di Paolo Cherchi
Non è difficile capire perché le fontane nel corso della nostra lunga storia abbiano una loro costante vicinanza al mondo magico. Se la magia ha come principio primo la nozione che la natura abbia un’anima, allora le fontane offrono la dimostrazione più chiara di questa verità. Il loro sgorgare vivo, fluente e sempre mutevole ma perenne dalla madre Terra, quindi da una matrice solida e compatta, offre la prova visiva di quest’anima che vive entro quella immobile massa materiale. non è un caso allora se la mitologia — il linguaggio che trasfigura idee o concetti in narrazioni e personificazioni — ci tramanda numerose storie di fontane legate ai nomi di divinità e di ninfe e semidei che servono a dare corpo o concretezza alla forza misteriosa che fa sprigionare l’acqua dalla terra. Ricordiamo solo a titolo d’esempio qualche nome: la fontana di Aretusa e di Salmace e di varie altre cantate dai poeti perché contengono storie di persone assorbite nel grembo di una natura empatica.
Ma la magia non è il solo fenomeno che renda viva la presenza delle fonti nella storia. Fondamentale, infatti, è quello della “socialità”. Le fonti sono i luoghi di ritrovo attorno ai quali si sviluppano i consorzi umani, che non potrebbero esistere senza la presenza dell’acqua. Erano le oasi in cui sostavano le carovane; erano i luoghi visitati dai cavalieri durante il loro costante muoversi inseguendo avventure; ed erano i luoghi in cui gli eserciti si rifocillavano, i pastori vi tornavano sistematicamente per abbeverare i loro greggi. E non solo: le fontane erano il luogo in cui sbocciavano storie d’amore, perché le giovani che andavano a far provvista d’acqua, si incontravano talvolta con dei cavalieri di passaggio. E l’incontro alla fontana divenne un topos della poesia dei trovatori [1].
Non c’era e non c’è città che non abbia i suoi monumenti alle fontane, e spesso venivano e ancora vengono celebrate da monumenti che ne riconoscono l’importanza vitale, la bellezza e la forza perché rappresentano, la vita e il rito del suo scorrere sempre uguale e generoso, festivo, sonoro e scenico.
Se tutto questo è ovvio e facile da spiegare, meno facile è capire che attorno alle fontane siano nate tante leggende che in molti casi le rendono singolari e diverse dalle altre. Alcune fontane hanno un’acqua salmastra e altre no, alcune fontane hanno fasi di intermittenza e potenza e altre no, e altre con varianti e proprietà singolari che le distinguono tanto da avere un nome proprio. E quando ciò accade, si invoca spesso il potere magico della natura, e non si manca di prenderne nota. Nacque così nel mondo antico il gusto di ricordarle come “fenomeni” degni di nota, e questo gusto si spense solo quando la rivoluzione scientifica e lo scetticismo storico lo considerò come un frutto delle superstizioni antiche.
Una lista di tali fonti è stilata da Plinio nella sua Naturalis Historia, che citiamo nella traduzione di Lodovico Domenichi pubblicata a Venezia da Giolito de’ Ferrari nel 1561. Il grande naturalista se ne occupa a varie riprese. Una volta nel secondo libro e al capitolo 103 che il traduttore intitola “Miracoli dell’acque, de’ fonti et de’ fiumi” (vol. I: 52-55), dal quale stralciamo qualche paragrafo:
«Nella selva Dodona di Giove è una fonte gelata, la quale spegne le facelline accese messevi dentro, et s’elle sono spente, che vi s’accostino le raccende. La medesima fonte manca sempre nel Mezogiorno, et perciò si chiama Anspoumenon, cioè riposantisi. Dipoi crescendo sulla meza notte trabocca, et di nuovo vien mancando a poco a poco. Il Ischiavonia le vesti distese su una fonte freda s’acendono. La fonte di Giove Hammone di giorno è fredda, et di notte bolle. Nel paese dei Trogloditi è una fonte, che si chiama del Sole, dolce, intorno al mezogiorno molto fredda, dipoi a poco intiepidisce, et sulla mezza notte bolle, et si fa amara. La fonte del Po di state sul mezo dì, come se si riposasse, è sempre secca. Nell’isola di Tenedo è una fonte, la qual sempre dalle tre alle sei hore di notte nel solstitio della state trabocca. Et nell’isola di Delo è una fonte che si chiama Inopo, laquale, in quel medesimo che il fiume Nilo cresce, et scema. All’incontro del