di Aldo Aledda
In Italia quando le cose vanno male nei nostri rapporti con il comune, la regione, lo Stato, il fisco… non si ha il minimo dubbio dove stia il colpevole: eccolo là, la burocrazia! …anche ai limiti del grottesco. Una volta sentii un ciclista cui era andata male la gara prendersela in un’intervista proprio con la burocrazia. Non avevo capito il perché… forse la strada non era terminata per inghippi burocratici e lui probabilmente non l’aveva trovata di suo gradimento…chissà? D’altronde, qualche ragione più seria non manca.
Nella mia città un’organizzazione sportiva ottenne di far disputare un incontro internazionale nel palazzetto dello sport. Fa domanda al Comune che, pur essendo proprietario dell’impianto, per poterlo utilizzare, tra le varie cose, “chiede” alla federazione sportiva l’esibizione della planimetria (sic!). L’avventura continua: davanti all’impianto staziona un’ambulanza, come da autorizzazione della locale autorità sanitaria oltre che del Comune, passa una macchina della polizia locale e la fa sgomberare, perché sosterebbe in sosta vietata. Come, abbiamo fatto domanda al Comune? Ma non l’avete fatta all’ufficio dei Vigili Urbani. Non fate parte del Comune? Quante storie e quanti inghippi per fare anche le cose più semplici in questo Paese!
Le organizzazioni imprenditoriali hanno calcolato che queste delizie burocratiche costano alle imprese quasi sette miliardi di euro all’anno. L’apparato amministrativo dello Stato, centrale e periferico, si mangia oltre il 51% del Pil del Paese e, occupando al momento attuale 3,2 milioni di addetti, rappresenta il primo datore di lavoro: una massa di persone, come vedremo più avanti, per lo più abbandonata a sé stessa e, al massimo, alle organizzazioni sindacali e ai capricci dei dirigenti, notevolmente demotivata e priva di slancio e, quando mostra passione e attaccamento al lavoro, come ho scritto in un recente articolo su questa rivista, lo fa esclusivamente per spirito di volontariato. Occorre continuare a non fare nulla per cambiare le cose? No, Il Pnrr si è posto il problema, chiedendo la riforma della pubblica amministrazione come condizione per avvalersi del sostegno europeo. Così qualcosa si è riusciti a fare, come l’accelerazione delle procedure degli appalti, sia pure con tante polemiche, ma non basta perché il problema, essendo frutto di incurie decennali e di abitudini secolari, ha bisogno di tempo perché si possa uscire dai gironi infernali della burocrazia.
Lo sapeva bene il grande giurista Massimo Severo Giannini, ministro della funzione pubblica che, nel suo manuale di Diritto amministrativo già negli Anni Settanta, definiva l’amministrazione pubblica italiana “una Babilonia organizzata”. Ma scopriamone le ragioni. Perché credere che tutto ciò sia solo frutto di inerzie o puramente casuale è veramente ingenuo. In realtà il sistema di reclutamento di chi deve governare la cosa pubblica e la relativa gestione si presta a creare rendite di posizione, a coltivare clientele politiche rivelandosi alla fine principalmente uno strumento di raccolta del consenso.
D’altronde quale merito si potrebbe riconoscere a un potente boss della politica locale se fosse facile e agevole per tutti ottenere licenze edilizie o appuntamenti per analisi e visite mediche in tempi ragionevoli con dei servizi pubblici che funzionano alla perfezione? Ci risponde William Shakespeare che, nell’Enrico IV, immagina come si sarebbe svolta la richiesta di raccomandazione di un famulo del giudice Shallow:
«Ammetto a Vossignoria che sia una birba, Signore: eppure, Dio mi perdoni, Signore, un birbone dovrebbe pur ottenere qualche appoggio a richiesta di un suo amico. Un uomo onesto, Signore, è capace di parlare a proprio discarico, mentre una birba non lo è. Vi ho servito con ogni fedeltà, Signore, per otto anni; e se non mi è dato, una o due volte per stagione, appoggiare un birbone contro una persona onesta vuol dire che ben poco è il mio credito presso Vossignoria…».
Come dire, il vero “potente” è colui che riesce a mettere al posto sbagliato la persona sbagliata, perché a fare il contrario sono capaci tutti e non vi è alcun merito.
