Di cosa si occupano le assai dense 85 pagine – 91 se si includono bibliografia e profili delle autrici – di Vietato a sinistra, saggio curato da Daniela Dioguardi (Castelvecchi, Roma, 2024)? A firma di autrici diverse, il sottotitolo esplicita che il libretto presenta dieci interventi femministi su temi scomodi. Come evidenzia Francesca Izzo nell’introduzione, tali articoli «illustrano gli effetti paradossali, a volte grotteschi, prodotti dalla ossessiva ricerca, imperante nella cultura ‘mainstream’, dell’inclusione, della parità, del diritto eguale a scapito della differenza sessuale». «In nome di questi principi, a prima vista così ‘corretti e democratici’ – scrive ancora Francesca Izzo – accade che venga cancellato il riferimento alle donne nel contrasto della violenza maschile (…), venga fatto cadere il riconoscimento di una peculiare storia politica delle donne, accade che si tormenti la lingua (…). In nome della libertà si sdoganano prostituzione, maternità surrogata, pornografia e si tenta di archiviare tra i reperti del patriarcato il dato reale e simbolico che i sessi sono due. Ma quel che rende le cose particolarmente inaccettabili è che queste posizioni (…) fanno affidamento sul consenso esplicito o sul silenzio complice o timoroso di gran parte dell’opinione e della politica progressista».
Infatti «la narrazione che si è imposta nei media e nel mondo ‘progressista’ ha ruotato intorno a un paio di assunti semplici e indiscutibili. Innanzitutto è stato sostenuto che il confronto è tra la posizione ‘laica’ (di chi è favorevole alla pratica dell’utero in affitto) e la posizione ‘ideologica’ (di chi è contrario). La gherminella retorica ha puntato a evocare nell’opinione pubblica l’idea che, essendo la laicità cosa buona e giusta e l’ideologia una roba piuttosto perversa, i contrari alla surrogata sono una banda di oscurantisti, moralisti e spregiatori della libertà, ivi comprese le femministe. Ma così – aggiunge ancora Francesca Izzo – ci si può risparmiare di argomentare nel merito, di dire, dal proprio punto di vista, cosa è la surrogata, cosa comporta per la procreazione umana e per il bambino oggetto di tale pratica».
Propongo qui di seguito allora una panoramica sintetica degli articoli, i cui contenuti hanno una grande valenza antropologica, prima che politica; con l’auspicio di stimolare in chi legge un’autonoma riflessione riguardo a tematiche così importanti. Nello scritto La misura della parità, dopo aver puntualmente elencato le leggi che, a partire dall’introduzione del divorzio nel 1970, hanno rimosso gli ostacoli giuridici all’autonomia economica, giuridica e sociale delle donne (L.1204/1971, tutela della maternità; riforma del diritto di famiglia del 1975; L.903/1977, parità di retribuzioni tra donne e uomini; L.194/1978, possibilità legale dell’interruzione di gravidanza; L.66/1996, riconoscimento della violenza sessuale come reato contro la persona), l’autrice Silvia Baratella sottolinea che la loro applicazione è assai parziale, in quanto purtroppo «le nuove norme si inquadrano in un sistema perfettamente compatibile con l’esclusione femminile» senza metterla veramente in discussione. Infatti: «a lavoro uguale il reddito delle donne resta inferiore a quello degli uomini (…), l’uguaglianza giuridica di marito e moglie non ci ha sgravate dalle responsabilità domestiche, le strade di notte non sono ancora sicure per le donne e le nostre case non lo sono neanche di giorno…»
L’autrice quindi, prendendo spunto da una fulminante battuta dell’umorista femminista Pat Carra («Donne e uomini devono essere uguali». «Uguali agli uomini o alle donne?»), afferma che «la parità è una risposta restrittiva alla libertà femminile», in quanto, a suo avviso, «anche se è stata cancellata la precedente legislazione inferiorizzante e censoria, sono stati posti alle donne nuovi vincoli». Di conseguenza, le donne non dovrebbero impelagarsi «nella rivendicazione di nuove e complicate norme che ci si ritorcono contro, bensì fare vuoto legislativo, continuando l’opera di eliminazione di quelle leggi che ci disconoscono, ci subordinano agli uomini». Certamente, conclude l’autrice «non si tratta di disprezzare né di buttar via i guadagni degli ultimi sessant’anni (…) ma di iscriverli in un nuovo paradigma, in cui le donne in relazione tra loro siano fonte e legittimazione della propria libertà e negozino con gli uomini un nuovo e più civile spazio pubblico. Perché la libertà femminile è libertà per tutti».
