Non ho mai smesso di “fare il presepe”. Ogni anno, in luoghi diversi, in modi e forme diversi. Paesaggio e architettura di un luogo che appartiene alla mia infanzia come a quella di molti, il presepe è parafrasi di memorie familiari e di affetti domestici. Da bambino incrementavo la collezione dei pastori di cartapesta conservati dentro una grande scatola di legno investendo in prossimità del Natale i piccoli risparmi che mettevo da parte a questo scopo. La bottega ove mi recavo era sempre la stessa, che ricordo buia e stretta, e per questa misteriosa oscurità ancor più magicamente attraente. La visitavo spesso prima di prepararmi all’acquisto. La costruzione era un cimento che coinvolgeva tutti in famiglia e disordinava la casa, nella gioiosa ricerca di sugheri e muschi, di rametti e aghi di pino, di pietre, sabbie e vetri. Nulla di prezioso o di particolarmente elaborato era nell’uso dei materiali e nelle tecniche di allestimento, nulla di ingegnoso nell’impianto scenografico, nei giochi di luce a intermittenza, nei cieli di carta azzurri e stellati, nel ruscello di carta stagnola e nel laghetto ritagliato da un frammento di specchio. I sugheri erano disposti a simulare le balze di montagna, la sabbia ocra sparsa a immaginare il deserto, le fronde di alloro a coronare la capanna, screziata dai candidi fiocchi di neve sfilacciati dall’ovatta.
Lo spazio era sempre un angolo del soggiorno sgomberato per l’occasione, due tavole sorrette da una base ricoperta da un telo scuro. Un “recinto sacro” destinato ad essere animato una volta all’anno da casette e sentieri, uomini e animali. Il numero crescente dei pastori ne variava la composizione, la loro collocazione nella rinnovata ambientazione, ma immutati restavano il disegno complessivo, il nucleo narrativo, la fabula. Entro la cornice della capanna abitavano la Sacra Famiglia, il bue e l’asino, gli angeli e la cometa. Nel villaggio inventato in cui irrompeva l’epifania del Divino si dispiegava la dimensione quotidiana del vivere, l’umanità dei mestieri, l’immagine allegorica della comunità. La ricerca del verosimile declinava in soluzioni surreali. Ricordo la filatrice con in cima all’aspo un vero batuffolo di cotone. I trucioli di legno sparsi nella bottega del falegname. Sotto l’albero fatto di foglie di arancio non mancava mai il dormiente, sulla cima e nelle pieghe della montagna spiccava ben visibile lo spaventato. Due figure complementari e consustanziali dell’aura sospesa, del rapimento estatico, ovvero di quel sentimento dell’incantesimo che è sostanza e cifra essenziale della rappresentazione illusionistica, del sistema rituale, ludico e cosmogonico.
Nell’inconsapevolezza degli ingenui anacronismi non mi accorgevo dell’incongruenza del cacciatore col fucile tra l’arrotino e la lavandaia, del venditore di fichidindia nell’improbabile Palestina ove questa pianta non esiste. Né percepivo le sproporzioni tra l’altezza della statuina e la piccolezza delle casupole di corteccia, del Bambinello di cera più grande della stessa mangiatoia. Mi sfuggivano, in tutta evidenza, non solo i criteri dell’ordine di scala, ma anche e soprattutto i significati profondi del presepe che era negli occhi del fanciullo di allora un meraviglioso ed enorme giocattolo, un gioco fiabesco di costruzione mai finita, un boccascena plastico e creativo dell’immaginario. Una sorta di bricolage. Piccole mani muovevano ogni giorno i pastori lungo i percorsi come in una processione, i Re Magi carichi di doni erano piano piano spostati in una marcia di avvicinamento alla grotta, si aspettava la mezzanotte del 24 per deporre Gesù Bambino sulla bambagia della mangiatoia. Era dunque un teatro mobile, un racconto visivo e performativo, un’opera in progress, una scenografia canonica eppure cangiante per una sceneggiatura sottintesa e permanente. Era una fascinosa macchina compositiva, che raccoglieva e appagava i riti della finzione, le fantasie infantili, i desideri della famiglia.
