze ci rende pazzi. Questo tipo di stress penetra anche tra le fibre dei rapporti tra i generi. E bisogna dirlo, a costo di essere criticati dai più, non sono soltanto gli uomini ad essere disorientati di fronte a delle donne con valori, ambizioni, priorità diverse rispetto al passato, ma sono le donne stesse ad essere disorientate dal conflitto tra senso di protezione (dell’uomo-bambino, dell’uomo padrone che fa il cattivo ma infondo è un brav’uomo, della famiglia che è sempre la famiglia anche quando fa schifo, dei figli che sono mezzi bulli ma in quanto figli vanno sempre difesi) e l’ambizione legittima all’autodeterminazione vissuta con senso di colpa come un tradimento.

In una società che negli ultimi trent’anni è stata sistematicamente disabituata al dialogo, in un contesto sociale dove si urlano slogan, ci si aggrega in fan club e si spegne ogni possibilità di contraddittorio, come possiamo pensare che uomini e donne trovino il modo di far coesistere armonicamente le proprie istanze?

L’aggressione e la violenza sono l’equivalente di uno slogan non urlato ma agito, sono la concretizzazione di un’ubriacatura collettiva in cui tutti pensano di poter parlare, a prescindere dalla qualità del dire, e lo fanno imponendosi, alzando il volume, e nessuno pensa di dover ascoltare.  Uomini e donne, maschi e femmine, abitano in questo mood che ingigantisce tutti i vecchi problemi della relazione tra i sessi.  

Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024

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Anna Fici, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi per i Corsi di Laurea di Scienze della Comunicazione presso l’Università di Palermo, ha coltivato parallelamente alla carriera accademica la pratica fotografica, che l’ha portata a vincere nel 2002 l’Internazionale di Fotografia di Solighetto (Tv), con il lavoro «Facce di Ballarò». A partire da quell’anno ha ricevuto numerosi riconoscimenti e ha svolto diverse mostre personali, prevalentemente nell’ambito dei Festival della Fotografia italiani. Oggi coordina dei laboratori di Fotogiornalismo per i corsi di Scienze della Comunicazione. È inoltre Direttore artistico di Collettivof – http://collettivof.com – un collettivo di fotografi di recente costituzione. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Nella giostra della Social Photography, Mondadori (2018); La linea spezzata. Una ricostruzione critica dell’attuale deficit di coerenza, Libreriauniversitaria.it Editrice (2021).

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