Marcella De Carli Ferrari, come si evince dal titolo molto netto del suo intervento La cancellazione della madre attraverso la legge sull’affido condiviso, mette in discussione la legge 54/2006 sull’affido condiviso che, a suo avviso, ha privilegiato le istanze maschili che «reclamavano il presunto diritto paterno a una gestione condivisa dei bambini, con conseguente riduzione o abbattimento dell’assegno di mantenimento ai figli». Inoltre, la legge premerebbe l’acceleratore sull’ideologia paritaria, che ridurrebbe le differenze nei ruoli genitoriali e affermerebbe l’intercambiabilità di madre e padre nella cura dei figli. Docente e attivista femminista (a Milano, nel suo quartiere, ha dato vita al collettivo Donne di Baggio), Marcella De Carli Ferrati sostiene quindi che la l. 54/2006, specie nei contesti di separazioni giudiziali e, soprattutto, a seguito a violenza domestica o abusi sui minori, «produce dissociazione e promuove la violenza stessa, dal momento che ritiene che la convivenza con entrambi i genitori (paritaria o meno) sia un valore in sé e non tiene conto dei bisogni dei bambini e delle bambine». E, di conseguenza, ne chiede una revisione legislativa, per tutelare i bambini e le loro madri, sulla base dell’effettivo riconoscimento della specificità del legame materno e dell’interesse supremo dei minori.
Lorenza De Micco e Anna Merlino, nello scritto C’era un’assemblea civica sulla genitorialità sociale a Milano, raccontano la loro esperienza di partecipazione a un’assemblea civica che, organizzata da Eumans [1] e finanziata dall’Unione Europea, si è tenuta a Milano, presso la sede dell’Università di via Festa del Perdono, il 19 e 20 ottobre 2023. Le autrici ricordano innanzitutto che le assemblee civiche sono «una forma di democrazia deliberativa dove cittadine e cittadini producono ‘raccomandazioni’. Le quali, pur non essendo decisioni politiche, che restano in capo alle rispettive assemblee rappresentative, informano queste ultime della posizione di uno spaccato rappresentativo della popolazione interessata (…) relativamente a un determinato tema di interesse pubblico (…) . Pertanto – sottolineano ancora – affinché si formi un’assemblea civica, e affinché la stessa produca le sue raccomandazioni, sono necessari due requisiti: l’assemblea deve essere un campione rappresentativo della popolazione, e il dibattito deve poter ospitare tutte le prospettive».
Le due donne hanno invece constatato che la citata assemblea civica milanese non è stata affatto rappresentativa né nella formazione della platea della cittadinanza chiamata a discutere, e neppure nella scelta dei relatori. Non vi è stato infatti dibattito: ad esempio, sulla GPA (Gravidanza per Altri) «la nostra è stata l’unica voce fuori dal coro – affermano le partecipanti – qualificata immediatamente come antiquata e retrograda, e alle nostre rimostranze sulla scarsa rappresentatività dell’assemblea, qualcuno ha avuto l’ardire di affermare che “la democrazia è superata e tocca agli Illuminati indicare la via”».
Daniela Dioguardi, nello scritto Mercato, libertà e censura del pensiero, sottolinea «i danni che produce una convivenza fondata sulla neutralizzazione della differenza e sulla pervasività di un mercato sempre più onnivoro». La curatrice del volume evidenzia poi che, nella sua storia di comunista e di femminista, ha sempre ritenuto necessario che si ponessero limiti e controlli al mercato e che la libertà dovesse coniugarsi col senso della complessità, specialmente «in un’epoca in cui predomina l’individualismo egoistico, sempre più sfrenato, in cui l’io esclude il noi (…) . Tuttavia da alcuni anni sembra che parte della sinistra e del femminismo vadano in direzione opposta, appoggiando posizioni come la teoria dell’identità di genere, la GPA, il sex work (…). Sono posizioni che si presentano come novità trasgressive, di rottura con il patriarcato e con il sistema capitalistico – continua Daniela Dioguardi – diventando oltremodo seduttive agli occhi dei giovani e delle giovani. (…) Inoltre usano la terminologia dell’inclusione e della lotta alle discriminazioni, cara al mondo progressista dei diritti. Si pongono come verità assolute, incontrovertibili, depositarie della modernità e del progresso».
