di Flavia Schiavo
Le cose, nella vita, non sono mai troppo precise; ed è mentire dipingerle nude, poiché non le vediamo mai se non in una nube di desiderio.
Marguerite Yourcenar, Alexis o il trattato della lotta vana
Sguardi sul cinema
“Sguardi sul cinema”, dedicato a Segnali di vita di Leandro Picarella si avvale della significativa presenza del regista, che ha accolto l’invito a leggere gli otto saggi sul suo film e a restituire le sue impressioni su essi, arricchendo il corpus con una intensa e ponderata riflessione, in cui racconta la genesi e l’esperienza trasformativa connessa alla scrittura e realizzazione della sua pregevole opera. Vale la pena esplicitare, per chiarire il metodo, quale sia stato l’iter che ha dato vita a questo inserto assai “denso”: come di consueto sono stati invitati alcuni studiosi e studiose (Clemente; Costa; Dallavalle; Lanini; Sabato; Salanitro; Schiavo; Sorce) a vedere il film e a scrivere su di esso un saggio. A conclusione di questa prima fase gli scritti sono stati inviati a me (Schiavo) e, contestualmente, a Leandro Picarella. Io ho redatto la mia introduzione e, solo successivamente, ho letto la restituzione del regista, grazie alla quale ho aggiunto un breve commento a quanto già scritto.
Pur nella ricchezza degli sguardi, tutti assai significativi, il film di Leandro Picarella Segnali di vita – definito da Lanini come un «documento etnografico che ci racconta la quotidianità e l’ethos» di una comunità che interagisce con un sistema estraneo e con un outsider – tende a far confluire le riflessioni verso alcuni temi condivisi. Tra i nodi rilevanti la diatriba tra il sapere scientifico e il sapere comune e il complesso rapporto tra soggetti che abbiano ruoli differenziati e “incarnino” quei saperi così lontani e difformi, a volte in dichiarato conflitto.
Tali principali questioni, insieme a molte altre, tra cui il dialogo tra linguaggi differenti (Schiavo) o quello tra “vicino e lontano” (Sabato) raccontando «il rapporto inscindibile fra Homo Sapiens e la Terra» (Sorce), gli aspetti comunicativi e il potere della scienza (Schiavo; Dallavalle; Lanini), e la connessa «relazione fra potere e sapere» (Lanini), le trasformazioni e i cambiamenti di prospettiva agiti in base a scambi reciproci, sono state affrontate dagli otto, tra studiosi e studiose, che hanno visto e ragionato con estrema attenzione sul film.
Alcuni tra i saggi su Segnali di vita colgono la polisemia degli astri, insieme oggetto scientifico e mistico, soprannaturale e simbolico (Dallavalle; Schiavo) gli usi metaforici (Lanini) sia delle scelte relative alla grammatica cinematografica (Sabato), sia degli oggetti rappresentati, tra essi i tardigradi in molti scritti citati e intesi come allegoria (Costa; Schiavo; Lanini; Sorce) della condizione esistenziale dell’astrofisico, tra i protagonisti del film.
Un tema a latere non direttamente trattato, è l’ulteriore distanza tra due forme di comunicazione e di conservazione del sapere, quella orale (in Segnali di vita presente come discorso spontaneo e non strutturato) e quella scritta, relazione interessante qui solo esposta, che andrebbe ulteriormente sviluppata. Potrebbe dirsi, infatti, che il sapere comune sugli astri e sull’astronomia, che emerge dai racconti della comunità montana sia soprattutto orale e locale, e sia nettamente contrapposto al sapere elitario, scritto e “universale”, condiviso dalla comunità scientifica che lo riconosce e lo approva. Da un lato la conoscenza esperienziale e dedotta, fondata sull’appartenenza, sull’esperienza (Schiavo), sulla condivisione di una “base territoriale” (Lanini; Sorce) e di una tradizione profondamente incardinata nei luoghi abitati dalla comunità montana, dall’altro un sapere (soggetto a dinamiche evolutive) estremamente solido, stabile e codificato, fondato su un linguaggio preciso, dotato di definitezza strutturale (Schiavo) che, in parte, distrugge l’unità sincretica della tradizione (S. Nekljudov, “Le tradizioni della cultura orale e scritta”, eSamizdat, 2022, XV: 255-264), allontanando la parola dal contesto, dal vivo risuonare e dai corpi.
Tali forme di testo e di narrazione, tra loro dicotomiche, sia per contenuti, sia per linguaggio, dunque, come hanno rilevato tutti, si scontrano e danno vita a restituzioni di mondi diversi. Il “testo” e la narrazione scientifica, rappresentata da Picarella come una struttura iperstatica che utilizza persone (scienziati e scienziate) ed espressioni esatte e definite, non appartiene però solo alle scienze dure, come la matematica, la fisica o l’astronomia, ma anche a discipline come l’urbanistica o la sociologia (entrambe in fasi di maggiore rigidità di quanto non dimostrino adesso). «Nella realtà» afferma a tal proposito Pier Paolo Pasolini, «tutto è infinitamente meno impettito e adamantino che nelle casistiche sociologiche [...]. I sociologi hanno pronti dei modelli perfetti del grande industriale, della sua signora, del piccolo industriale e della sua signora, dell’intellettuale, dello studente, dell’operaio immigrato, ecc. ecc.: ma nessun modello, perfetto, è mai attuato alla perfezione. Forse i sociologi sono troppo proiettati nel futuro, e sono molto poco interessati alle sopravvivenze» (P.P. Pasolini, Il Caos, Editori Riuniti, Roma, 1979: 101). Come infatti afferma una delle autrici (Clemente) citando Antonino Buttitta, «lo scrittore cercando l’uomo trova gli uomini, l’antropologo, ma anche il sociologo, lo storico etc., osservando gli uomini troppo spesso perdono l’uomo».