fiume Timavo è un’isoletta in mare con fonti caldi, i quali crescono, et scemano insieme col mare. [ …] Nel territorio di Rieti è una fonte che si chiama Neminia, la quale nasce quando in un luogo quando in un altro, et con tal mutatione significa hora dovitia, e hor carestia. Nel porto di Brandizzo è una fonte, onde i naviganti tolgono l’acqua, che non si guasta mai. A Lincesti è un’acqua, laqual si chiama Acidula, ch’a uso di vino imbriaca le persone. Il medesimo è in Paflagonia, et nel paese di Galeno. Scrive Mutiano, ilquale fu tre volte consolo, che nell’isola d’Andro, nel tempio di Baccho è una fonte, laquale sempre a’ cinque di Gennaio ha sapore di vino, et chiamasi questa fonte Diotecnosia. In Arcadia appresso a Nonacria è una fonte chiamata Stige, la cui acqua non è punto differente dall’altre né di odore m né di colore, et nondimeno subito ch’è bevuta uccide altrui. In un poggietto anchora del paese dei Tauri chiamato Beroso son tre fonti, senza rimedio, et senza dolore alcun mortiferi. Il Hispagna nel territorio Carrinese corrono due fonti l’una appresso l’altra; l’una rifiuta, l’altra inghiottisce ogni cosa. Nel medesimo paese ve n’è un’altra, la quale mostra tutti i pesci color d’oro, i quali fuor di quell’acqua non sono punto differenti da gli altri. Nel contado di Como sul lago è una fonte tanto larga, ch’ogni altro ch’ogni ora cresce, et scema. Nell’isola Cidonia dinanzi a Lesbo calda la quale corre solamente la primavera» (ivi: 53 sgg.).
Plinio riprende il tema nel libro ventunesimo al capitolo secondo, “Della differentia dell’acque, et duecento sessanta sei tra medicini e osservazioni d’esse (ivi: 976-981). L’elenco è troppo lungo per riprodurlo, per cui ci limitiamo a trarne qualche caso.
«Il fonte di Thespie fa ingravidare le donne, e così il fiume Elato in Arcadia. Il fonte Lino nella medesima Arcadia, custodisce il parto, e non lascia fare sconciature. […] Tungi città della Francia ha un notabil fonte, con più sonagli, a modo di stelle, di sapore di ferro; il che non si sente, si non poi che s’è bevuto. L’acqua di questo fonte purga i corpi, guarisce la febre terzana, e il male della pietra. La medisima acqua, accostatovi il fuoco, diviene torbida, all’ultimo rosseggia […] Dice Eudico, che in Hestieotide sono due fonti, l’uno si chiama Cerone, di cui beendo le pecore diventano nere; ma se beono dell’altro chiamato Mela, diventano bianche; e dell’uno e dell’altre si fanno varie. […] Et nell’isola di Cea, è un fonte, il quale fa i sentimenti grossi. A Zanta in Africa n’è uno, che chi ne bee, fa la voce canora […] Scrive Mutiano, che del fonte di Bacco, ch’è in Andro, per sette giorni ordinati di quel dio esce vino, et se si leva la vista al tempio, trapassa il sapore in acqua. […] E in Lamagna di la dal Rheno sono i fonti Mattiaci caldi, de quali l’acqua che s’attinge, bolle tre giorni. Et l’acque intorno alle margini fanno pomice. Et se pure alcuno pensasse che di queste cose non fosse da credere, sappia, che in nessuna parte di natura sono maggiori miracoli, benché nel principio dell’opera copiosamente n’habbiamo dette molte cose» (ivi: 978 e sgg.).
Plinio non fu il primo a rilevare le diverse peculiarità di tante fonti, e infatti dai passi citati si deduce che spesso si rifà ad altri autori; e non fu neppure l’ultimo. Era inevitabile, infatti, che i geografi e i naturalisti prestassero attenzione alle fontane speciali. Le troviamo in numerose descrizioni della Natura, insieme a tutti gli elementi che entrano a comporla – i boschi, i mari, i laghi, le vie di comunicazione, le città – e sono immancabili fra i luoghi che costellano le mappe dei geografi antichi. Sono presenti anche in opere non strettamente geografiche, ma aventi una sezione dedicata alla geografia, come accade nelle enciclopedie indipendentemente dall’ordine tassonomico adottato.
Esistono anche opere nate con il piano di enumerare tali fonti, come ad esempio vediamo nell’opera di Boccaccio, De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis, seu paludibus et de diversis nominibus maris, opera che include la fonte del Sorga, non perché presenti anomalie fisiche, ma perché era la fonte presente nella vita e nelle opere dell’ammirato Petrarca [2].
