Se dovessimo assumere il termine “fine del mondo” in senso letterale, già da questo dovremmo sospendere qualunque discorso sull’argomento, dato che in quella eventuale contingenza noi non saremmo più in grado di viverla né tantomeno di descriverla. Wittgenstein ci ammonisce infatti che «su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». Ma c’è un vecchio proverbio, attribuito a Lao Tsu, che ci ricorda come «Quello che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla».
Ciò significa che il mondo non finisce, mentre i mondi continuamente nascono, muoiono e si trasformano. Il problema allora è proprio quello che ci ricordava Antonio Gramsci: «La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati».
Se riuscissimo per un attimo a sollevarci (col pensiero, ma seriamente) al di sopra del nostro pianeta, in modo da poterlo scorgere nella sua globalità, avremmo forse la possibilità di esaminare le categorie di umanità che in esso si muovono come formiche brulicanti. Non parlo delle razze, ci mancherebbe. Intendo piuttosto quelle che per me sono le tre forme in cui il genere umano rimane oggi distribuito.
Ci sono gli impauriti, ci sono i feroci, e c’è poi una terza categoria di persone che volta a volta dispiegano uno sguardo pensoso, indignato, triste, spesso anche amorevole e perfino ottimista sulla paura e la ferocia che scorgono intorno a loro. Questi ultimi sono, secondo me, quelli che si sforzano, con i poveri strumenti che posseggono e nei modi imperfetti in cui a loro riesce, di leggere i segni dei tempi.
“Facci contare i nostri giorni, e giungeremo alla sapienza del cuore”. Mi è sempre piaciuto questo versetto del Salmo 89, per la sua capacità di suggerire letture diversificate e generare in tal modo sensi sempre nuovi. Io ad esempio a quel “contare i giorni” attribuisco il significato di un “mantenere il senso della storia”, di un “saper leggere i segni dei tempi”. La sapienza del cuore possiamo infatti, a mio parere, raggiungerla solo nella misura in cui siamo in grado di dispiegare uno sguardo sulla realtà che ci circonda con occhi “aperti nella notte triste, asciutti nella notte scura”, come ci insegna il poeta De Gregori. Già, leggere i segni dei tempi. Pare che diventi ogni giorno più difficile, tanto che sono in molti oggi a ritenere che per poter migliorare le sorti proprie e quelle del pianeta la soluzione sia quella di aumentare il grado di temperatura della società.
A metà del secolo scorso Claude Lévi-Strauss (un antropologo che poco piacerebbe a Bolsonaro) proponeva di sostituire alla distinzione tra “primitivi” e “civilizzati” quella tra società “fredde” (il cui clima interno è «allo zero assoluto di temperatura storica») e società “calde” (che «assomigliano nella loro struttura alle macchine a vapore» ), le prime tese ad annullare, attraverso le istituzioni e le forme di cultura che si danno, l’effetto dei fattori storici sul proprio equilibrio e la propria continuità, le seconde – come la nostra – volte viceversa a «interiorizzare il divenire storico per farne il motore del proprio sviluppo». Le prime dunque basate su continui “equilibri”, le seconde amanti degli squilibri come indicatori di vitalità e di sviluppo.
Cos’altro è infatti il capitalismo se non una prassi indirizzata a promuovere sempre di nuovo squilibrio, estraniamento, sperequazione, disparità, barriere, muri tra gli uomini, e anche tra il genere umano e il resto della natura?
Accade adesso che per una serie innumerevole di motivi questi squilibri sembrino esser giunti, per così dire, al capolinea, a un punto di non ritorno. Se in un angolo di mondo al mercato locale macellano pipistrelli e, a seguito di una scheggia impazzita di tale atto, nel resto del mondo oltre tre milioni di persone muoiono e centosessanta milioni si ammalano, bene forse dovremo concludere che questo motore a scoppio della megasocietà calda, che tutti ormai ci avvolge e ci nutre come placenta, è una boiata pazzesca, anzi un’orrida prigione dalla quale dovremmo tutti cercar di evadere.
Evadere? Quando mai! In questa prigione alcuni si trovano mica male, ci sguazzano anzi beatamente perché (come accade nei film in cui il mafioso continua a comandare anche dal carcere) al suo interno non tutti i detenuti sono uguali, e accade che affinché pochi, pochissimi stiano di lusso è necessario che moltissimi, la maggioranza, debbano sacrificarsi a vivere da schifo. Questi ultimi, i poveracci, non sono in grado di leggere i segni dei tempi perché stando sempre a capo chino non hanno mai il tempo di gettare uno sguardo all’orizzonte. Moltissimi di loro, ormai del tutto instupiditi e resi ciechi, credono di vivere nel migliore dei mondi possibili e non si accorgono di far da puntello ai potenti che li tengono in stato di cecità.