Al centro del percorso che compiono insieme l’astrofisico e la comunità, nel loro viaggio di formazione, sono le «misconcezioni», focus di tutte le interpretazioni del film, rilevate attraverso le interviste che, possedendo codici e linguaggi propri, mettono da un lato in crisi la visione scientifica, mentre dall’altro riflettono la triade fatta da “ambiente, natura, culture”, “abitata” dai membri della comunità e testimoniano lo scambio esistente tra soggetti e contesti, discostandosi dai “modelli perfetti”. Paolo, di contro, fonda non solo la visione scientifica ma se stesso su tali modelli, vive inizialmente lontano da se stesso medesimo (Dallavalle; Schiavo) e da quell’intreccio costituito da contesto e abitanti.
Mettendo al centro il tema dell’ambiente, del paesaggio e dello spazio, che ricorre più volte (Sabato), l’opera di Picarella sollecita alcune riflessioni su quanto gli aspetti della tradizione e la relazione tra comunità e luoghi, tra persone e natura siano connessi a paradigmi prossimi a un’idea di decrescita e di gestione sostenibile (Lanini). Gli autori e le autrici si soffermano tutti su tale nodo, notando inoltre come proprio l’incontro con l’Altro (Salanitro) e con l’alterità, grazie alla rottura del telescopio, vissuto da Paolo come una sciagura, inneschi nuove aperture e l’attraversamento dei confini relazionali e spaziali (Salanitro; Dallavalle; Sabato), oltrepassando soglie e frontiere (Sabato), prefigurando un cambiamento: «la distanza si accorcia e compare un continuum tra ricercatore e intervistato» (Salanitro), cambiano le prospettive e il metodo, ci si addentra nel quotidiano (Sabato; Schiavo).
Ciò viene opportunamente evidenziato da Clemente, anche grazie ad alcune interessanti citazioni tratte dalla recente prefazione di Antonino Cusumano a un testo di Dario Inglese: «il campo di battaglia si trasforma in campo nell’accezione antropologica del termine»; «campo» come «presenza densa e intensa», «situazione relazionale in cui si attua la ricerca antropologica, come costruzione simbolica, spazio elettivo in cui l’incontro e il confronto tra soggetto osservante e “oggetto” osservato plasma gli oggetti e i soggetti stessi della ricerca».
In questa condizione umana e relazionale il linguaggio scientifico (Costa; Salanitro; Schiavo), inizia a vacillare e a sgretolarsi, mostrando sia la propria potenza, sia le proprie insidie. Mentre l’incontro con i membri della comunità, mette in luce le ambiguità e la ricchezza dell’esperienza e della relazione intersoggettiva, viene superata l’asimmetria iniziale, emerge la dimensione sociale della ricerca e le pratiche di riconoscimento (Salanitro). La comunità montana accoglie Paolo, mentre questi quasi «dimentica che le sue argomentazioni, basate sulle leggi della fisica e su un sapere “disciplinato”» (Sabato).
In questo quadro, ci siamo chiesti tutti, in termini generali: qual è l’attribuzione valoriale delle diverse narrazioni? Sono esatte solo le restituzioni scientifiche? È possibile che le differenti prospettive coesistano? In una delle Lezioni americane Calvino, afferma che l’esattezza coincida con: «l’evocazione di immagini visuali nitide, incisive, memorabili» ove il «linguaggio» sia «il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione» attribuendo, di contro, alla «peste del linguaggio», quell’«automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze», perdendo così parte della forza conoscitiva e dell’immediatezza e rinunciando alla ricchezza di quelle parole non univoche che ci consentano di avvicinarci il più possibile ai fenomeni, alle pratiche e agli altri, istituendo un dialogo con le persone (Costa), per comunicare le idee e le immagini che abbiamo nella mente.
Sulla scorta delle riflessioni compiute è legittimo dunque sostenere che i differenti discorsi messi in campo, mossi e materializzati tramite l’incontro intersoggettivo – per «avvicinamento e approssimazione», come nota Costa e come affermano tutti gli scritti – contengono diverse forme espressive “esatte”, forse non necessariamente oppositive, ma complementari che possono umanizzarsi (Salanitro; Sabato) e trovare nella divulgazione, in opportuni canali comunicativi, in certe pratiche e in appositi luoghi (Costa; Schiavo; Lanini) un trait d’union. In tal senso vale la pena sottolineare che uno degli scritti (Lanini) riflette sul «divario di credibilità che connota il sapere prodotto nei grandi centri direzionali del potere e dell’economia e quello che emerge dalla periferia» rimandando alle epistemologie coloniali e alle asimmetrie di potere tra i grandi imperi e le periferie, sia in termini strettamente territoriali, sia metaforici.
Di grande interesse il contributo di Leandro Picarella che completa e chiarisce, rendendo più trasparente la genesi, la realizzazione del film, le sue matrici (esplicite: Triokala e Divinazioni e implicite, es. la cinematografia di V. De Seta), il senso, anche grazie alla rivelazione epifanica donatagli dal brano di Franco Battiato da cui è stato tratto il titolo. Segnali di vita, da lui definito come film di finzione e «laboratorio umano», è cinema del reale che racconta la vita, seguendo un lento percorso in grado di formare un’altra realtà che riguarda i luoghi, le persone e le storie, come afferma Picarella, profondamente e reciprocamente interconnessi. Come tutti abbiamo colto, il film non si sarebbe potuto realizzare senza la lunga permanenza che ha trasformato lo stesso regista in uno dei membri della comunità, che lo ha accolto, contribuendo all’attivazione del suo processo creativo per «lasciare sorgere un’idea e poi immergersi totalmente in essa, nella sua storia e nei personaggi – nel mio caso persone, o meglio testimoni – che si vuole raccontare»: ciò ha significato, prosegue Leandro Picarella, «entrare nelle loro case, condividerne lo spazio», condividerne la visione.
Come egli stesso afferma in Segnali di vita ha dominato la spinta etica su quella estetica, pur presente, per tenere conto delle «varie realtà che sarebbero state coinvolte nel processo creativo». In tal senso il regista si è preso cura dei luoghi e dei testimoni, rispettandoli: «niente edulcorazione, niente esotismi, niente neorealismo contemporaneo inteso come fascinazione estetica di uno stile, ma tentativo di evocare qualcosa che con la sola presa diretta sarebbe impossibile fare. Come la vita», per entrare in risonanza con le persone, con le storie con le loro esperienze profondamente incardinate nel tempo della natura e della storia e nei luoghi.