La burocrazia apre gli occhi nel mondo, secondo la ricostruzione che ne fa il suo più autorevole analista, Max Weber, ben prima dell’Inghilterra elisabettiana. Il termine, inventato dal fisiocrate francese De Gournay nel XVIII secolo in senso spregiativo e poi ripreso da Tocqueville con intenti non meno polemici, passa a designare apparati burocratici risalenti, secondo il grande sociologo tedesco addirittura all’epoca assira – teoria che studi archeologici più recenti hanno confermato – a fronte della necessità di reclutare funzionari pubblici per fronteggiare non solo il problema dell’incanalamento dei grandi corsi d’acqua, ma anche quello della gestione e del nutrimento delle popolazioni. La burocrazia, a differenza di de Gournay, significa nel pensiero weberiano orientamento alla razionalità soprattutto quando dal potere carismatico si passa a quello razionale che necessita di comportamenti ispirati a criteri scientifici per la migliore gestione della cosa pubblica.
Non era forse un caso che il sociologo tedesco si muovesse nel Paese nel quale è nata la burocrazia moderna, precisamente sotto Federico II, il grande riformatore dello Stato prussiano. Da allora, facendo tesoro anche dei successi ottenuti dalle costruzioni amministrative precedenti come la Roma antica delle varie cariche prefettizie e consolari e quelle rinascimentali delle piccole entità statali italiane, che lo storico Jacob Burckhardt definiva “opera d’arte”, le moderne nazioni sorte dalla pace di Westfalia si sono assunte il compito di garantire una gestione razionale dei servizi pubblici e dei rapporti con i cittadini per dare maggiore efficienza alle costruzioni statali. In questa riportò successi maggiori che nelle campagne militari lo stesso Napoleone Bonaparte, che con istituti come prefetture, consigli di stato, corte dei conti, giudici istruttori, ecc. pose le basi per una gestione dello Stato cui non solo la Francia è stata debitrice fino ai giorni nostri, ma anche le altre nazioni europee come Casa Savoia e lo Stato italiano che ai princìpi giuridici francesi, oltre che a quelli belgi, vollero ispirarsi. Dopo di ché ciascuna burocrazia nazionale si è data una propria specificità e ha sviluppato una sua cultura e non sempre per merito della classe politica. Il gusto per l’amministrazione in Italia, afferma lo storico Arturo Carlo Jemolo, è stato caratteristica di molti illustri statisti, come Cavour, Crispi e Giolitti, mentre quelli cui questo era negato si dovettero affidare ai loro luogotenenti.
Ma per esplorare le differenze non possiamo fare a meno di osservare che il sistema anglosassone, forte anche dell’anticipo sugli altri Paesi dei rispettivi moti rivoluzionari e grazie anche ai primi vagiti della rivoluzione industriale, si è ispirato maggiormente ai princìpi del liberalismo economico, anteponendo gli interessi del cittadino a quelli dello Stato, i cui impiegati non a caso sono definiti civil servants. Altri Paesi, invece, come il nostro, che hanno conosciuto parentesi autoritarie, spesso hanno imboccato processi inversi. L’anomalia è dovuta in qualche modo anche all’origine militare dei relativi apparati burocratici, basati ancora sui princìpi della gerarchia e con linee organizzative che si rifanno a quelle degli eserciti, come si riscontrava nella tassonomia amministrativa italiana fino a poco tempo, articolata com’era in sezioni e divisioni.
Altro elemento, mutuato dalla vita militare e ispirato in particolare al principio dell’obbedienza supina, è l’assenza di libertà di espressione, anche in Stati come i nostri in cui questo diritto incontra senza eccezioni tutela costituzionale. Coerentemente con questa visione si sviluppa il divieto di criticare le scelte dei vertici, che ricalca il tradizionale reato di “lesa maestà” che ieri poteva comportare sanzioni penali e oggi, nelle forme più attenuate, provvedimenti disciplinari fino al licenziamento. Alla base vi è chiaramente l’obbligo del “segreto di ufficio”, anch’esso teorizzato per la prima volta da Max Weber e oggi rimasto tale solo nelle procedure giudiziarie come “segreto istruttorio” e in quegli atti e documenti dello Stato più sensibili che si ritiene possano compromettere la sicurezza nazionale (e, come sappiamo, ampiamente utilizzato in Italia per coprire responsabilità istituzionali ad alti livelli anche in molti eventi tragici della repubblica).