A Natale in casa non entrò mai l’Albero addobbato con le palline di vetro colorate, i fiocchi, le decorazioni e i mille regali che oggi accendono le attese. La tradizione dei doni ai bambini era associata alla festa dei morti, alla strenna dei giocattoli e soprattutto dei canestri pieni di noci e caramelle, dei frutti di marzapane e del favoloso pupo di zucchero. Dell’intimità di quelle giornate invernali ricordo i geloni ai piedi per il freddo ma anche il valore e il calore della famiglia allargata, i penetranti odori di cucina, il profumo dei biscotti ripieni di fichi secchi appena sfornati. Della ricorrenza natalizia le novene erano le musiche che ne annunciavano l’avvento e il presepe l’immancabile appuntamento che si ripeteva eguale nelle sue sequenze, a partire dall’8 dicembre fino al giorno dell’Epifania. Un evento che nella sua reiterazione riteneva il senso della ciclicità del tempo, della sospensione dello spazio, della riproduzione della vita. Concetti irriflessi ed estranei all’ingenuità della fanciullezza, temi che avrei scoperto e studiato anni dopo nelle pagine degli antropologi.
«È il tempo ciclico che nel suo moto circolare ripercorre i suoi stessi passi e ne rinnova ad uno ad uno gli eventi, quelli della natura come estati e inverni, e quelli generati dalla storia o cultura. Ogni punto del cerchio è un presente che torna a farsi tale: ciclico appunto, e dunque in qualche modo infinito o eterno. Ma il centro attorno a cui ruota il cerchio del tempo ciclico – come il mozzo delle ruote di un carro in movimento lungo una strada – viene spostandosi sull’asse irreversibile del tempo lineare: anni, secoli e millenni».
Così scriveva Cirese nell’introduzione ad un volume sui Presepi di Puglia (1997: 9). Così imparai presto a guardare al presepe come ad un artefatto densamente simbolico, a cercarvi il paradigma mitico che nel convertire il caos in cosmos presentifica lo spazio e rigenera la spirale del tempo. Dalla vicenda esemplare del Fanciullo Divino che viene al mondo nell’asperità e nudità della Natura, da quel fondo oscuro e segreto dell’antro che unisce la terra al cielo, tra le fredde e inospitali rocce e il calmo e tiepido respiro dell’asino e del bue, scaturisce non soltanto il calendario dell’umanità ma anche la rifondazione dell’essere oltre il divenire.
Quando la preziosa scatola che custodiva gli amati pastorelli andò dispersa (o rubata) in una fase di ristrutturazione della abitazione paterna, ho continuato a “fare il presepe” con poche simboliche statuine disposte sul fondale di un vecchio libro illustrato che, aperto, dispiega in una prospettiva tridimensionale il paesaggio convenzionale con le figure ritagliate dei protagonisti della Natività. Ho via via acquistato a Caltagirone nuovi pastori da anziani artigiani che replicano su calchi di gesso i personaggi tradizionali. Li accoglie una nicchia della mia libreria, un piccolo spazio sottratto per l’occasione ai volumi e sospeso tra gli angeli e i Magi. Il presepe che ogni anno compongo e ricompongo non è un semplice sopramobile né un’elegante suppellettile. Non un effimero addobbo ma nemmeno un vano feticcio da confondere con gli altri scintillanti oggetti del nostro Natale. È piuttosto la persistenza di una testimonianza, la volontà di una resistenza, l’illusione che nel microcosmo di quella vita rappresentata ci sia un frammento della vita vissuta, e di questa quella costituisca, a livello delle strutture profonde, una forma di riscatto, la trasposizione iconografica della memoria domestica e familiare, un argine alla sua definitiva cancellazione.
Negli anni ho puntualmente rinnovato davanti ai miei figli il gesto di ricomposizione della minuscola sacra rappresentazione, che, sull’esempio dell’apologo di Edoardo De Filippo, è piantata come una bandiera nel cuore della casa, nel mezzo delle quotidiane abitudini, quella “cosa commovente” di cui parla Luca Cupiello, inutile e perciò stesso necessaria, luogo simbolico in cui è possibile dare speranza alla speranza e soluzione alle contraddizioni del nostro tempo. Perché, a pensarci bene, “fare il presepe” ogni anno non è soltanto un rito, intimo e privato. È un po’ come “rifare il mondo” o provare a fare – come ha scritto Vincenzo Consolo (1998: 9) – «la nuda creazione di un ritaglio del mondo».