In conclusione tutti gli scritti rilevano la contrapposizione e la permeazione tra due mondi, nonché la metamorfosi di Paolo, da rigoroso, obiettivo, imparziale, distante, a soggetto che diviene parte della comunità, tenendo insieme «agentività contrapposte, lanciando lo sguardo verso le stelle, oltre le montagne, e allo stesso tempo guardando al mondo che si ha intorno per non dimenticare di farne parte» (Sabato). Imparando a osservare non solo le stelle, ma la terra e le pratiche connesse. In grado di leggere e abitare, insieme alla comunità, sistemi non-lineari che producono storie e raffigurazioni di luoghi visibili e incorporei, organizzando sistemi simbolici e una moltitudine di “paesaggi sociali” che includono sia i membri della comunità montana, sia lo stesso Paolo.
Gli stessi flussi narrativi, i segni numinosi, le storie private, le tracce immateriali, le memorie dimenticate, i piccoli eventi diventano indizi e segmenti biografici condivisi, contaminazioni culturali e sociali, storie umane, un magma di significati sociali emergenti in cui, finalmente, è possibile immergersi, per conquistare nuovi equilibri, tra azioni comunitarie (macro e micro), tra le esperienze della popolazione radicata nei luoghi e nella cultura locale. Nel conflitto, forse attenuato, tra le due narrazioni anche il linguaggio della scienza può virare verso l’accessibilità, perdendo la ferrea autorità del dogma: chi, infatti può «garantire che precetti epistemologici apparentemente meravigliosi siano effettivamente efficaci per scoprire la profondità della natura?», come afferma P. Feyerabend, in Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza. Restituendo anche al discorso scientifico un’aura umana, e ricordandoci che osservare, attraversare, esserci, come sostiene T. Bernhard, in Camminare «è un continuo pensare fra tutte le possibilità di una mente umana e un continuo sentire fra tutte le possibilità di un cervello umano e un continuo essere trascinati di qua e di là fra tutte le possibilità di un carattere umano». Segnali di vita quindi, nitidamente ci mostra il valore del caos umano vitale, in cui si possono perdere i confini tra le discipline e i linguaggi, integrando sguardi diversi, intuito, sensibilità e rigore.
Segnali di vita nei cortili e nelle case all’imbrunire
L’obiettivo, che inquadra il sole nascente, i nitidi contorni delle montagne e l’ampio contesto ambientale, stringe sull’edificio bianco e stereometrico dell’Osservatorio. Nelle prime immagini la lucente atmosfera rievoca sia il rapporto magico e onirico con le stelle lontane (complice la colonna sonora), sia alcune raffigurazioni artistiche, cinematografiche o certe poesie romantiche e preromantiche, tra Wordsworth, Keats, Shelley, Dickinson.
Quando, nella sequenza successiva, l’occhio del regista riprende una passeggiata notturna dove uomini e donne tengono in mano delle lanterne, appare chiaro, però, che la storia ha più tempi e più spazi: l’infinitamente grande e il tempo relativo e universale del cosmo, da un lato, contrapposto all’infintamente piccolo e allo spazio vissuto e quotidiano della temporalità umana, tra cielo e terra.
Proprio dentro tale principale opposizione e a numerose altre di cui si dirà più avanti (immenso/microscopico; lontano/vicino; cielo/terra…), si dipana l’intera vicenda, girata a Lignan un luogo poco noto, nella Valle di Saint-Barthelemy in Valle D’Aosta, a circa 1800 metri di altitudine, dove il regista agrigentino Leandro Picarella [1], classe 1984, ha vissuto un intero anno.
Frutto di questa lunga e lenta permanenza è Segnali di vita (2023), un film intenso e misurato, realizzato post pandemia, che integra più generi, è infatti un documentario di osservazione e di creazione. Mischiando realtà e finzione, il film mette a confronto non solo tempo e spazio, ma mondi dicotomici: quello della scienza e quello relativo al “quotidiano” degli abitanti, circa una quarantina di persone della piccola comunità insediata, attori del documentario e in parte cambiati dall’esperienza.
Nel piccolo villaggio, dove sorge l’Osservatorio astronomico esistente dal 2002, arriva all’inizio dell’inverno, mentre tanti partono, un astrofisico che si occupa di astrobiologia e di robotica, Paolo Calcidese [2]. Questi, per ragioni esistenziali che si andranno via via chiarendo, decide di ritirarsi, per approfondire alcune ricerche, scegliendo la solitudine montana tra gli splendidi paesaggi che Picarella riprende con cura. Paolo intende trascorrere in quel luogo, poco abitato, un periodo di ricerca stabilito con i suoi supervisori, ma in breve si accorge che il telescopio, fondamentale strumento per il suo progetto di studio, ha un danno meccanico impossibile da riparare, perché il tecnico di fiducia si trova in Antartide.
Privo del suo “cannocchiale di Galileo”, concordando un piano alternativo con i suoi referenti, Paolo, da solo e senza budget, si trova costretto a “erogare” un questionario, un sondaggio, ai pochi abitanti del villaggio, mirato a indagare le «misconcezioni» e le false credenze, relative all’astronomia: come la gente comune percepisce il sapere esperto? Come le nozioni sulle stelle, i pianeti, la Terra, la Luna o sulle catastrofi cosmiche vengono comprese e raccontate? Come i paradigmi e le scoperte vengono recepiti e restituiti? Quali processi cognitivi e mnestici sovraintendono all’organizzazione del sapere disciplinare nelle menti delle persone comuni, senza istruzione specialistica?