Non credo, però, che sia molto utile fare una rassegna di queste opere, quanto invece vedere come una di queste fontane “attraversi la storia”, dal momento in cui nasce a quello in cui viene “cancellata” dalla mappa, offrendo un esempio di come il razionalismo dell’epoca moderna abbia relegato molte di queste leggende al mondo del folklore o, nei casi migliori, alla mitologia. La fontana di cui seguiremo la storia è una fontana sarda, quindi appartenente al patrimonio culturale del Mare Nostrum. La sua peculiarità è che gli spergiuri che si aspergano gli occhi con le sue acque diventino ciechi. È registrata per la prima volta da Solino nel suo Polyhistor che citiamo traducendone il testo in italiano:
«D’altra parte le acque della Sardegna offrono vari benefici. […] Fonti belle e abbondanti sono ricavate in molti posti. Esse offrono cure per le ossa rotte, e sono un antidoto contro il veleno iniettato dalle solifughe, e anche per curare malattie degli occhi. Ma le cure degli occhi hanno anche il potere di scoprire i ladri. Chiunque nega con giuramento di aver fatto un furto e si lava gli occhi con quest’acqua vede meglio se non ha commesso spergiuro. Se, invece, qualcuno falsamente nega questo spergiuro, il suo crimine viene manifestato da cecità; una volta colpito agli occhi è obbligato a confessare» [3].
Il passo fa parte di in un capitolo nel quale Solino traccia un profilo geografico e storico della Sardegna, ricordando i suoi primi abitatori, le loro storie e i loro costumi, e citando gli auctores dai quali avrebbe ricavato i dati che riporta. Solino trasmise al mondo di lingua latina una serie di notizie che raccoglieva da autori greci e latini, prestando particolare attenzione ai mirabilia, alle cose che destavano meraviglia. Tale scelta assicurò all’opera una fortuna straordinaria e ne fece un modello imitatissimo. Una fontana che scopre gli spergiuri è certamente una cosa ben degna di stare fra le cose che destano meraviglia, molto più delle notizie relative al cielo piovoso. Grazie a Solino, la leggenda della fontana sarda entrò nelle liste dei portenti di natura che affascinano sempre numerosi lettori.
Riprese la leggenda Isidoro di Siviglia e l’accolse nelle sue Etymologiae, che anche in questo caso, come nei successivi, traduciamo in italiano:
«La Sardegna ha fonti calde, che danno cura agli ammalati, cecità ai ladri se questi, fatto un giuramento, si toccano gli occhi con la sua acqua» [4].
È una nota scarna, ma, inserita in un’opera fortunatissima e consultata per secoli, godette di una presenza costante. In effetti dopo secoli la notizia riappare fra gli enciclopedisti del Duecento. Lo prova il caso di Vincent de Beauvais nel suo Speculum naturale, che al Libro XX, 166, ripete quanto poteva leggere in Solino:
«Eppure per quanto riguarda le acque, supplisce variamente ai fabbisogni, sia con fonti calde e salubri che in alcuni luoghi gorgogliano e offrono cure o rafforzano ossa fratturate, o annullano il veleno iniettato dalle solifughe. Curano anche malattie nascoste, e quelle che curano in modo segreto servono anche a smascherare i ladri» [5].
Una volta entrate nelle opere di consultazione, questi dati trovano una via aperta alla divulgazione. Il primo a dar notizia di questa leggenda nel nostro volgare fu Fazio degli Uberti nel Dittamondo, precisamente nel canto dodicesimo del terzo libro dove riporta varie leggende relative alla Sardegna, dall’aria pestilente, all’erba che provoca il “riso sardonico”, alla mancanza di serpenti e di animali velenosi, con la sola eccezione della solipuga. Fazio parla anche delle fonti in Sardegna:
Io non la vidi, ma ben l’udio da tale
A cui do fe’, che v’era una fontana
Ch’a ritrovare i furti molto vale
[…]
Parlar’udimmo e ragionar all’hora
Che v’è un bagno, el quale ripara
Et salda ogni osso rotto in poco d’hora [6].
Sono notizie che Fazio riceve da fonti che giudica affidabili, e a guidarlo nel viaggio è Solino! E naturalmente trova quei dati “meravigliosi”, quindi li accoglie volentieri nella sua opera che intende dare ai suoi lettori cose veramente mirabili.