Si tratta evidentemente di un retaggio di tempi in cui vigeva l’autocrazia ed era indispensabile allontanare o mettere il bavaglio a chi, lavorando all’interno degli apparati pubblici, consumasse il “tradimento” di portare all’esterno notizie e retroscena relativi agli interna corporis nella gestione della res publica. Oggi, molti di questi princìpi, anche per effetto di azioni giudiziarie da parte delle vittime, sono divenuti obsoleti. Ma permane all’interno delle istituzioni la legge non scritta che, sia pure in stile vagamente mafioso, i panni sporchi vanno lavati solo in casa propria, principio che trova attuazione anche agli alti livelli salvo quando si tratti di portare all’esterno conoscenze di dinamiche interne e fatti incresciosi come strumenti di lotta politica. Oggi a chi non rispetta questa riservatezza non viene più mozzata la testa ma, quando risultano coinvolti stampa e media, la sanzione è l’accantonamento del colpevole attraverso la pratica del “mobbing”, cui in Italia, a differenza di altri Paesi in cui si è riconosciuta la rilevanza penale, al massimo si concede una tutela civile. Come dire, dal Medio Evo a oggi la civiltà delle buone maniere di Norbert Elias un po’ è andata avanti.
Tutti gli Stati moderni si presentano nell’era contemporanea davanti ai loro cittadini con burocrazie, più o meno efficienti, più o meno costose, e più o meno dappertutto è corale il lamento di ritardi, farraginosità, formalismo, oppressione, costi eccessivi, ecc., ma perché quella italiana continua a essere una delle più bersagliate del mondo occidentale tanto da rendere diffidente il legislatore europeo?
Come ho detto all’inizio a tastare il polso dell’opinione pubblica le responsabilità del malgoverno vanno tutte addossate a quell’ometto in mezze maniche, fannullone e furbetto del cartellino, costantemente rappresentato pieno di astio e di fastidio nei confronti dell’utente (e del suo lavoro), interessato esclusivamente alla retribuzione sicura e al mantenimento del “posto”. In Italia, quando si parla di burocrazia e se ne lamenta la pesantezza solo per disonestà intellettuale si preferisce ignorare che, come in tutti i fenomeni complessi, vi è una confluenza di cause e se vogliamo anche una larga associazione di colpevoli. Al coro di rampogne nei confronti dei quadri si unisce all’occorrenza anche la classe politica che, quando è messa all’angolo dall’opinione pubblica per le cose che non vanno – dai ponti che crollano prematuramente, alle incompiute dell’edilizia pubblica fino alla ricostruzione infinita delle aree terremotate o ai bacini che non si riempiono mai d’acqua perché non piove –, non esita a gettare la croce su quella stramaledetta burocrazia che frustra tutti i propositi di buon governo.
Vediamo un po’ di capire meglio come stanno le cose andando oltre l’apparenza e i luoghi comuni consci che in tutti i casi l’intreccio tra burocrazia in senso stretto e classe di governo, ossia classe politica è più stretto di quanto non vogliamo ammettere i diretti interessati.
Quando un imprenditore lamenta costose perdite di tempo negli uffici pubblici, costretto com’è a presentare e ripresentare carte e progetti, compilare una modulistica sempre più lunare e pagare continuamente diritti, tasse e bolli, ciò non accade perché chi sta dietro lo sportello ha bisogno di assentarsi tre quattro volte al giorno per prendere caffè e aperitivi e poi dormire sulla sedia quando va nel back office a sbrigare le pratiche, ma solo perché sta seguendo pedissequamente ciò che gli impongono di fare le norme, i regolamenti e le circolari che non redige certo lui, ma in gran parte proprio quel potere politico che lo tiene sotto tiro. Dove sta in questo caso la scarsa onestà intellettuale? Esattamente nel fatto da tutti ampiamente conosciuto che la farraginosità è frutto di un sistema come quello italiano costruito su una pletora di norme, alcune delle quali risalenti addirittura al Regno o all’epoca fascista che si continua ad applicare con la massima indifferenza senza che nessuno si ponga il problema di abolirle o quanto meno di non tenerne conto. Non solo, ma anche nella legislazione posteriore e in quella attuale si continua a normare inserendo un’infinità di adempimenti che, nel dettaglio, richiedono una congerie di cose superflue o impongono la continua acquisizione di notizie magari già esistenti all’interno della pubblica amministrazione (oltretutto pessimo esempio di utilizzo dei sistemi informatici).