In assenza del telescopio Paolo si trova costretto a varcare un confine, quello tra scienza e vita quotidiana: come scrive Alexandre Koyré [3], infatti, «è attraverso lo strumento di misura che l’idea dell’esattezza prende possesso di questo mondo e che il mondo della precisione arriva a sostituirsi al mondo del pressappoco». In tal modo, riluttante, l’astrofisico firma una liberatoria che svincola i referenti da ogni responsabilità e, conscio che i pochi dati di cui è in possesso non sono sufficienti a produrre validi esiti di ricerca, accetta di concentrarsi sul questionario, come suggerito dal suo capo, che gli fa notare quanto sia importante «essere reattivi alle sfortune». Oltre a questa incombenza Paolo, soprattutto inizialmente, trascorre molto tempo al microscopio, e in compagnia di una sorta di HAL 9000, un innocuo robot bianco di nome Arturo. L’automa, un “essere” vagamente antropomorfo, dotato di voce, con il quale Paolo interagisce, evidenzia l’ulteriore opposizione tra l’umano e il virtuale, tra la natura e l’antropizzazione, tra l’intelligenza umana e quella artificiale.
Fin da 1990, nel primo saggio che tratta degli aspetti emozionali dell’intelligenza, Emotional Intelligence, Peter Salovey e John D. Mayer, hanno notato che l’intelligenza umana possiede varie componenti, tra esse quella emotiva, in condizione di cogliere, comprendere, valutare e gestire le emozioni, accedere ai sentimenti, o di crearli, facilitando la formazione del pensiero, per promuovere una crescita insieme intellettuale ed emotiva [4].
Tale competenza emotiva può essere definita come l’insieme delle abilità concrete, fondamentali per gli individui in scambio sociale, quando tali transazioni suscitino emozioni. Tramite tali interazioni e comportamenti le persone possono avere relazioni positive, favorendo scambi intersoggettivi e comunicativi. In tal senso come afferma Daniel Goleman [5], che ha pubblicato vari rilevanti scritti sull’argomento, le competenze emotive sono composte da quelle sociali e personali. Tra esse l’empatia quale capacità di entrare in ascolto, comprendendo le esigenze degli altri o favorendo legami collaborativi. Lo scambio e l’intersoggettività come affermano Gallese e Morelli [6], è fondamentale: l’io, deriva dal “noi” di cui siamo parte. Tale prospettiva presuppone una profonda integrazione tra mente e corpo, concepisce la radice della conoscenza nella capacità di agire e di muoverci, constata che pensiero ed emozione procedono insieme e che l’empatia è una qualità che consente di sviluppare la nostra capacità di entrare in rapporto, di cooperare, di provare dolore.
Questo paradigma corporeo, fondato sull’intersoggettività, così importante per la consapevolezza di noi stessi e degli altri, è al centro dell’opera di Picarella che, durante l’anno di permanenza, prima visto quasi come un corpo estraneo dalla comunità montana, ha iniziato, anche grazie ad alcuni abitanti, a integrarsi e a entrare in relazione con questi ultimi, partecipando ad alcune attività quotidiane [7], scoprendo i valori costitutivi della comunità, avvicinandosi lentamente con la camera alle persone, ricusando l’atteggiamento predatorio che spesso alcune interazioni manifestano. Tali interazioni, oltre a favorire lo scambio intercomunicativo, attivando la percezione di noi stessi e degli altri, divengono, appunto, focus di una vita sociale basata su comunicazione, ascolto, empatia, coinvolgendo la pluralità dei soggetti. Anche in tal senso l’apprendimento risulta influenzato dai fattori che trascendono il piano cognitivo-astratto, virando verso un assetto in cui il fattore emozionale diviene imprescindibile.
Come infatti afferma Massimo Ammaniti [8], superare il concetto restrittivo di Q.I. e degli strumenti, scientificamente fondati, in grado di misurare quantitativamente l’intelligenza e le sue espressioni, consente di riflettere altrimenti sulla complessità della mente umana, sulla capacità di elaborare pensieri, di concepire e recepire nozioni. La mente, infatti, ha uno spettro assai vasto, che integra aspetti compositi, capacità emotive, verbali, logico-matematiche, cinestetiche o motorie. Diventa dunque basilare concentrarsi sulle forme di intelligenza personale. Anche di questo tratta Segnali di vita, della capacità di attivare l’intelligenza emotiva, l’introspezione, la comprensione dei sentimenti, che nutrono la grammatica delle relazioni e che rifiutano di ridurre a un indice numerico le abilità, gli eventi o le nozioni umane. Quantità e qualità dialogano ma in parte confliggono; come vediamo nel film, empatizzare, comprendere la condizione di chi abbiamo di fronte, dichiarare il proprio bisogno degli altri, ascoltare le proprie emozioni e quelle altrui, tradurre in narrazione e in storie il proprio vissuto, sono tra le azioni focali che consentono di affrontare la scissione tra approcci differenti, ma rivelano anche come l’interazione intersoggettiva possa attivare permeazioni interpersonali e cambiare comportamenti, altrimenti rigidamente reiterati.
Boschi, neviere, ghiacciai, cascate, fanno da contrappunto alle riprese nello scarno laboratorio dove Paolo vive e lavora, inframmezzate dalle immagini che mostrano alcuni pianeti, costellazioni, esplosioni di supernove. Tra i numerosi rimandi e alcune citazioni, da L’albero della vita a 2001 Odissea nello spazio, a Gravity, a Ex Machina, Segnali di vita riesce a raccontare, potremmo dire in between, tra tempi e spazi assai diversi, con una cifra cristallina e sensibile, ma molto incarnata, oltre la retorica, il dialogo spesso difficile, tra due immaginari, quello comune e quello scientifico. Due fronti diversamente resistenti che si scontrano, spesso, senza trovare confluenze.
Linguaggi differenti, idee condivise e oggettivate da una comunità scientifica, visioni extrasoggettive considerate vere, confliggono con raffigurazioni dichiaratamente soggettive, a volte immaginifiche, contaminate, che si fondano su una dissimile forma di narrazione comunitaria o individuale, tanto distante dall’esposizione dei linguaggi scientifici. Idiomi settoriali, spesso formati da un lessico tecnico in cui i termini hanno un significato univoco, funzionale per descrivere fenomeni, eventi od oggetti. Forme espressive talvolta estranee al quotidiano, altre volte parte costitutiva di esso, alle quali è possibile accedere con esperienze dirette o mediante la sfera culturale o empirica.