Gli altri, i privilegiati d’altronde, se ne stracatafottono dei segni dei tempi. Fintanto che la giostra gira come piace a loro i tempi sono buoni. Alcuni anzi ritengono che si dovrebbe dare un’ulteriore stretta ai miserabili, giusto per garantirsi tempi ancora migliori.
Un esempio recente. Qualche mese fa la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen nel giro di due giorni ha citato Don Milani e Tomasi di Lampedusa. Alla prima citazione «I care» (mi prendo cura degli altri, del pianeta, degli ultimi perché voglio restare umano) ha fatto seguito la cinica «tutto deve cambiare perché tutto resti come prima» (devo rimescolare un po’, ma non troppo, le carte per poter continuare a fare il mazziere). Un bel modo di dare un colpo al cerchio e uno alla botte. Ancora una volta quello che va perseguito è il “tornare come prima”, il garantire al mafioso che sta nella sua prigione dorata di poter continuare a gestire i suoi traffici. Come scriveva Orwell, tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri.
L’antropologo già da me citato, quel francese che ha amato l’Amazzonia tanto quanto Bolsonaro la odia, così profetizzava, sempre settant’anni or sono:
«Lo sviluppo delle conoscenze preistoriche e archeologiche tende a disporre nello spazio forme di civiltà che eravamo propensi a immaginare come successive nel tempo. Il che significa due cose: anzitutto che il “progresso” (se questo termine è ancora adatto a designare una realtà diversissima da quella a cui era stato in un primo tempo applicato) non è né necessario né continuo; procede a salti, a balzi, o, come direbbero i biologi, per mutazioni [..]. L’umanità in progresso non assomiglia certo a un personaggio che sale una scala, che aggiunge con ogni suo movimento un nuovo gradino a tutti quelli già conquistati; evoca semmai il giocatore la cui fortuna è suddivisa su parecchi dadi e che, ogni volta che li getta, li vede sparpagliarsi sul tappeto, dando luogo via via a computi diversi. Quello che si guadagna sull’uno, si è sempre esposti a perderlo sull’altro, e solo di tanto in tanto la storia è cumulativa, cioè i computi si addizionano in modo da formare una combinazione favorevole».
Con tali parole veniva messa in dubbio la concezione unilineare e progressiva dello sviluppo delle civiltà. Circa un decennio più tardi, in Italia, Pier Paolo Pasolini, nella forma poetica che gli era propria, contestava l’identificazione tra “sviluppo” e “progresso”, segnalando profeticamente come la società dei consumi avrebbe sortito – come poi è di fatto avvenuto – quella devastante “scomparsa delle lucciole” che ha progressivamente impoverito gli orizzonti naturali e culturali dei nostri angoli di mondo, facendo smarrire le identità locali e producendo una perniciosa mutazione antropologica che ha arrecato danni alla qualità della vita e ai rapporti delle comunità con gli ecosistemi in cui esse sono inserite.
Chi dunque è oggi in grado di leggere i segni dei tempi? Da una parte ci stanno gli integrati, i boss che gestiscono gli affari dalle loro prigioni dorate, ma anche i loro ascari, tutti i politici, gli economisti, gli intellettuali al loro servizio, a cui sta bene la realtà che li circonda.
In Italia e nel mondo sono legione. Si tratta di grandi capi di stato, di uomini che governano multinazionali, di potenti, di gente dalla grande visibilità pubblica che riesce a narcotizzare anche grandi masse di poveracci, eterni Lazzari che adottano modelli di comportamento e condividono idee in contrasto con i loro reali interessi. Fanno, per così dire, “girare all’indietro la ruota della storia”. Irrimediabilmente stolidi.
Dall’altra parte operano, pensano, agiscono persone come Serge Latouche e Zygmunt Bauman, moderni critici del consumismo e teorizzatori della decrescita felice, che hanno variamente avviato un processo di demitizzazione dello sviluppo fine a se stesso partendo proprio dalla considerazione che non ci sia rapporto di conseguenza tra crescita economica e benessere, e che anzi il consumo (o, meglio, il suo eccesso) conduce al peggioramento della qualità dell’esistenza degli uomini e della vita dell’intero pianeta. Alla perdita della felicità.