Allora che fare in una simile giungla di interessi e di assoluta indifferenza nei confronti dei diritti e delle aspettative di una società che si ritiene vittima della burocrazia? Intanto si potrebbe continuare nell’opera di disboscamento delle norme inutili che era iniziata qualche decennio fa. Queste sembrerebbero essere 187.000 dalla nascita dello Stato unitario, delle quali 111.000 ancora in vigore, mentre in Francia, per esempio, dovrebbero essere poco più di 70.000. A questa va aggiunta la produzione regionale che numericamente non è da meno. Un’iniziativa utile in questo senso, a parere di chi scrive, potrebbe consistere nel dichiarare abrogata tutta la produzione legislativa antecedente alla costituzione della Repubblica, eccetto i codici penali e civili e quelli relati alle loro procedure, perché su questi il legislatore appare più attento e tempestivo aggiornando, modificando e abrogando. Se dopo di ciò rimanessero ambiti della convivenza civile scoperti sarà appunto compito del Parlamento provvedere a fare il suo dovere legiferando nelle relative materie. L’auspicio, però, è che questa volta, diversamente da quanto accadde alla fine del secolo scorso quando un governo in carica volle intraprendere questo percorso di semplificazione, non si abbandoni la strada prima di essere giunti in fondo. Orbene, per portare a termine questa operazione – è forse qui che ha fatto capolino una certa frustrazione – non è salutare usare la scure quanto il bisturi del chirurgo. Infatti, il problema non è costituito solo dalle leggi e dai regolamenti da spazzare via integramente, ma soprattutto dalla rimanente produzione normativa che deve stare necessariamente in piedi e in cui si annida la maggior parte degli inghippi burocratici.
Fatta questa operazione occorre fissare linee di intervento legislativo cui debbono attenersi i momenti istituzionali dedicati. Una è già stata fatta, ed è l’obbligo di indicare per le leggi che si propongono la necessaria copertura finanziaria. Ma bisognerebbe agire anche su momenti più delicati e, in ultima analisi, più insidiosi, istituendo nel Parlamento italiano (e nelle assemblee legislative regionali), accanto all’ufficio legislativo, anche uno indipendente che vigili che le leggi presentate all’assemblea non presentino eccessivi tratti di complicazione (e possibilmente siano scritte un po’ meglio in italiano, come auspicava l’ex Guardasigilli, Claudio Martelli, quando chiedeva che ai laureati in materie giuridiche fossero affiancati professori di lettere).
A questo punto non possiamo addentrarci a individuare le colpe della cosiddetta burocrazia che, più correttamente va intesa come magma composto da amministrativi e amministratori, questi ultimi intesi come classe di governo nel senso che ho indicato prima. Per quanto riguarda i cosiddetti quadri va subito detto che le responsabilità vanno suddivise perché un conto è chi sta allo sportello che all’occorrenza non manca di impietosirsi davanti alla malasorte dell’utente e un altro è chi è più distante, che ha rapporti meno diretti col pubblico e dall’alto dei suoi privilegi mostra la massima indifferenza nei confronti di quello. Parliamo di chi, a parte le sostanziose retribuzioni, cammina disinvolto nella vita quotidiana perché non deve fare le file per ottenere documenti o attendere mesi per controlli medici mentre le banche offrono tutti i loro vantaggi finanziari. Si tratta di quell’alta dirigenza che non solo interpreta le disposizioni con circolari e direttive quasi mai in senso semplificativo, ma perlopiù tese a complicare ancora di più norme già di per sé complesse. E lo fa con tecniche collaudate.