La configurazione di un linguaggio scientifico, infatti, è un processo che possiamo definire “innaturale”: la scienza, come ci suggerisce Freud in Totem e tabù, entra in gioco soltanto quando l’uomo ammette di non conoscere il mondo ed è quindi costretto a cercare strade nuove per giungere a tale conoscenza; in tal modo il linguaggio si allontana dall’uso comune e si specializza, fornendo un’immagine completa dell’uomo nel mondo, sostitutiva di quella naturale. Avviene ciò che T. S. Kuhn [9] ha definito «distorsione» e «selezione» e si configura un argot codificato comprensibile solo da una élite. Tale linguaggio specialistico per lo stesso gruppo rappresenta uno degli elementi di aggregazione, riconoscimento e di esercizio di potere. Antonio Gramsci [10]nel 1947, ha acutamente osservato che vi è un nesso tra il dibattito sulle questioni della lingua e la questione dell’egemonia, cioè sul rapporto di dipendenza tra le classi sociali subalterne e quelle dominanti: è soprattutto in questo senso che la riflessione sulle tecniche linguistiche trascende l’aspetto puramente speculativo e, «ogni qualvolta che in un modo o nell’altro affiora la questione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale».
Esempio emblematico Paolo, nella vita reale divulgatore scientifico, integralista scientifico e intollerante rispetto alle false credenze scientifiche, alter ego del regista, che riesce a entrare in relazione con i membri della comunità proprio grazie al film [11], al contatto con le parole comuni e con le storie delle persone, superando le iniziali difficoltà di inserimento e gli arroccamenti della comunità scientifica di cui fa parte.
L’amor che move il sole e l’altre stelle
Ulteriore nodo trattato in Segnali di vita è relativo alla scissione tra il senso attributo agli oggetti comuni dai linguaggi, scientifico e quello non-scientifico: il sole, la luna, la terra, le stelle, alcuni fenomeni astronomici, sono descritti in modo difforme dall’astrofisico e dagli intervistati. In un caso vigono lemmi tecnici e nettamente definiti, nell’altro, invece, spiccano locuzioni non univoche che strutturano narrazioni ibride e dichiaratamente soggettive: a una domanda sui moti della terra, l’intervistato risponde di essere dello Scorpione, ponendo la questione delle differenze tra Astronomia e Astrologia.
Si dimostra, come viene notato in sociolinguistica, che un insieme di elementi situazionali agisce sui cambiamenti linguistici e sui contenuti connessi. In relazione ai differenti contesti, muta dunque il senso delle parole che nella scienza sono, quasi sempre, associate a un solo significato secondo una relazione biunivoca, rispetto al campo di riferimento e ai paradigmi vigenti. Una questione cruciale che la scienza tenta di scansare è, infatti, il fraintendimento del senso. I termini tecnici, distanti dal lessico quotidiano, sono basati su sistemi di conoscenze condivise, spesso elitarie, di difficile accesso e comprensione: le parole e i termini proposti da Paolo rivelano, nelle risposte durante le interviste, invece, una pluralità di significati, testimoniando la distanza tra articolazioni, interpretazioni e metodi assai estranei.
Il co-protagonista di Segnali di vita (altra protagonista è la comunità), studioso di astrobiologia, mentre riformula l’intero progetto, indaga al microscopio i tardigradi, micro invertebrati a otto zampe. Singolari organismi resilienti, chiamati “orsi d’acqua”, essi sono oggetto di grande seduzione per Paolo che, considerandoli come punto di congiunzione tra la biologia e l’astronomia, spiega quanto essi siano in grado di superare catastrofi astrofisiche, come la collisione di asteroidi, causa di estinzione di massa sulla Terra, come quella dei dinosauri non aviani, scomparsi 66 mln di anni fa. I tardigradi vivono in acqua, anche nel fondo degli oceani, resistono ai venti vulcanici, e hanno potenti difese contro eventi calamitosi per gli esseri umani. Tali organismi, assai rilevanti per l’astrofisico, capaci di restare sospesi in uno stato di «morte apparente» per moltissimo tempo, rivestono funzione allegorica della stessa natura e dell’esistenza di Paolo, quasi congelato a livello delle relazioni interpersonali. Come scopriremo, infatti, la vera ragione del suo eremitaggio sembra essere stata la fine della relazione con una donna che, avendo desiderato un figlio, lo ha lasciato accusandolo di «guardare sempre troppo in alto».
Oltre le stelle cercate, osservate, studiate e misurate, oltre le frustrate pulsioni di Paolo, l’umanità, anch’essa resiliente, che vive nel minuscolo villaggio, è costituita da vari individui che egli inizia a intervistare. Ogni piccolo nucleo, una famiglia formata da tre persone (il padre, Gabriele, la madre incinta e la figlioletta, Agata), un anziano (Severino, innamorato di una donna rimasta vedova da poco, Agnese), un ulteriore nucleo familiare (una coppia di giovani allevatori di mucche, Silvia e Joseph e il padre di lei), una coppia di amiche… diviene occasione sia per scandagliare i fraintendimenti delle verità scientifiche, sia per rompere la corazza di Paolo che, riprendendoli con una telecamera che marca il confine e la distanza fisica e culturale, pone le proprie domande.
Ognuno dei membri delle comunità ci viene presentato mentre è intento nel proprio lavoro; non sussistono assetti disfunzionali o particolari problemi esistenziali, i rapporti sono semplici, laconici, puri ed essenziali, non appaiono ruoli di genere: Gabriele bada alla figlioletta Agata, cucinano insieme in un clima sereno e giocoso, l’imprenditrice Silvia cura con dedizione le mucche aiutata dal compagno. Tutti sono aperti all’affetto, solidi nelle relazioni, disposti a lasciarsi intervistare in assenza di polemiche, tutti in stretta relazione con il luogo e con i cicli naturali.
Tra neve e silenzio, la prima intervista: due donne alle quali inizialmente Paolo spiega il funzionamento del cervello, marcando la gerarchia posizionale esistente tra lo “scienziato” e l’individuo comune. Egli chiede come si sposti la Terra o cosa sia il sole. Le due donne, forse una coppia, reagiscono in modo spiazzante domandando con curiosità chi sia Paolo, aggiungendo che il sole fa star bene, che la luce rimanda alla fede, alla figura di Gesù, dirottando così le considerazioni su un ambito simbolico e dichiaratamente non scientifico. Paolo, invitandole a rispondere in modo scientifico, sottolinea implicitamente quanto tra differenti rappresentazioni del mondo, tra differenti linguaggi, l’esperto e il comune, non esista alcuna connessione evidenziando, inoltre, quanto potere la scienza eserciti nei confronti del mondo e dei suoi abitanti, umani e non-umani.