Siamo alla metà del Trecento, e da questo punto in poi perdiamo le tracce della leggenda per quasi due secoli. Sospettiamo che rimase in vita, ma non sappiamo dove, anche se abbiamo spulciato molti testi di natura enciclopedica, inclusi i Commentari urbani di Raffaello Maffei, il Volterrano, il più diligente raccoglitore di dati mescolati a mirabilia. Per ritrovarla dobbiamo andare in Sardegna dove rispunta, sebbene con qualche riserva da parte del raccoglitore.
Questi è Sigismondo Arquer, un indimenticabile sardo che finì sul rogo dell’Inquisizione. A lui si deve il recupero della leggenda, ma già ne contestava la credibilità: era un sardo che in essa vedeva non tanto una superstizione quanto una ingenua creazione che poteva essere imputata ai sardi stessi con tutta l’irrisione che poteva comportare. Vi accenna nella Sardiniae brevis historia et descriptio che fu incorporata nella Cosmographia universalis di Sebastiamo Münster del 1550. Qui il passo relativo alla nostra leggenda dice:
«Si favoleggia da parte di alcuni scrittori che esista una fonte che smaschera i ladri, e lo fa con questo patto: se il ladro avrà rubato e non ammetterà il furto e con quell’acqua si laverà le mani o gli occhi, si ritroverà cieco, se invece non avrà commesso il furto, la vista gli si farà più chiara. Di questa fonte non risulta oggi con certezza alcuna notizia» [7].
Arquer è consapevole che ai suoi giorni (metà del Cinquecento) l’immagine della Sardegna sia del tutto libresca (“fabulantur quidam scriptores”), e questa consapevolezza orienta la sua opera in senso demitizzante. Ma la leggenda riemerge nell’opera di Leandro Alberti, il quale non ha prevenzioni patriottiche, semmai ha solo il rimpianto di non poter dare notizie più specifiche ai lettori della sua splendida guida turistica, quasi un Baedeker del pieno Cinquecento:
«Dicono alcuni essere in questa isola una fontana, con l’acqua della quale in tal guisa si scoprivano i ladroni, cioè giurando colui, che è incolpato, et lavandosi le mani et gli occhi, et giurando il falso, cioè negando di haver fatti il furto, et havendolo fatto, incontinente rimaneva cieco, et non l’havendo fatto, gli doventavano gli occhi più chiari et più belli. Vero è che potrebbero essere, che già vi fusse detta fontana, ma al presente non si ritruova di questa vestigio» [8].
Leandro Alberti morì nel 1552 e il libro dal quale abbiamo estratto la citazione è del 1561, quindi postumo. Esso doveva essere una continuazione dell’opera La descrittione di tutta Italia, uscita nel 1550. Le due opere poi fuse insieme ebbero numerose edizioni e costituirono un vero bestseller stampato per l’ultima e dodicesima volta nel 1631. Sembra chiaro che Alberti conosca il testo di Arquer e che lo traduca cercando di renderlo più chiaro glossandolo. In ogni modo, entrambi gli autori ebbero ampia diffusione e la leggenda riprese vita, anche se non si deve dimenticare che la Cosmographia di Münster non ebbe circolazione in Italia essendo l’autore un luterano, fatto che costituì il capo d’accusa maggiore contro Arquer che con l’autore tedesco aveva collaborato.
La fonte con le sue proprietà ma senza nome né localizzazione rispunta anche Pedro Mexía nella sua celeberrima Silva de varia lección (1550) nella seconda parte dell’opera al capitolo 31, intitolato “En qual se cuentan muchos rios y lagos y fuentes, cuyas aguas tienen propriedades maravillosas y singulares” [9]. Lo stesso accade in Antonio de Torquemada il quale nel suo Jardín de flore curiosas (1570) dice di aver letto di tale fonte in Solino, ma che, avendo visitato la Sardegna, non ne sente parlare dagli isolani e naturalmente non la vede in alcun luogo. Comunque la menziona nel suo Jardin de flores curiosas [10] del 1570.