Da noi, qui in Italia ma con una voce limpida in grado di raggiungere l’intero pianeta, Jorge Mario Bergoglio ci offre pressoché quotidianamente spunti per riflettere sul nostro grado di umanità e su come l’abbandonarci alle lusinghe delle mitologie (quella sovranista, tanto per citarne una) che molti ci propinano rischi di abbassarlo sempre più fino a ridurci a meri tubi digerenti.
Cos’altro aggiungere? Il capitalismo è un cane morto, ma la società – questa enorme planetaria e feroce società – non riesce a staccarsi dalla sua carogna putrescente. Infatti continua ad abbeverarsi a quei tessuti infetti. Gli esempi di Russia e Cina, e delle multinazionali sparse nel mondo, continuano a ricordarci che il genere umano è oggi sempre più oggetto di preda da parte di chi pratica la barbarie, e il suo sguardo sulla realtà si fa sempre più opaco. Jean Baudrillard già oltre vent’anni fa aveva lucidamente preconizzato:
«Possiamo pensare che ugualmente ci aspetta, e a breve scadenza, una forma di implosione collettiva di certe tecniche e tecnologie: ce ne sono le tracce, già se ne vedono prefigurazioni nei crack finanziari e delle borse, e lo si vede bene in relazione a certi frammenti del sistema, frammenti interi che possono cadere d’un sol colpo».
La narrazione dominante ci fa credere che tutto lo sconvolgimento planetario abbia come responsabili l’eccessivo numero di umani che popolano la terra e la loro abitudine di consumare. Ma l’uomo da che mondo è mondo ha sempre consumato le risorse del pianeta per vivere e sopravvivere a se stesso come specie! Non occorre essere demografi per condividere tale dato. Il problema allora non è quello del consumo, né quello del numero di abitanti. Si tratta piuttosto di esaminare quale tipo di consumo venga oggi praticato, e a beneficio di quale categoria di abitanti. Il problema reale, cari amici, ha un solo nome. Capitalismo. Una parola che viene raramente pronunciata, anche nelle analisi più serie e approfondite sul collasso del pianeta, un collasso che il WWF nel Living Planet Report a più riprese ha denunciato, rilevando che ci troviamo in una condizione di “recessione ecologica”, in quanto l’eccessivo consumo delle risorse (un terzo in più di quelle disponibili) ci conduce fatalmente verso un debito ecologico destinato a tramutarsi in una scomparsa lenta ma irreversibile della nostra civiltà.
Pare che pochi al mondo se ne stiano accorgendo, qualche scienziato, la oltremodo aborrita Greta e il nostro commovente Papa Francesco, combattuto da alcuni idioti in quanto ritenuto “comunista” per il solo fatto di indicare nel capitalismo la causa principale, anzi unica, dell’alterazione dei ritmi naturali in un pianeta altrimenti meraviglioso. È il capitalismo a determinare il tipo di consumo che si pratica nel pianeta e al contempo la perimetrazione dell’ambito di chi ha il diritto di beneficiarne. L’Occidente e l’Oriente capitalistici, neo-liberistici o come li si voglia definire, seguono ormai le regole di una globalizzazione dei consumi cui non si accompagna la globalizzazione dei diritti, delle libertà, della facoltà per gli ultimi di autodeterminarsi.
Noi, avvezzi come siamo a crogiolarci entro la placenta del nostro benessere, incontriamo difficoltà a comprendere che la fine del mondo non è la fine del mondo, ma è sempre la fine di un mondo. Se tale consapevolezza ci fosse, non assisteremmo alle tante scempiaggini apocalittiche espresse sui social a proposito dei flussi migratori. I nostri antenati, di fronte a un evento di grande bizzarrìa o stranezza, usavano dire “non c’è cchiù munnu!”. Noi, che abbiamo per fortuna perso la loro ingenuità e sappiamo che quel mondo non era l’unico mondo, non possiamo più permetterci di pensarla allo stesso modo. Non ne abbiamo più alcun diritto. E non lo abbiamo in quanto questo “nuovo mondo”, che tanto sgomenta molti individui delle nostre società, hanno iniziato a costruirlo i nostri progenitori.