Un caso di scuola si ha quando circolano negli uffici le bozze di progetti di legge per l’acquisizione di pareri e suggerimenti laddove i mandarini invece di fare appello a tutto il loro acume e alle rispettive conoscenze per migliorare il testo, esercitano ogni perversità per renderlo il più possibile farraginoso. La ragione di questo modo di fare è l’esigenza di esercitare un potere specifico da parte di una classe che dà vita a quello “Stato profondo” che veramente governa il sistema. Ma siccome occorre essere onesti intellettualmente fino in fondo bisogna segnalare che a questo malcostume non è esente anche la cosiddetta “società civile”. Infatti, un altro tipo di apporto e fonte di ulteriori complicazioni nella produzione legislativa è quello che proviene dalle lobby e dai gruppi di pressione in rappresentanza dei vari segmenti della società e delle professioni, che dirigono i loro sforzi affinché le norme che li riguardano tutelino adeguatamente gli interessi delle rispettive corporazioni anche in barba, se occorre, a quelli dell’utente.
Faccio un esempio chiaro a tutto il mondo dei tartassati dagli uffici tecnici comunali: quando si affaccia all’orizzonte parlamentare o regionale una proposta di legge edilizia, immediatamente gli ordini degli ingegneri e dei geometri o dei notai, che dir si voglia, entrano in fibrillazione per fare in modo che in essa siano incluse certificazioni di natura tecnica o formale (per esempio di risparmio ed efficientamento energetico, anche giuste se vogliamo) per le quali cercano di includere l’obbligatorietà di attestati forniti da un professionista iscritto all’ordine (pagato), mentre chi sta dalla parte del consumatore preferirebbe che questo adempimento fosse svolto dagli uffici comunali senza alcun onere per l’utente magari solo convenzionandosi con uno studio tecnico o legale.
Addentrandoci nell’aspetto della gestione quotidiana delle amministrazioni, vediamo che i sistemi di appesantimento e ritardi nell’azione amministrativa sono i più svariati e sono ancora di più frutto di quell’intreccio di cui parlo. Il metodo più rozzo è di depotenziare gli uffici in modo da attribuire ogni eventuale responsabilità e ritardi alla mancanza di personale, come avviene tuttora per il rilascio dei passaporti e dei visti d’ingresso degli stranieri da parte del Ministero dell’interno o della concessione della cittadinanza da parte delle strutture consolari all’estero, per trattare problemi che al momento ho maggiormente sotto osservazione: operazioni di per sé abbastanza semplici ma che vengono amplificate per ragioni di potere dagli uffici. Più raffinata, invece, è la tecnica dello svuotamento o addirittura della pratica abolizione delle disposizioni normative da parte degli apparati, prassi fatta risalire dagli studi sulla pubblica amministrazione già all’epoca in cui i funzionari prussiani si davano da fare a caducare le norme varate dalle assemblee legislative perché ritenute opera di dilettanti. In Italia questi tentativi sono messi quotidianamente in atto ancora dallo “Stato profondo” che, operando appunto nel silenzio e quasi nell’anonimato, raggiunge indirettamente ma più efficacemente i risultati voluti.
Analogo l’espediente è svuotare di senso le norme ingarbugliandole con regolamenti di attuazione, circolari e direttive interpretative – peraltro ineccepibili giuridicamente alla luce della gerarchia delle fonti del diritto in quanto di secondo o terzo grado – ossia con interventi che apparentemente vanno nel senso voluto dalla legge di riferimento ma in pratica ne alterano maliziosamente il contenuto o ne complicano l’attuazione. In questi casi la loro efficacia si basa sul fatto che chi deve applicarle, a meno che a fare chiarezza non intervenga una qualche pronuncia giurisdizionale, si attengono più fedelmente a queste che al dettato legislativo che sta a monte.