In tale contesto, come è capitato alla Dioguardi, »chi osa manifestare un pensiero diverso, esprimere una critica, un dissenso viene bollato come di destra, reazionario, bigotto, conservatore, perfino fascista e si tenta in vari modi di metterlo a tacere». Nel nostro Paese (e non solo, viene citato il documento pubblicato nel 2020 su «Harper’s Magazine» contro l’intolleranza di chi impone il pensiero unico) su molti dei delicati temi citati – GPA, identità di genere, sex work – si è creato un clima di intimidazione che impoverisce il dibattito pubblico e il senso delle scelte politiche, svuotando di senso la dialettica autentica e democratica.
L’autrice auspica invece che su una materia così sensibile e complessa, con conseguenze così importanti sugli aspetti più profondi della persona umana, si apra finalmente un dibattito serio, che faciliti la diffusione di informazioni complete e corrette e il confronto tra opinioni diverse, perché non si depauperi la dimensione umana della vita sociale. (Si ricorda che Daniela Dioguardi, da deputata nella XV legislatura, è stata prima firmataria di una proposta di legge [2] che prevedeva l’adozione dei minori da parte delle persone singole e delle coppie conviventi).
Caterina Gatti, che dal 2005 realizza documentari su temi a carattere sociale, tra cui interviste a sopravvissute alla prostituzione, nel suo articolo intitolato Prostituzione, pornografia e libertà, è in disaccordo sull’eventualità che la prostituzione – o sex work – sia considerata e assimilata a un lavoro come un altro perché «il grande equivoco è pensare alla prostituzione come a una conquista sessuale. Certamente se lo fosse, e ne dubito, potrebbe essere vero solo per i clienti, perché per le donne prostituite niente è più lontano da una sessualità libera che soddisfare in qualche modo il desiderio dell’altro». L’autrice fa presente infatti come «le donne prostitute sono, per definizione, donne al servizio del desiderio dell’altro (…). La prostituzione coinvolge nel mondo milioni di donne, di bambini e di bambine. Si tratta sostanzialmente di una grave violazione di diritti umani, come sentenziato anche nel 2019 dalla Corte costituzionale». E ancora: «Accettare che sia normale fare di un corpo di donna un oggetto, e farlo con tutte le implicazioni simboliche ed emozionali che la sessualità implica, finisce per riguardare tutti noi, uomini e donne (…) che vivono in una rete di relazioni in cui possiamo trovare diffusa (…) la stessa trama, il fantasma dello stesso bisogno di potere e di controllo del maschio su una donna».
Caterina Gatti si interroga allora a quale idea di autodeterminazione e di libertà femminile si voglia oggi pervenire, visto che purtroppo, in alcune occasioni, è stato assai difficile portare il dibattito in alcune aree progressiste. E conclude affermando che «forse liberare le donne e il desiderio delle donne potrebbe liberare anche quello dell’uomo dalla morsa dell’identificazione con il potere e con la sua faccia oscura, quella del fallimento. Un fallimento che a volte può sconfinare in violenza o in femminicidio».
Cristina Gramolini e Roberta Vannucci all’inizio del loro scritto sottolineano che da tempo la società italiana si è resa conto di aver causato sofferenze a gay, lesbiche e trans con la sua morale sessuale e ora «si sente chiaro l’entusiasmo dei giovani per la acquisita libertà di scelta sessuale e sentimentale. La ‘rivoluzione gentile’ ha finalmente vinto, con le armi dell’ironia, dell’arte, della nonviolenza, del coming-out». Ma, come recita il titolo del loro articolo, oggi La ‘rivoluzione gentile’ non è più gentile. Le autrici citano infatti, ad esempio, alcuni episodi di intolleranza verso gruppi non favorevoli alla GPA: per averla criticata, l’associazione ArciLesbica è stata cacciata dal Cassero di Bologna, sede che condivideva con Arcigay dal 1996; alla Fiera dell’editoria femminista di Roma il 5 marzo 2023 si doveva presentare Sex work is not work [3], «ma, invece di intervenire con i propri argomenti critici, persone favorevoli al sex work hanno impedito lo svolgimento dell’incontro»; su Wikipedia si notano pregiudizi e/o disinformazione su argomenti come il femminismo radicale.