Da che mondo è mondo (è il caso di dire) abbiamo esplorato, colonizzato, sottomesso e dominato altre plaghe del pianeta. Abbiamo in tal modo esportato i nostri costumi e i nostri modelli culturali, compresa la nostra “democrazia”. Qualcuno pensa ancora che abbiamo portato solo la nostra civiltà. La verità è che abbiamo “scassato i cabbasìsi”, per dirla alla Camilleri, a molte pacifiche popolazioni che vivevano tranquille, risolvendo – pacificamente o guerrescamente – i problemi con i loro rispettivi confinanti. Tutti ormai sappiamo che non eravamo mossi da un istinto filantropico nell’andare a “civilizzare” popoli diversi dai nostri. Ci siamo andati spinti dall’avidità verso le loro risorse, i loro giacimenti, le loro terre. Altrimenti non li avremmo ridotti in schiavitù, trucidati, gasati, deportati etc. Non avremmo, una volta distaccatici da loro, venduto armi e messo a capo dei loro Stati dei tiranni corrotti o dei fantocci manovrati a distanza.
Adesso qualcuno pensa che sia giusto e legittimo (“per preservare le nostre radici cristiane”) lasciare affogare nel Mediterraneo coloro ai quali noi stessi (i nostri padri, i nostri nonni) hanno sottratto ogni risorsa nei loro Paesi, coloro che fuggono da guerre preparate a tavolino o fomentate o armate da “civilizzatori” europei o americani.
La verità è che lo scandalo dei migranti è forse l’ultima opportunità che l’Occidente ha, in questo terzo millennio, di recuperare le proprie radici. Radici certamente anche cristiane ma che hanno assorbito nel crogiolo della storia tutte le istanze di democrazia e libertà, dall’Illuminismo alle lotte operaie, principî che adesso alcuni pretenderebbero di cancellare ritornando alla cupa barbarie dell’homo homini lupus.
Mutando il contesto storico, mi pare che anche le attuali contingenze produrranno effetti di spaesamento, di piccola ma cruciale “fine del mondo” in tutti coloro che, a piccoli passi, sperimenteranno il ritorno a una vita normale. Normale? Facile a dirsi, o a sperarsi! Di fatto, la normalità alla quale eravamo abituati non potrà più costituire il nostro orizzonte quotidiano.
Al netto dei droni e delle baggianate messe in campo negli ultimi due mesi, occorrerà infatti avviare una rinnovata organizzazione e plasmazione degli spazi, un rinnovato controllo sulle spinte eccentriche ad essi sottese, e soprattutto una nuova, mai prima d’ora sperimentata, prassi negoziatoria tra il “dentro” e il “fuori”, che hanno in questi mesi smarrito le proprie abituali coordinate.
Occorrerà attivare nuove, e ben diverse dal passato, strategie atte a porre in essere articolati meccanismi di protezione simbolica. Allorché gli spazi domestici non sono più protetti, come è di fatto avvenuto nel caso dei nostri spazi abituali di manovra che volenti o nolenti siamo ormai indotti a considerare contaminati, il rischio – ben più grave degli esiti letali della pandemia che hanno interessato un ridotto numero di persone – è quello di un progressivo scivolamento dalla città culturalmente determinata, dalle opere e dai giorni della sua comunità, alla Ingens Sylva (G.B. Vico) che tende a riguadagnare uno spazio un tempo antropizzato alla natura da cui esso proviene.
Credo che a poco varranno le tradizionali strategie di “sacralizzazione”. Il mutamento nei rapporti spaziali tra le persone imporrà una nuova prossemica, e la paura di contatti rischiosi condizionerà anche la nostra cinesica, il nostro muoverci al di fuori della sicura ma asfissiante placenta domestica.
Già il recente periodo di quarantena, di isolamento domestico ha suscitato la naturale esigenza di creare reti (materiali o immateriali) di socializzazione, di condivisione comunitaria di forme plurime di vitalità. I flash mob dai balconi, i concerti virtuali on line, il vario e articolato scambiarsi sui social paure, recriminazioni, pensieri, speranze, cos’altro hanno rappresentato se non l’avvio di agorà telematiche che attendono con impazienza di diventare piazze reali, fisiche, calate negli spazi oggi preclusi?
Mircea Eliade, il grande storico delle religioni, ha posto in risalto l’irriducibile alterità esistente tra lo spazio sacro e quello profano, lo spazio del costruito e quello della selva esterna, lo spazio del lavoro, del rito, della società, della vita, lo spazio domestico, autentico, “appaesato” e quello oscuro, rischioso, inautentico, angosciante, alieno, “spaesante” (Freud direbbe unheimliche, “perturbante”).