Un altro sistema, cui ricorrono spesso le amministrazioni, è di favorire inerzia nell’applicazione di una disposizione di legge cui il cittadino può ovviare solo ricorrendo all’autorità giudiziaria, con il risultato previsto che l’interessato visti i costi e le lungaggini della giustizia italiana preferisca rinunciare o desistere. La cosa diviene ancora più grave quando si tratta di un utente abituale della pubblica amministrazione (es. un imprenditore) o che aspira a diventare tale da cui, il più delle volte, ci si aspetta che rinunci alle azioni legali per timore delle ritorsioni che l’amministrazione giudizialmente soccombente potrà mettere in campo compromettendo così ogni futura collaborazione. Il sistema di aggiramento delle norme, infine, è messo in atto dalle amministrazioni attraverso la subdola creazione di procedure apparentemente semplificate. Ci riferiamo a quella pletora di strumenti come dichiarazioni, autocertificazioni e altro genere di documenti che di solito inventano gli uffici e che, anche per pigrizia amministrativa, sono continuamente richiesti all’utente per comprovare status o situazioni giuridiche già in possesso di altre pubbliche amministrazioni e alle quali per legge ciascuna branca avrebbe l’obbligo di rivolgersi per acquisirle senza disturbare il cittadino (anche se, a dire il vero, le ultime disposizioni legislative in materia di produzione di documenti, volte a contemperare le esigenze degli uffici con quelle dell’utente, invece che semplificare hanno creato più caos, aspetto questo che conferma i soggetti che qui sostengo ci mettono le mani).
Un altro strumento di pressione e oppressione dell’utente è costituito dall’esacerbare i poteri dell’amministrazione in ordine alle procedure. Dal 1990 tutta la materia è stata saggiamente regolata. Leggi apposite hanno fissato termini certi e responsabili dei procedimenti, ordinariamente fissati in 30 giorni; analoghe disposizioni hanno regolato le attività degli enti locali, la materia degli appalti pubblici mentre ritocchi del Codice penale hanno riconfigurato i reati contro la pubblica amministrazione. Grazie alla presenza nei vertici delle istituzioni di grandi giuristi, come Cassese e Bassanini, le norme sul funzionamento della P.A. sono state notevolmente esemplificate, spostando per esempio i controlli della Corte dei Conti dalla via preventiva a quella successiva. Tuttavia dopo una buona partenza nel funzionamento di queste disposizioni, in cui qualche amministratore pubblico si era scottato le dita nel gestirle con eccessiva disinvoltura riportando condanne penali per abuso d’ufficio, si è imposto definitivamente lo sport nazionale di non rispettare tempi e procedure, in primo luogo dilatandole anche oltre le possibilità e le eccezioni offerte dalle disposizioni vigenti, in secondo luogo eliminando questi vincoli senza spiegazioni che altro non fossero di natura organizzativa interna della pubblica amministrazione, cui poco importa al cittadino.
L’altro problema è lo scaricabarile cui accennavo all’inizio. Davvero è inevitabile? Una volta capitò a una mia conoscenza di rendere una consulenza medico legale a un tribunale tedesco. Alla fine dell’udienza il magistrato lo convocò nell’ufficio, trasse fuori dalla tasca il blocchetto di assegni, prese la penna e gli chiese “Professore, mi dica quanto ha speso e che cosa le devo corrispondere” e poi, dopo aver firmato l’assegno con la cifra che saldava le spese e pagava la consulenza gli fece: “Bene, grazie. Se eventualmente avesse dimenticato qualche altra spesa, si rivolga pure al console tedesco di Cagliari che gliela rimborserà”. Quando racconto questo episodio gli operatori del settore rimangono allibiti sospirando, perché per noi sarebbe troppo lunare evitare di passare rigorosamente per la ragioneria che si prenderà i suoi buoni tempi biblici per perfezionarle. La paura, in questi casi, è data soprattutto dalla parte finanziaria che si teme, affidata a non specialisti, possa essere sballata. Ma è davvero importante che un altro ufficio faccia l’operazione di controllo esibendosi in calcoli e producendo documenti che sembrano geroglifici egizi quando oggi i programmi dei computer ti dicono quanta capienza c’è nel capitolo di spesa sul quale tu devi operare? O è forse la necessità di far leva sull’ansia dell’utente a percepire il giusto compenso a produrre ulteriori ritardi in fase di liquidazione per trarne qualche vantaggio poco pulito? A onore del vero, talvolta, influisce anche la mancanza di soldi in cassa, perché magari gli impegni hanno superato le disponibilità oppure si sperava su nuovi finanziamenti che non sono mai arrivati. Questa situazione imbarazzante molte volte costringe le amministrazioni a inventarsi espedienti per dilatare i pagamenti oltre i termini consentiti dalla legge. Come si vede il problema è più complesso di quanto non sembri a prima vista.