Le questioni poste da Paolo non sono complesse: la stella polare è la più luminosa? cos’è la stella del pastore? Cos’è la luna? Quasi nessuno restituisce verità scientifiche, mentre si discute sulla differenza tra ignorare ed essere stupidi. Il regista alterna alle interviste momenti di vita quotidiana, gesti autentici, quasi privi di pathos: Severino chiama quietamente Agnese al telefono per invitarla, Gabriele porta la piccola Agata a passeggio in campagna per raccogliere more, Silvia governa le mucche con le quali ha un rapporto affettuoso… Mentre, durante i colloqui, il sole viene descritto come «energia vitale», o «principio maschile», la luna come un potente elemento che influisce sui «cicli mestruali», «sull’agricoltura», «sulle nascite dei bambini». Paolo chiede quale sia il senso di tali concezioni, per lui solo false e irritanti credenze, rivendicando la veridicità scientifica dei suoi asserti: «esistono quattro forze fondamentali, le altre non sono indagabili», proseguendo: «avete fiducia nella scienza?» qualcuno risponde (la signora Piera) che «questa non ha fiducia in altro, se non in se stessa». Paolo accusa le intervistate di aver «rubato il linguaggio scientifico», affermando quanto alcune cose non siano dimostrabili, ascoltando scettico chi nota che non tutto sia dimostrabile o chi afferma che «il progresso ha bisogno di una frenata», domandando, «ora la scienza è al nostro servizio, ma domani sarà il contrario?».
Riemergono, così, con forza la discussione sul ruolo della scienza come “bene collettivo”, sulle sue eventuali derive (la scienza è a servizio di chi?), e la scissione tra i codici standardizzati e regolativi della scienza e quelli comuni, l’esclusione della soggettività e il concentrarsi sul processo piuttosto che sull’agente degli eventi raffigurati. La descrizione scientifica, difatti, punta: sulla precisione che riduce la polisemia dei termini e cassa l’uso dei sinonimi, sulla concatenazione e coerenza delle frasi del proprio linguaggio, sulla “deagentivizzazione”, cioè sulla capacità di concentrarsi sugli oggetti, sugli eventi, e sui processi visti in termini astratti, non in rapporto all’agente, come pure sulla condensazione e sulla semplificazione sintattica delle espressioni.
Ma, come afferma Sacks [12], il linguaggio non ha unicamente funzioni biologiche, esso possiede una radice culturale e storica: le configurazioni linguistiche sono quindi sistemi di rappresentazione e di comunicazione, potenti e instabili, soprattutto nel parlare comune, e pertanto soggetti a dinamiche evolutive. Costituiscono, inoltre, una rete di connessione, rimandando alla memoria individuale e collettiva. Pur se le discipline scientifiche edificano i propri statuti attraverso un linguaggio distante da quello quotidiano o comune – e, nonostante gli obiettivi enunciati siano legati a una volontà di rappresentazione esaustiva e totale della realtà – anch’esse forniscono restituzioni parziali, per certi versi amplificando la distanza tra le persone e le cose che le stesse parole intendono raffigurare. Nelle interviste, di contro, la trama rigida e codificata del linguaggio scientifico di Paolo, si nega e si sgretola, mostrando quanto i racconti degli abitanti contengano emozioni, memorie, reminiscenze, e oltrepassino i limiti suggeriti dall’organizzazione in categorie: frasi devianti, affermazioni poetiche, ricordi, si discostano dalle “terminologie” scientifiche (elementi coordinati resi solidali da una costruzione teorica), dalle definizioni e dalle teorie “vere e certe” di Paolo. Viene così mostrata una diversa modalità del conoscere “le stelle”, e la nostra origine in loro, attraverso narrazioni che, come un potente materiale plastico, agiscono quasi come un dispositivo letterario: i racconti che emergono con le interviste diventano percorsi da seguire, tracce delle storie di vita dei membri della piccola comunità. Un’apparente babele che inizialmente sdegna Paolo, che in seguito, suo malgrado, viene investito da quel tessuto denso di mito, inventiva, ridondanze, imprecisioni, contaminazioni, incoerenze.
Segnali di vita, dunque, fatto di paesaggi ma soprattutto di storie, ci racconta che siamo tutti figli della polvere di stelle, una affermazione poetica che coincide con una verità scientifica, e ci mostra quanto i linguaggi siano configurazioni complesse in grado di ergere muri, sperequazioni, disparità, e nello stesso tempo, tessere legami, costruire comunità, evocare poesia e sogno. La poesia collettiva di una comunità che narra e riconosce le stelle, il sole, la luna, i moti della terra, attraverso processi di nominazione e di conoscenza non definitoria, attribuendo agli oggetti qualità multiple, connesse all’esperienza interpersonale. Questa si rifiuta di tradurre la realtà, un complesso labirinto di interazioni, utilizzando “idiomi” univoci e semplificati, ammettendo di contro che, come afferma M. Yourcenar «la verità non è pura» [13].