A queste sommarie esperienze autobiografiche ho ripensato dopo aver letto il volume di Maurizio Bettini, Il presepio (Einaudi 2018), che nel Preambolo spiega le ragioni per le quali ha a lungo allestito il presepe: «Sono quasi certo – scrive – che attraverso il presepio, e attraverso gli occhi di mia figlia che lo guardava, volevo ripetere la mia infanzia e trasferirla nella sua. Credo anzi che questo impulso sia comune a gran parte di coloro che per tutta la vita, quando Natale si avvicina, si ingegnano a rispettare questa tradizione». Ha ragione Bettini, nel cogliere nel senso del tradere implicito nel concetto di tradizione il valore profondo del costume di “fare il presepe”. De te fabula narratur. Nella Natività del Fanciullo Divino rimemoriamo, in verità, la nostra infanzia perduta, ritroviamo il tempo consumato, esorcizziamo la precarietà dell’esistere nell’orizzonte lungo delle generazioni.
Sul presepe, sulla sua storia e suoi significati, molti hanno scritto, contribuendo alla rassegna di un’ampia e approfondita letteratura. Pur tenendone conto, lo studioso del mondo antico, abituato ad esplorare le dinamiche del presente attraverso l’esegesi dei classici, intraprende un originale percorso, conducendoci in una fascinosa rilettura comparata delle Sacre Scritture e dei testi delle religioni precristiane, in una indagine che ha i caratteri di una colloquiale narrazione e di un’attenta ricognizione da investigatore, nello spoglio di interrogativi sulla genesi dei vari elementi costitutivi del presepe. L’autore indaga sulle origini dei luoghi (mangiatoia, grotta, capanna…), dei simboli (la stella, i doni, gli animali soccorrevoli…), degli attori protagonisti di quella che Giorgio Manganelli (1992) definì «una cigolante macchinazione cosmogonica», e nelle parole di Bettini diventa «una finzione fragile, per questo è incantevole».
Il lavoro di scavo e di scrutinio delle fonti raduna e incrocia innumeri voci diverse che sillabano da un tempo lontano, un ordito di echi e connessioni, di sedimentazione di sostrati, di intrecci e contaminazioni. Scopriamo che pastori e mangiatoie sono del tutto assenti nel Vangelo di Matteo e appaiono per la prima volta in quello di Luca, dove però mancano i Re Magi. Apprendiamo che il bue e l’asinello entrano nella scena presepiale attraverso il Protovangelo di Giacomo dove, tra l’altro, si legge a proposito della fuga in Egitto: «Quando giunsero a metà strada, Maria disse a Giuseppe: “Calami giù dall’asino, perché quello che è in me ha fretta di venire fuori”».
Nel risalire alla preistoria del presepio (che preferisce per ragioni sentimentali alla dizione ‘presepe’), Bettini porta alla luce tutte le analogie che assimilano la Natività cristiana a quella di molti altri eroi mitici e déi dell’antichità, ne rintraccia gli incunaboli, le ascendenze, gli ibridismi, le corrispondenze. In questa paziente ricostruzione filologica della topografia e della morfologia presepiale emergono i dettagli di «una complessa ma affascinante avventura testuale», «il gioco sottile delle risonanze scritturali, il dotto lavorìo dell’esegesi allegorica», per usare le parole dell’autore, impegnato come un sarto a ricucire gli squarci del tessuto documentale, a mettere insieme come un archeologo i cocci e frammenti delle testimonianze diacroniche, ad assemblare come un detective gli indizi più minuti utili a ricomporre l’articolato puzzle iconografico del presepe. Così la grotta, la culla improvvisata, le fasce, la protezione degli animali, le profezie, le offerte taumaturgiche e l’impiego delle stesse figurine antropomorfe rivelano insospettate parentele con il mondo mesopotamico e con quello greco-romano, mitemi che si alimentano dei racconti esemplari e sostanziano la memoria figurale, la forza della loro significatività culturale. Da Gilgamesh a Zeus, da Ermes a Dioniso, ad Adone, a Mitra e a tante altre entità soprannaturali, sembra si ritrovino come costanti proppiane nelle narrazioni delle loro nascite le stesse unità strutturali, gli stessi snodi simbolici, gli stessi intrami e stami sottesi alla vicenda di Gesù.