L’altra faccia è la materia del personale e il suo utilizzo, la cui dotazione risulta comunque in linea con tutte le pubbliche amministrazioni del mondo occidentale sia per retribuzioni, che in genere non superano il 10% di quelle generali nel settore di riferimento, sia come età media, che non va oltre i 50 anni, sia per incidenza sul Pil, come abbiamo visto all’inizio. Parliamo di circa 3 milioni e mezzo di persone in Italia, insegnanti compresi, con retribuzioni mediamente inferiori di quelle dei Paesi più avanzati con cui ci vorremmo raffrontare.
Il primo problema è che l’ingresso nel settore pubblico è stato sempre visto dai governi nazionali italiani e da quelli locali prima che come una necessità per fare funzionare meglio l’apparato come uno strumento per combattere la disoccupazione, oltre che la ricerca di quel consenso elettorale di cui abbiamo parlato all’inizio. Da qui la scarsa attenzione alla preparazione e un accesso quasi sempre subordinato a conoscenze scolastiche mentre le successive modificazioni, che hanno introdotto test e materie pratiche, non hanno impedito a chi bandisce i concorsi di manipolarli come e più di prima. Solo il fenomeno della fuga dei giovani all’estero e dell’offerta di retribuzioni di poco superiori al reddito di cittadinanza ha consentito che tanti concorsi pubblici si svolgessero regolarmente… per mancanza di un numero adeguato di concorrenti.
Oggi si è aggiunta l’ulteriore preoccupazione del rimpiazzo gli ultimi esponenti della Baby boom generation italiana in procinto di andare in pensione. Che questa operazione non dia risultati sperati lo si è visto fin dalle prime sostituzioni in cui ai buoni propositi di assumere un giovane per ogni pensionato che usciva si è passati a programmarne al massimo uno che entra su due che escono, e ciò per limiti di spesa pubblica; promessa anche questa non mantenuta dall’ultimo provvedimento statale che, con le sue 3.000 assunzioni, sta molto al di sotto dei valori previsti e incautamente assicurati ai sindacati e all’opinione pubblica. Il problema si riacutizzerà sempre di più perché il numero di sostituti non solo sarà sempre inferiore rispetto alle esigenze di un sistema costruito a misura di chi vi era prima, ma anche perché sarà più difficilmente utilizzabile da chi subentra con altre visioni del mondo e altra cultura.
Un secondo problema è l’avversione endemica dei vertici amministrativi nei confronti della formazione del personale, convinti in gran parte che il mestiere si impara in ufficio stando dietro i vecchi funzionari e non chini sui libri o le riviste o frequentando corsi di formazione. Questa visione in parte può essere giustificata, ma non del tutto accettata, soprattutto oggi in cui la conoscenza scientifica è incalzante e sempre più importante nella vita pubblica. Ho descritto in uno dei miei saggi sulla pubblica amministrazione quei processi che trasformano nel giro di pochi anni il giovane brillante vincitore di concorso con tanto di laurea in un autentico analfabeta di ritorno che, vive, se è laureato in giurisprudenza per esempio, come la gran parte, di ricordi universitari su leggi che magari sono state nel frattempo abrogate o cambiate e che lui continua ad applicare noncurante delle pronunce giudiziarie che cassano i suoi provvedimenti. Qui vale più che altrove il principio della legge del sociologo Peter, ossia che un dirigente giunge al massimo della sua carriera quando raggiunge il massimo della sua incompetenza. La convinzione conscia o inconscia che la formazione scientifica affidata a istituzioni specializzate strida con l’idea di sapere conculcato nelle pubbliche amministrazioni dal personale preesistente che, in ultima analisi, tramanda solo abitudini e comportamenti inveterati, finisce per costituire il principale ostacolo al cambiamento di mentalità della burocrazia italiana.