Nel linguaggio comune usato nelle interviste coesistono sensibilità e aspetti logici, poesia e verità procedono affiancati. Da Paolo, però, quel tipo di espressione viene considerato come il topos della finzione, mentre il logos scientifico viene stimato come ambito della certezza e dell’esattezza. Se, come ha notato Lewis Mumford nel 1921[14], «più il ricercatore si avvicina all’uomo più facilmente viene sopraffatto dalla complessità della materia», l’astrofisico cerca rifugio nella scienza per scansare l’ambiguità e la complessità della materia stessa e della sua stessa vita, attuando un distacco non solo dalla realtà studiata, ma anche da quella percepita e vissuta. Ciò nonostante, forse solo attraverso il contatto con i fraintendimenti gnoseologici e con le storie degli intervistati, che egli può accedere a se stesso, abdicando alla verità unica e accogliendo l’errore, mutando il proprio percorso esistenziale, incarnandosi nel quotidiano e incontrando gli umani, anche grazie al film e alle pratiche connesse alla lavorazione di questo. La potenza delle narrazioni degli abitanti, i loro desideri, i frammenti di vita nutriti di socialità, divengono difatti tramite per la integrazione di Paolo che si immerge nella tonalità affettiva dei loro discorsi, seguendo un percorso omologo con quello del regista. Lo stesso Picarella, inizialmente non troppo integrato, partecipando al quotidiano degli abitanti, durante l’anno di permanenza, ha costruito una relazione individuale con alcuni degli abitanti e collettiva con l’intera comunità. Un evento chiave del film, il rito sacro-sociale dell’ascensione al Santuario di Cluny [15] dove viene portata la statua della Madonna, testimonia tale integrazione.
Attraverso le pratiche intersoggettive anche la struttura del conoscere viene messa in discussione: come nota E. Morin [16],
«È necessario promuovere una conoscenza capace di cogliere i problemi globali e fondamentali per inscrivere in essi le conoscenze parziali e locali. (…) È necessario sviluppare l’attitudine naturale della mente umana a situare tutte le informazioni in un contesto e in un insieme. È necessario insegnare i metodi che permettano di cogliere le mutue relazioni e le influenze reciproche tra le parti e il tutto in un mondo complesso. (…) Di qui la necessità di un grande riaccorpamento delle conoscenze nate dalle scienze naturali, al fine di situare la condizione umana nel mondo, con le conoscenze nate dalle scienze umane per spiegare la multidimensionalità e la complessità umane; di qui la necessità di integrare in queste conoscenze l’apporto inestimabile degli studi umanistici, non soltanto quello della filosofia e della storia, ma anche quello della letteratura, della poesia, dell’arte».
L’uomo è dunque pervaso dalla forza oscura e inspiegabile dell’immaginario e, nel contempo, capace di riconoscere ciò che è concretamente definibile, è in grado di concepire i mondi sacri, simbolici e vagheggiati del Mito e quelli relativi alle conoscenze scientifiche e filosofiche, nutrendosi, come dice ancora Morin, «di conoscenze verificate ma anche di illusioni e di chimere». Attraverso il linguaggio metaforico, che manifesta alcune potenzialità interessanti, da un lato può essere mezzo di graduale allargamento della conoscenza e di persuasione razionale, dall’altro dispositivo di produzione di immagini capaci di condensare i diversi aspetti dell’oggetto descritto, tramite un’espressività suggestiva. Per sua stessa natura esso è capace d’includere un residuo non necessariamente spiegabile o immediatamente intelligibile, restituendo un’immagine che va oltre la parola detta, lasciando spazio ad ulteriori e successive interpretazioni. Come afferma una delle intervistate, «non tutto è dimostrabile», e ciò che viene descritto non deve essere – necessariamente – interamente spiegato.
Le medesime narrazioni o le memorie, le esperienze vissute dagli abitanti riguardo alle stelle, contaminate dalla sensibilità e dalle emozioni personali, per quanto inesatte, sono parte del patrimonio culturale locale, impregnano il luogo, costituiscono il “sapere della gente” e della comunità, coinvolgono anche Paolo, oltre alle interviste, ad Agata e al suo papà sul colore delle stelle, che leggono un libro sugli astri, giocando ad attribuire ad ognuno di essi un nome, a Beppe che ha solo la quinta elementare su cosa sia il sole, a poco a poco l’astrofisico, che entra nelle case degli abitanti, inizia a partecipare alle attività quotidiane. Si creano legami amicali, Severino e Gabriele aiutano Paolo dopo una eccessiva bevuta, informandosi sulle ragioni del disagio e in questo clima anche l’Osservatorio diventa un luogo di cui la comunità inizia a essere incuriosita. Il sole, allora, che Beppe descrive come ciò che arriva al mattino e va via la sera, diviene insieme ai pianeti, alle stelle, alle costellazioni, anche occasione per godere di uno spettacolo grandioso, durante le scene finali del film quando l’intera comunità viene invitata a partecipare a un altro rito laico-sociale, contraltare della processione verso il Santuario: la rappresentazione luminosa e dinamica dell’Universo, mentre Segnali di vita di Franco Battiato, summa dell’intera filosofia del film, sottolinea gli splendori dello spazio immenso e non più così lontano.
È possibile allora osservare il cielo attraverso le emozioni della comunità e l’impronta delle narrazioni degli abitanti? E tale descrizione ha valore inferiore rispetto a quella che emerge dalla disciplina scientifica? Le scienze [17] dovrebbero meno “incestuose” e interagire non solo tra loro, ma con le persone, essere più vicine a una concezione non connessa al mercato capitalista, più prossime a una visione che introietti il limite e non concepisca la scienza stessa come infallibile o immediatamente desumibile dal reale. La Terra, infatti, non è una proprietà del genere umano, ma una casa comune che accoglie e genera la vita in tutte le sue forme. La scienza dovrebbe riconoscere il carattere complesso dell’identità comune a tutto il sistema vivente, una identità biologica, culturale, storica, che riunifichi le conoscenze disperse nei saperi, nelle scienze, quelle della natura, quelle umane, quelle comuni, quelle filosofiche o letterarie.
Siamo composti di polvere di stelle? chiede Paolo durante numerose interviste… spiegando la formazione del sistema solare contaminato dall’esplosione delle supernove, mentre Severino riflette sul fatto che «siamo polvere e quindi dovremmo riflettere su come vivere». Tutti e tutte ricusano l’affermazione, forse perché affine, nell’enunciato, a una espressione poetica od onirica. Ci aspettiamo che la scienza sia fredda e distante, e non riusciamo a immaginare che noi, in fondo, siamo figli e figlie della Terra come del Cielo.
Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
Note
[1] Leandro Picarella, diplomato alla Centro Sperimentale di Cinematografia di Palermo, prosegue la sua formazione tra Palermo e Firenze, specializzandosi in cinema e letteratura teatrale italiana. Tra il 2010 e il 2014 scrive e dirige i primi cortometraggi e alcuni brevi documentari. Regista e produttore, ha al suo attivo, oltre al recente Segnali di vita (regia; 2023), Lovano supreme (produttore; di F. Maresco, 2023), Divinazioni (regia, sceneggiatura, montaggio; 2020), Epicentro (regia; 2018), Dio delle zecche (regia, sceneggiatura, montaggio; 2015), Triokala (regia, sceneggiatura, montaggio; 2015). Segfnali di vita, presentato al Festival del Cinema di Roma, del 2023, è stato prodotto da Qoomoon con Rai Cinema, in coproduzione con Soap Factory e con L’Eubage per la produzione esecutiva.
[2] Il protagonista è realmente uno studioso appartenente alla comunità scientifica: laureato in Fisica, è ricercatore e responsabile della didattica e divulgazione presso l’Osservatorio Astronomico della Regione Autonoma Valle d’Aosta. Si occupa nell’ambito della ricerca, in collaborazione con l’INAF-Istituto Nazionale di Astrofisica, dello studio fotometrico dei Nuclei Galattici Attivi, galassie lontanissime con nuclei misteriosi che nascondono enormi buchi neri supermassicci. Nel 2024 ha vinto Il Premio PLANit 2024 con il filmato “Breve Viaggio nel Cosmo in compagnia di Pepper”. Ha un blog: https://paolocalcidese.blogspot.com.
[3] A. Koyré, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, Einaudi, Torino, 1967.
[4] P. Salovey, D. J. Sluyter (eds.) Emotional development and Emotional Intelligence: educational implications, New York, Basic Books, 1997.
[5] D. Goleman, Intelligenza emotiva, Milano, Rizzoli, 1997; D. Goleman, Intelligenza emotiva, BUR, Milano, 1995; D. Goleman, Intelligenza Emotiva che cos’è e perché può renderci felici, Rizzoli, Milano, 1994.
[6] V. Gallese, U. Morelli, Cosa significa essere umani? Corpo, cervello, e relazione per vivere nel presente, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2024.
[7] Vd. Intervista a Picarella, “Segnali di vita, ne parliamo con il regista Leandro Picarella”, Cinema Beltrade, https://www.youtube.com/watch?v=SvUud1aSa2c.
[8] M. Ammaniti, “L’emozione batte l’intelligenza”, in «La Repubblica», 3 marzo, 1996.
[9] T. S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino,1969.
[10] A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Einaudi, Torino, 1975.
[11] Intervista a Picarella, “Segnali di vita, ne parliamo con il regista Leandro Picarella”, op. cit.
[12] O. Sacks, Vedere voci, Biblioteca Adelphi 221, Milano, 1990.
[13] M. Yourcenar, Memorie di Adriano. Seguite dai Taccuini di appunti, Einaudi, Torino, 1988.
[14] L. Mumford, Storia dell’utopia, Calderini, Bologna, 1969.
[15] Sito nel vallone di Saint-Barthélemy, nel comune di Nus, il santuario dedicato a Notre Dame des Neiges si trova a 2.696 m di quota. La tradizione racconta che alcuni pastori rinvennero tra le rocce una statua della Vergine, che fu portata nella chiesa di Lignan, a circa 1000 m più a valle. Ciò nonostante la statua fece ritorno per miracolo tra le rocce dove fu inizialmente rinvenuta, ai piedi della Becca del Merlo. Lì fu edificato un piccolo oratorio, consacrato il 26 luglio del 1659, dedicato alla Madonna della Neve, nei pressi di una sorgente benedetta dove le persone del posto si recavano per pregare durante i periodi di siccità. All’interno la statua della Vergine con il Bambino, databile tra il XVI e il XVII secolo. La festa si svolge il 5 agosto: dopo la messa un corteo accompagna la croce processionale alla vicina sorgente dove viene immersa per tre volte.
[16] E. Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2001.
[17] S. Okasha, Il primo libro di filosofia della scienza, Einaudi, Torino, 2006.
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Flavia Schiavo, architetto, architetto del paesaggio e PhD in Pianificazione Territoriale. Prof.ssa Associata presso la Università degli Studi di Palermo, insegna Urbanistica (Laurea in Urban Design per la città in transizione) e Laboratorio di Progettazione urbanistica (Corso di Laurea in Architettura). È componente del Collegio dei docenti del Dottorato di ricerca in Architettura, Arti e Pianificazione. Ha al proprio attivo numerose pubblicazioni (saggi e monografie), in italiano, spagnolo e in inglese, che sviluppano articolati temi di ricerca: fonti non convenzionali (letteratura e cinema per interpretare città e territorio); linguaggio urbanistico; partecipazione, conflitti, azioni e pratiche bottom-up in ambito urbano; parchi e giardini; sviluppo e questioni sociali, economiche e antropologiche nel contesto della Rivoluzione Industriale; arte, culture urbane e contaminazioni. Tra i titoli delle monografie: Parigi, Barcellona, Firenze: forma e racconto, 2004, Sellerio, Palermo; Tutti i Nomi di Barcellona, 2005, FrancoAngeli, Milano; Piccoli giardini. Percorsi civici a New York City, 2017, Castelvecchi, Roma; Lettere dall’America, 2019, Torri del Vento, Palermo; New York: entre la tierra y el cielo, Ediciones Asimétricas, Iniciativa Digital Politècnica, Barcelona, Madrid, 2021; Lo schermo trasparente. Cinema e Città, Castelvecchi, Roma, 2022; Nata per correre. New York City tra il XIX e gli inizi del XX secolo, Aracne, Roma, 2023; 8 lezioni newyorchesi. La Democrazia delle Città, la Democrazia della natura, Il Sileno edizioni, Cosenza, 2023. Fa parte di Comitati scientifici di prestigiose collane editoriali (FrancoAngeli) e di Riviste del settore. Ha organizzato seminari, simposi, meeting, convegni nazionali e internazionali e ha condotto lunghi periodi di ricerca in Italia e all’estero, in Europa (UAB, Barcellona) e recentemente negli Stati Uniti (Columbia University, New York City).
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