Particolare spazio Maurizio Bettini dedica alla natura e alla storia della culla, povera e improvvisata, mangiatoia nella natività cristiana, liknon in quella pagana, un setaccio buono per separare il grano dalla pula. Nel percorso tra le parole e le cose sapientemente tracciato dall’autore, tutti i particolari confluiscono e riconducono ad un eguale contesto d’eccezione: «quello di un bambino la cui nascita segna un trapasso epocale da una fase di dolore, di ingiustizia e di colpa a una in cui si affermeranno progressivamente pace e prosperità, sotto la guida del piccolo diventato adulto». Da qui anche il ruolo degli animali soccorrevoli – bue, asino, lupa, capra, etc – che nei diversi universi culturali assicurano all’infante divino l’alleanza con la natura, «a testimonianza del fatto – scrive Bettini – che la natura stessa, prima ancora degli uomini, ne comprendeva l’importanza e ne favoriva l’ascesa». Anche nelle figure dei Re Magi (il cui numero varia da 3 a 12) è possibile rinvenire antecedenti nei testi di origine orientale che evocano profezie, arti magiche e poteri taumaturgici. Con le ambiguità e le suggestioni delle circostanze divinatorie si mescola la regalità di questi enigmatici personaggi di cui almeno uno è nero, come a voler notificare con la composizione multietnica il cosmopolitismo della venerazione unitamente al primato monoteista della religione cristiana. La loro presenza è sempre associata ad una stella, guida celeste del loro cammino verso Betlemme, segno premonitore dell’evento straordinario, allegoria della luce che nel dies natalis sfida e vince le tenebre.
La cometa attraversa i cieli di tutte le Scritture, già dalla testimonianza di Matteo: «Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode. Alcuni Magi giunsero da Oriente a Gerusalemme e domandavano: “Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo”. (…) Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima». Anche nell’occorrenza dell’astro che, in termini attanziali svolge nel racconto evangelico il ruolo di aiutante dei Magi, si leggono le correlazioni simboliche con le culture mesopotamiche, le quali codificavano il culto del fuoco nelle forme e nella luce delle stelle. Antonino Buttitta che ha dedicato a questi temi pagine significative sottolinea come il fuoco sia manifestazione del sacro particolarmente diffusa nella simbologia della cultura religiosa orientale e, lungo un percorso di argomentazioni storiche e antropologiche, lo studioso collega la stella dei Magi con quella che sarebbe sorta da Giacobbe secondo la profezia di Balaam.
«Basti confrontare Malachia (3,20) e Isaia (60,1) con Luca (1,78) e l’Apocalisse (2,28; 22,16) – scrive Buttitta (1996: 109) – per constatare la continuità tra cultura ebraica e neotestamentaria a proposito della stretta connessione tra l’idea di luce astrale e quelle di divinità e regalità».
Dentro questo complesso quadro denso di stratificazioni, di commistioni e di orizzonti incrociati nel tempo e nello spazio si muove con grande disinvoltura Maurizio Bettini che, nell’adottare una chiave di lettura di comparazione e di decostruzione, chiarisce i diversi passaggi e le parafrasi dalle scritture al racconto, dall’allegoria alle immagini materiali, dalla sacra rappresentazione al teatro, e da qui infine al presepe. Da Origene a Virgilio, da Prudenzio a Gregorio di Nissa, da Lattanzio a Gerolamo fino ad arrivare a Tertulliano, passando per Tommaso da Celano che narra dell’esperienza francescana di Greccio, la letteratura cristiana dei commentatori degli Evangeli descrive il lento e graduale processo di volgarizzazione e illustrazione della Natività, la grande opera di traduzione culturale destinata a convertirsi in tradizione popolare.
Se è vero che «l’antropologia è una forma di sapere intrinsecamente comparativo» (Dei 2009: 105), che «la comparazione rappresenta una fondamentale risorsa descrittiva di cui nessuna impresa etnografica sembra poter fare a meno» (ivi: 129), comparare equivale praticamente a tradurre e a rivelare nel confronto la sintassi dell’intero sistema, l’orditura della struttura sottesa.
«La traduzione in senso culturale e antropologico – ha scritto Pietro Clemente (2009: XXVIII) – rimanda alle forme più radicali della sfida ermeneutica, alla scommessa ad alto rischio della alterità, della prossimità nella distanza, del superamento/allargamento/alterazione concreta del dispositivo cognitivo nostro con il quale ci presentiamo nella scena dell’incontro».