Il terzo problema è quello del ruolo che è chiamato a rivestire ciascuno sul posto di lavoro. Per completare il discorso di poc’anzi, va detto che il rispetto delle catene di comando costituisce un problema per tutti i sistemi del mondo; non a caso nel suo ufficio della Casa Bianca John Fitzgerald Kennedy aveva fatto appendere questo cartello: “Qui finisce lo scaricabarile”. Il problema è stato affrontato seriamente da tutti i sistemi, prima di tutto dal punto di vista teorico. Un metodo, per esempio, è di riuscire a passare da una burocrazia in senso stretto a una sorta di “adhocrazia”, ossia formare e creare del personale che sia capace di risolvere in autonomia tutti i problemi connessi al loro settore senza farli scorrere da un ufficio all’altro fintanto che non si giunge alla firma del dirigente, che chiude così la partita, come si è visto nel caso del giudice tedesco. E ciò per evitare che cessino una volta per tutte le risposte ricorrenti del tipo “questo non spetta a me”, “questo non è di mia competenza”, “adesso passo tutto al capo ufficio”, ecc. che costituisce la base degli odiati rimpalli delle pratiche e dello scaricabarile, appunto, da una stanza all’altra cui è costretto a peregrinare l’utente. Si può fare diversamente?
Faccio un esempio molto banale: oggi, se c’è da costruire una strada la pratica è affidata a un ingegnere dell’ufficio, che prepara il progetto, fa la gara e sceglie l’impresa aggiudicataria. Finisce tutto? No, in realtà tutto qui appena inizia perché siamo al primo anello della catena che ha l’obbligo di passare la pratica al suo capo ufficio, che la dovrà istruire adeguatamente perché poi dovrà essere trasmessa al dirigente per la firma, il quale a sua volta dovrà chiedere anch’esso lumi, chiarimenti, spiegazioni, ecc., da cui il famoso collo di bottiglia che caratterizza tutte le amministrazioni e la ragione per cui ben poche realizzazioni vedono la luce. Che bisogno c’è di tutti questi passaggi quando la soluzione sta comunque in pugno a quell’ingegnere da cui tutto è partito, perché non lasciare che la conduca in porto? Per un maggiore controllo, si dice, perché due, quattro sei occhi vedono meglio di due. Siamo sicuri? Il fenomeno potrebbe avere un’altra spiegazione, ossia che chi intende fare prevalere il suo interesse ad aggiudicarsi la gara trova che la via più spedita sia di interloquire non con chi è deputato istituzionalmente a gestirla ma rivolgersi direttamente al potere politico che ha nominato il dirigente che, pena il mantenimento della sua posizione, non potrà dire di no. La frustrazione professionale del burocrate è data il più delle volte dalla sua deresponsabilizzazione, perché non portando a termine l’operazione non proverà quella soddisfazione creativa che lo psicologo del lavoro di Harvard, Edward Ned Hallowell, definisce essenziale perché uno si realizzi in pieno e creativamente nel suo percorso professionale.
Per concludere e per rispondere alla domanda iniziale, se è vero che l’oggetto del bersaglio, il burocrate, è responsabile solo in parte delle disfunzioni del sistema nel quale opera, bisogna riconoscere che questo sistema contribuisce a trasformare nel tempo un buon numero di impiegati pubblici in inconsapevoli Frankenstein che gongolano delle disgrazie dell’utente, noncuranti che dalle loro inerzie dipende la sorte di imprese e di individui, ma anche pronti a trasformarsi in minacciosi incendiari se lo stipendio non arriva puntualmente e tutto intero il 27 del mese. Evviva il “posto” che, come diceva Indro Montanelli, è una cosa diversa dal “lavoro”.
Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023
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Aldo Aledda, studioso dell’emigrazione italiana con un’ampia esperienza istituzionale (coordinamento regioni italiane e cabina di regia della prima conferenza Stato-regioni e Province Autonome -CGIE), attualmente è Coordinatore del Comitato 11 ottobre d’Iniziativa per gli italiani nel mondo. Il suo ultimo libro sull’argomento è Gli italiani nel mondo e le istituzioni pubbliche (Angeli, 2016). Da attento analista del fenomeno sportivo ha pubblicato numerosi saggi e una decina di libri (tra cui Sport. Storia politica e sociale e Sport in Usa. Dal big Game al big Business, finalisti premio Bancarella e vincitori Premio letterario CONI); ha insegnato Storia all’Isef di Cagliari e nelle facoltà di Scienze motorie a Cagliari, Roma e Mar del Plata in Argentina. L’autore è stato anche un dirigente della pubblica amministrazione con compiti prevalentemente di formazione, studio, analisi e progettazione normativa. Ha scritto, tra l’altro, Anatomia di una pubblica amministrazione (2013) in cui analizza i meccanismi decisori e la mentalità delle pubbliche amministrazioni.
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