Perché? Le autrici avanzano anche una spiegazione socio-politica: «ambienti dell’antagonismo, a corto di movimenti da egemonizzare, hanno da qualche tempo scelto il Pride e le manifestazioni femministe per mettersi alla testa di masse da radicalizzare e vi hanno portato i loro metodi e la loro estetica ribellista». Ribadiscono infine che « non è femminista attaccare fisicamente e virtualmente altre donne (…). Non è progressista appiattirsi sulla smania LGBT+ di vietare le critiche, né abdicare alla ricerca di sintesi tra istanze sociali diverse; invece sarebbe compito della sinistra quello di comporre i diversi bisogni in diritti che non si contrastino l’un l’altro».
Doranna Lupi, nell’articolo I sessi sono due come oltraggio all’inclusività, racconta innanzitutto la nascita nel 1993 a Pinerolo, in Piemonte, su iniziativa di Beppe Pavan, del primo gruppo di autocoscienza maschile in Italia: Uomini in Cammino, gruppo che ha affermato la propria estraneità rispetto alla cultura patriarcale, si è interrogato sulla violenza maschile sulle donne e ha iniziato un reale confronto con le femministe presenti sul territorio. Nel 2007, anche grazie all’opera di Pavan, si è poi costituita l’associazione nazionale Maschile Plurale, una rete di gruppi locali formata da uomini con storie, età e percorsi diversi, ma accomunati dal progetto di rifiutare la cultura patriarcale che permea la società. A Pinerolo, la collaborazione tra gruppi di donne e gli uomini appartenenti a Uomini in cammino, Liberi dalla Violenza e Maschile Plurale è culminata dal 2018 al 2020 nella comune partecipazione alle manifestazioni del 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.
Ma nel 2021 il nuovo nome scelto a Pinerolo dall’assessorato alle Pari Opportunità per il tavolo delle associazioni, Pari percorsi e questioni di genere, portava alla presa di posizione di un’associazione che decideva di non partecipare alla giornata del 25 novembre in quanto l’esistenza di due cortei, uno di donne e uno di uomini, avrebbe escluso le persone che non si riconoscevano appartenente a uno dei due generi. Doranna Lupi riferisce quindi che dal 2022 non si sono più organizzati i cortei separati e nel 2023 sono stati sospesi anche gli incontri del tavolo delle associazioni. L’autrice constata poi che purtroppo «si fa avanti un pensiero sulle intersezionalità e sulla fluidità di genere che intercetta soprattutto le nuove generazioni e ostacola fortemente la differenza sessuale intesa come soggettività maschile e femminile. (…) Un pensiero che ha ripercussioni concrete in molti ambiti del nostro agire, con cui sembra quasi impossibile trovare un terreno comune di confronto e di dialogo (…). Mentre sarebbe necessario un confronto autentico, reale, ognuna e ognuno a partire da sé, andando oltre i fraintendimenti ideologici e gli schieramenti».
Laura Minguzzi, nello scritto Vietato dire donna, si occupa dell’interconnessione tra il linguaggio sessuato e la nascita da un corpo di donna; per questo, a suo avviso, è fondamentale prestare una grande attenzione al linguaggio e al suo valore simbolico. L’autrice è convinta che la cancellazione del linguaggio sessuato (con asterischi, schwa, et, self-id, ecc.) e, quindi, la rappresentazione delle donne con un neutro indifferenziato possano portare a una cancellazione, in qualche modo, della specificità della maternità e del sesso femminile: «un indizio rivelatore è stata la tendenza all’imposizione di sostituire la parola ‘donna’ con ‘persona che mestrua’ (…). Ci siamo accorte, a nostre spese, che con la proclamazione dell’inclusione universale qualcosa resta escluso: noi, per l’appunto, quelle che non vogliono rinunciare alla potenzialità del corpo sessuato e di conseguenza al linguaggio della dea, per citare l’archeologa Marija Gimbutas».
Laura Minguzzi aggiunge poi che, anche se la famiglia moderna non è più patriarcale, «sottintende comunque la cancellazione della donna». E si chiede: «Finito l’ordine patriarcale, rimane forse la misoginia, con la cancellazione delle ‘donne di sesso femminile’ che non si adeguano. Stiamo vivendo una fase di passaggio, detta da alcune fratriarcato, che rifugge il riconoscimento del legame materiale con le viscere».