Il problema allora, per città come le nostre che da decenni hanno assunto la poco lusinghiera caratteristica di non-luogo, sarà quello di apprendere faticosamente a ri-sillabare forme di socialità da lungo tempo e per troppo lungo tempo dismesse. Forme più consapevoli della storia che viviamo e delle varie forme di umanità che l’attraversano, del contesto planetario in cui tutti ci troviamo e che in ogni momento ci interpella chiedendoci scelte di campo, coraggio e libertà di pensiero. Più spirito critico e meno cedimento alle lusinghe degli ilari governanti da cui siamo circondati. Chissà, forse anche con meno auto, con più solidarietà. Sapremo essere all’altezza del compito che ci attende? Antonio Gramsci, mutuandolo da Romain Rolland, parlava di un pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà.
Concludo con una suggestione antropologica. Nel suo La Fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali (Einaudi, 1977 e 2002, poi nel 2019 in una nuova rinnovata edizione) Ernesto de Martino, abbandonando la predilezione per i contesti nei quali aveva decriptato i meccanismi sottesi alla “crisi della presenza” e alle svariate risposte che ad essa le culture arcaiche riuscivano a fornire ai fini di una loro “reintegrazione culturale”, si volgeva ad esaminare le forme di crisi presenti nelle società moderne, trasformandosi così in etnografo del mondo contemporaneo. E tuttavia, le risposte culturali che gli pareva di dover ancora una volta evidenziare a fronte delle svariate “crisi” da cui questo mondo era di volta in volta investito erano sempre quelle legate all’adozione di orizzonti comunitari, a forme di riscatto esistenziale che non potevano prescindere dal considerare l’intima solidarietà tra gli uomini e la necessità di tornare a risillabare linguaggi comuni.
“Fare pace con il pianeta” è dunque un compito che concerne per un verso ambiti che toccano la nostra quotidianità, le nostre giornate storiche, i nostri costumi, le nostre più pervicaci e intime tare di gente assuefatta all’opulenza e per nulla disposta a sacrificare un briciolo del benessere di cui si ammanta per garantire un equilibrio più umano dei luoghi e delle realtà animate che li abitano.
Per altro verso, “fare pace con il pianeta” comporta recuperare uno sguardo nuovo sulle cose, sullo scacchiere mondiale che ci sta dinanzi, sulle forze palesi e occulte che dominano l’economia e la finanza e determinano i destini di intere società. Acquisire inoltre una nuova consapevolezza sulle conseguenze della nostra boria, sulle false narrazioni di una crescita illimitata che dovrebbero ormai apparirci in tutti i loro aspetti grotteschi e mistificanti.
Il rispetto della natura e delle forme di vita che la abitano, la ripulsa verso ogni disboscamento, ogni cementificazione, ogni spreco, ogni uso improprio delle risorse naturali. Verso ogni forma di sfruttamento e prevaricazione dell’uomo sull’uomo, tutto ciò dovrebbe far parte del corredo elementarmente umano di tutti quanti intendano vivere – e non vivacchiare – da esseri liberi.
Donne e uomini magari non in grado di ribaltare la situazione, ai quali è però demandato il compito di avere contezza e tramandare memoria (Fahrenheit 451 insegna!) del reale nemico cui occorrerà dar battaglia, un nemico costituito non dalle masse disperate, dall’Africa al Bangladesh, sterminate da siccità, inondazioni o malattie, ma dal sistema perverso che vede nel profitto e nella crescita gli unici motori della storia.
Dialoghi Mediterranei, n. 51, settembre 2021
Riferimenti bibliografici
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Sergio Todesco, laureato in Filosofia, si è poi dedicato agli studi antropologici. Ha diretto la Sezione Antropologica della Soprintendenza di Messina, il Museo Regionale “Giuseppe Cocchiara”, il Parco Archeologico dei Nebrodi Occidentali, la Biblioteca Regionale di Messina. Ha svolto attività di docenza universitaria nelle discipline demo-etno-antropologiche e museografiche. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, tra le quali Teatro mobile. Le feste di Mezz’agosto a Messina, 1991; Atlante dei Beni Etno-antropologici eoliani, 1995; Iconae Messanenses – Edicole votive nella città di Messina, 1997; Angelino Patti fotografo in Tusa, 1999; In forma di festa. Le ragioni del sacro in provincia di Messina, 2003; Miracoli. Il patrimonio votivo popolare della provincia di Messina, 2007; Vet-ri-flessi. Un pincisanti del XXI secolo, 2011; Matrimoniu. Nozze tradizionali di Sicilia, 2014; Castel di Tusa nelle immagini e nelle trame orali di un secolo, 2016; Angoli di mondo, 2020.
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