A guardar bene tra le pagine di questa acuta indagine sul presepe, la lezione che Bettini ci consegna rinvia proprio ad una riflessione sul comparativismo, proponendosi come interrogativo metodologico che nel «mettere in luce analogie e differenze fra costrutti culturali anche lontani, comparandoli, spesso permette di scorgere quello che altrimenti non si riuscirebbe mai a vedere. E pazienza se a volte la via della comparazione costringe a compiere il giro più lungo, come si dice. Perché spesso il giro più lungo costituisce in realtà il modo migliore per tornare a casa». Nell’individuare i fili che connettono i pastori del presepio alle sigilla in uso nell’antica Roma, ovvero alle statuette di terracotta scambiate nelle pratiche votive in occasione delle feste di dicembre (Sigillaria), nonché alle piccole figure delle divinità domestiche custodite nel Larario, l’autore ne identifica le sorprendenti somiglianze nella materia, nella fattura abbastanza modesta, nella loro serialità, e soprattutto nella loro funzione di testimonianze religiose di venerazione e gratitudine.
Spingendo più in là l’analisi sul potere delle rappresentazioni che restituiscono surrettiziamente la presenza dell’assente, cioè delle divinità che «per quanto invisibili sono pensate come esistenti» – una pratica di presentificazione e di antropomorfizzazione che «da sempre accompagna il cammino della cultura umana» –, lo studioso nelle ultime pagine del volume torna a guardare al presepe per coglierne le peculiarità, le discontinuità, i punti di cesura rispetto al costume dell’età classica. Le statuine che stanno dentro la capanna raccontano una storia, sono parte di «un’offerta narrativa», di «una vicenda che torna a svilupparsi sotto gli occhi di chi fa o osserva il presepio». I pastori, invece, che fanno da corredo alla Natività – l’arrotino, il mugnaio o la lavandaia – rappresentano gli umani coinvolti nel rito, i beneficiari del divino. Attraverso di loro «gli autori del presepio manifestano prima di tutto un patto di fedeltà e memoria con se stessi, come devoti e dedicanti; così come attraverso le statuette che stanno dentro la capannuccia gli stessi danno sostanza al patto di fedeltà e gratitudine con il divino che quella notte è venuto a riscattarli».
Così Maurizio Bettini chiude in senso circolare il suo periplo attorno al presepe, richiamandosi, come nelle prime pagine, alla privata esperienza che ciascuno di noi intrattiene con questo microcosmo carico di simboli e di memorie. Meraviglioso esito di segrete commistioni, di felici contaminazioni e di insospettati ibridismi, vi confluisce un ricchissimo patrimonio di storie cumulative e di culture figurative diverse che nel loro incontrarsi si sono reciprocamente rinnovate e riplasmate. La verità è che dentro quel recinto sacro si ricapitola non soltanto il tempo della nostra infanzia declinato nella sua ciclica ripetizione, ma anche lo spazio che è metafora del paese ideale, paesaggio immaginario, miniaturizzazione di un’utopia. Nella sua definizione da parte di chi fa il presepe Marino Niola identifica il ruolo dell’ecista, del fondatore cioè di città impegnato a creare uno spazio culturalizzato, un perimetro socialmente significante.
«Disegnare e comporre il presepe – scrive l’antropologo – è riscrivere, anno dopo anno, un mito di fondazione di una comunità utopica nel senso letterale del termine, poiché il luogo del presepe non è un’estensione materiale bensì un’architettura dell’istante messianico che riunisce in sé ogni tempo» (Niola 2005: 49).
Ecco perché l’idea del presepe-paese o del paese-presepe, nell’attuale fase di spopolamento e di abbandono dei borghi, sembra sollecitare una nuova attenzione, una più radicata coscienza del luogo, un ripensamento di quella che Sciascia (1980) considerava «una delle espressioni più retoriche e mistificanti (…). Chi la legge o la sente non sa precisamente cosa vuol dire, ma intravede l’idillio, la serenità, la semplicità, la sicurezza dei rapporti umani, la genuinità delle cose oltre che degli uomini, il silenzio». Fuori da ogni romantica e sentimentale nostalgia, il presepe è la materializzazione di un paese “altro”, di un luogo intimo e riparato, di un orizzonte mitico ove si stemperano le asprezze della vita quotidiana. Chi vuole farne un campo di battaglia politica per difendere immaginarie patrie identitarie da presunte minacce alle nostre tradizioni culturali, è bene che sfogli le pagine del libro di Maurizio Bettini che, amante del politeismo, ci insegna che ogni cultura non basta a sé stessa ed è destinata ad estenuarsi e a decadere se non si rinnova nello scambio e nel dialogo. Lasciamo dunque che il presepe resti quella finzione fragile e incantevole in cui possano ancora riconoscersi credenti, atei o indifferenti di tutte le regioni e di tutte le religioni.