Lia Cigarini in La politica del desiderio e altri scritti [4] sostiene invece una sorta di ‘fratellanza matriarcale’, capace di liberare anche gli uomini che «possono così riconnettersi a quella parte di sé cui il patriarcato aveva imposto il distacco, non cancella l’asimmetria tra i sessi e non imbocca la via dell’indifferenziato neutro». Laura Piretti, nel suo scritto Il femminismo al tempo del RUNTS, rende noto che, nell’estate del 2023, il Registro Unico Nazionale del Terzo Settore dell’Emilia Romagna ha inviato ad alcune associazioni UDI della regione iscritte come APS (Associazioni di Promozione Sociale) l’avviso che il loro statuto, che prevede l’iscrizione solo di socie, non risultava consono alla democraticità che deve caratterizzare le APS. L’autrice osserva che tale richiesta pone un grande problema politico e culturale insieme: ricorda intanto che le associazioni femminili sono riconosciute dalla Convenzione di Istanbul (del 2011) «come parte integrante del cambiamento culturale e della prevenzione di tutte le forme di discriminazioni contro le donne, a partire dalla violenza». Quindi non operare discriminazioni, per un’associazione come l’UDI, significa rispettare i limiti e lo spirito della Costituzione italiana, non praticando esclusioni sociali (di lingua, religione, cultura, etc.) ma, ribadisce Laura Piretti, «la differenza sessuale uomo-donna non appartiene alla discriminazione sociale».
Allora «affidare la democraticità delle associazioni femminili e l’apertura alla società (…) all’aggiunta della parola ‘soci’ nello statuto è questione meno innocente di quanto potrebbe sembrare. Significa banalizzare seriamente il concetto di democrazia, significa non accettare che essa sia incompleta non se nelle associazioni femminili non è previsto l’ingresso di soci, ma se la società (o i registri del terzo settore) non contemplano la piena cittadinanza delle donne».
Infatti «il femminismo (…) si è confrontato, nel tempo e nel corso delle lotte, con la richiesta, con valenze soprattutto giuridiche e sociali, di uguaglianza/parità/pari opportunità, mai rinunciando alla basilarità della differenza sessuale uomo-donna. Che è a fondamento della libertà femminile e dei diritti che da essa conseguono».
Stella Zaltieri Pirola, nell’ultimo contributo «Per me le cose sono due»: la parola ‘femminista tra svuotamento e risignificazione, si interroga sulle inedite accezioni che la parola ‘femminista’ sta assumendo verso fette piuttosto ampie di ‘nuove’ donne, specie giovani, che «si scoprono pragmatiche verso questa possibilità di investimento: il corpo». Oggi, quindi, «l’autodeterminazione viene ridotta a uso del corpo e dell’immagine a scopo di profitto». L’autrice sottolinea allora la forte presenza odierna di “«un movimento antagonista per le libertà sessuali che si autodefinisce transfemminista, si sovrascrive al femminismo e detta alle più giovani la nuova interpretazione dello slogan «il corpo è mio e lo gestisco io», nel senso di “il corpo è mio e lo vendo io”». Succede così, continua Stella Zaltieri Pirola, che «nella weltanschauung tranfemminista la prostituzione è un lavoro come un altro se svolto in proprio e il sistema prostituente è taciuto: è politicamente corretto non giudicare che recluta le donne prostituite e che le usa sessualmente, mentre chi denuncia sfruttamento e abusi è bersaglio di accuse…».
L’autrice cita poi l’attivista inglese Julie Bindel che, in un suo libro [5], scrive: «Al giorno d’oggi sembra che sia ‘femminismo della scelta’ affermare che qualsiasi scelta fatta da una donna sia femminista, semplicemente perché è una donna a prendere quella decisione. Il femminismo dovrebbe porre una seria sfida al patriarcato, e se non lo fa non è vero femminismo».
Per la ricchezza dei temi trattati, Vietato a sinistra – il volume ha vinto il XXV Premio di scrittura femminile “Il Paese delle Donne”-2024 per la sezione Saggistica – ha quindi il merito di riaccendere la discussione sull’essenza del femminismo oggi. A proposito di un tema-cardine nel libro appena analizzato, in Donne che allattano cuccioli di lupo [6] la filosofa femminista Adriana Cavarero descrive la maternità come esperienza generativa, amorosa e trasformativa di indiscussa potenza.
Ecco cosa scrive a proposito Floriana Coppola, che ha intervistato la filosofa femminista per il giornale “Letterate Magazine”:
«Il tema della maternità rimane, oggi più di prima, una questione complessa, in bilico tra un’ingenua, idilliaca e accattivante celebrazione del destino biologico della madre e la denuncia femminista del suo essere prigione, fino al più moderno e controverso dibattito sulla madre surrogata e l’utero in affitto. Adriana Cavarero contrasta anche la posizione filosofica di Simone de Beauvoir, che, nel suo famoso saggio ‘Il secondo sesso’ (1949), considera la funzione riproduttiva come un rigido destino biologico, da cui ogni donna si deve liberare per realizzarsi come soggetto libero e aspirare alla trascendenza, oltre la mera conservazione della specie.
Storicizzando le affermazioni di De Beauvoir, che operava in un’epoca dove il ruolo della donna/madre/schiava del sistema patriarcale era un dato incontrovertibile, dopo oltre settanta anni possiamo condividere la posizione di Adriana Cavarero nell’affermare con Luce Irigaray che non è il dato biologico della riproduzione la trappola principale per la donna: ciò che bisogna superare è questo anti-biologismo filosofico, promuovendo una diversa opinione del bio, senza combattere la zoe. E in questa direzione di ricerca rimane valida ogni interpretazione filosofica e politica, che sposta il baricentro del primato dell’uomo sulla natura, valorizzando una concezione ecologica, tesa a proteggere il nodo biologico che lega tutti i viventi in un’unica rete, in un’incessante rigenerazione, oltre la violenza maschile e guerrafondaia».
Ci si chiede allora se le femministe di oggi siano pronte a rivisitare i fondamenti delle loro battaglie storiche. Bisognerebbe forse essere capaci di un colpo d’ali che si contrapponga alle sirene dell’autodeterminazione fondata sul mito dell’assoluta libertà individuale; bisognerebbe forse costruire nuove frontiere e nuove prospettive, cercando magari una nuova ‘sororità’ con quelle donne che, senza sconfessare la 194, considerano l’aborto, più che un diritto, una dolorosa necessità e si impegnano per una maggiore diffusione della contraccezione per evitare gravidanze indesiderate.
Bisognerebbe ancora, infine, come realizzato a Palermo dal Presidio di donne [7], operare una costante saldatura con i movimenti nonviolenti, con tutte le donne e gli uomini di buona volontà e impegnarsi perché la guerra, frutto di un sistema patriarcale, militarista e bellicista, sia posta fuori dalla Storia. Ed è infine necessario che i movimenti femministi operino una inedita ‘santa alleanza’ con tutti coloro che si battono per la salvaguardia dell’ambiente, che dovrebbe stare al primo posto di ogni seria agenda politica. Saranno pronte le donne per questi nuovi importanti appuntamenti con la Storia?
Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
Note
[1] https://www.eumans.eu/who-eumans-are
[2] Atti parlamentari, Camera dei Deputati, XV legislatura: Proposta di legge n.3400, d’iniziativa dei deputati Dioguardi. De Simone. Presentata il 1° febbraio 2008.
[3] I. Baldini et al., Sex work is not work. La prostituzione non è un lavoro, Ortica Editrice, Anzio-Lavinio 2023.
[4] L. Cigarini, La politica del desiderio e altri scritti, Orthotes, Napoli 2022:178-179.
[5] J. Bindel, Femminismo per donne. L’unica strada per la liberazione, VandA edizioni, Milano 2021:166.
[6] A. Cavarero, Donne che allattano cuccioli di lupo, Castelvecchi editore, Roma 2023.
[7] M. Pasinati (a cura di), Corpi e parole di donne per la pace, Navarra editore, Palermo, 2024.
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Maria D’Asaro, già docente e psico-pedagogista negli Istituti di istruzione secondaria di I grado, è oggi counsellor a indirizzo gestaltico e giornalista pubblicista. Collabora dal 2018 con il giornale on line il Punto Quotidiano https://www.ilpuntoquotidiano.it/ ; cura dal 2008 il blog maridasolcare https://maridasolcare.blogspot.com/ dove scrive di letteratura, politica, ecologia. Ha curato con Ornella Giambalvo il testo di Cosimo Scordato Libertà di parola (Cittadella Editrice, 2013) e ha contribuito con un capitolo al libro di Andrea Cozzo La nonviolenza oltre i pregiudizi (Di Girolamo editore, 2022). Ha pubblicato il libro Una sedia nell’aldilà (Diogene Multimedia, 2023).
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