Riporta la leggenda della fontana “svela-spergiuri” Giovanni Francesco Fara nella sua Corographia sarda in quattro libri che apparvero solo nel 1835, ma furono stesi nel periodo 1580-1585. È un passo interessante per vari motivi. Intanto perché riporta la nostra leggenda, e lo fa in modo simile/diverso da quello visto in Arquer [11]: di questi conserva l’atteggiamento scettico, e tuttavia cerca in qualche modo di “contestualizzare” la leggenda e di trovarle una qualche misura di veracità. L’astenersi dal negare in modo categorico la leggenda, crea la possibilità di mantenerla in vita magari riportandola ad un luogo comune letterario; ma anche tale possibilità può a sua volta screditare la leggenda ascrivendola fra le creazioni letterarie prive di fondamento storico, come farà qualche anno più tardi un autore di formazione teologica e molto insospettito davanti ad un fenomeno di magia. Comunque per il momento citiamo in traduzione l’intero passo di Fara:
«Nel contado del Goceano, non lontano da Benetutti, dove dicono che vi siano un centinaio di fonti simili, calde e salubri, e che, secondo la testimonianza di Solino (Polyhistor, cap. 9) apportano cure e raffermano le ossa rotte, eliminano il veleno iniettato dalle solipughe, e curano le malattie degli occhi. Gli abitanti ne fanno poco uso, e per questo le antiche terme costruite su queste fonti sono andate in rovina. Ma come racconta lo stesso Solino, quegli stessi abitanti apprezzano delle fonti che curano gli occhi sfidando i ladri. Infatti, chi nega con giuramento di aver commesso un furto e si bagna gli occhi con quell’acqua, se non ha commesso spergiuro vede più chiaramente, mentre se spergiura con perfidia, viene subito scoperto il crimine dalla cecità, e una volta arrestato e ammette di averlo commesso. Per questo Ennio nel panegirico di Dioniso cantò: “Dopo di che [‘toccò’] la Sardegna, terra circondata dal mare, e che con le sue fonti d’acqua offre miracoli al mondo, perché sanano gli ammalati, svelano e condannano gli spergiuri per il loro furto nefando, perché toccandosi gli occhi con quell’acqua li acceca”. E Giovenale cantò: “Questo caso è molto conosciuto e già perfino trito e tirato per caso fuori dal mazzo, questo ladro è sommamente degno delle acque sarde”. Ma allo stesso tempo si deve dire che di questa fonte in Sardegna non risulta notizia alcuna; tuttavia Plinio nel lib. 2 della Naturalis Historia, riferisce che si trova una fonte simile in Bitinia, e Ermolao, nelle sue Castigationes Plinianae dice che ve ne sia una in Sicilia; e ve ne sia una presso Tiana, come riferisce Filostrato nel secondo volume della Vita di Apollonio; e di una presso Tiana riferisce Diodoro Siculo nell’opera citata, lib. 3. Molti riferirono che una fonte medica si trovi ad Oliena nell’Ogliastra, e in una grotta sacra dedicato al santo Lussorio, nella regione di Monte Leone, dicono che una fonte sgorghi nel giorno della sua festa» [12].
Fara non crede che questa leggenda abbia un fondamento di vero, però in lui la vena negativa non ha la forza che abbiamo visto in Arquer: in fondo non era una leggenda che disonorava la terra che l’ospitava, e dopo tutto era stato Solino a riportarla. In termini più o meno identici la leggenda era stata riportata di Tommaso Porcacchi nel suo Le isole più famose nel mondo:
«Dicono che al tempo antico v’era una fontana con l’antiche superstizioni: dalla cui acqua, se alcun ladro per modo di giuramento s’havesse lavato le mani et gli occhi, giurando di non haver commesso il furto, di che veniva incolpato, subito s’acciecava se giurava il falso; ma gli occhi gli venivano più chiari e belli se non haveva rubato la cosa appostagli. Tuttavia non s’ha di questa fonte hoggi, ne del luogo alcuno indicio» [13].
E questa fonte insolita e meravigliosa non poteva mancare nell’enciclopedica rassegna di “fontes” che occupa il tredicesimo libro dei Dies caniculares di Simone Maioli, vescovo di Volterra:
«Ve ne sono alcune nocive agli occhi, se vogliamo credere a quella superstizione pagana. Infatti, così dice Solino nel cap. 9: “In Sardegna vi sono fonti che curano gli occhi e valgono a correggere i ladri. Infatti se uno di questi nega con giuramento di aver commesso un furto e si tocca gli occhi con quell’acqua, se non è uno spergiuro vede in modo più chiaro; se invece con perfidia lo nega, si scopre il suo crimine dalla cecità, e confessa di aver commesso il crimine una volta che viene colpito agli occhi» [14].
E commenta: «haud dubie id ad superstitionem pertinet Ethnicam». Comunque sia, le superstizioni, una volta riconosciute come tali, possono essere ricordate impunemente anche da persone molto diffidenti verso le credenze magiche.
Non tutti, però, erano della stessa opinione, anzi qualcuno decise di rivedere la leggenda da un punto di vista meno benevolo e di condannarla fermamente; e per farlo dedicò un capitolo di una sua opera. Inaspettatamente la leggenda sarda assurgeva al livello di problema teologico la cui soluzione poteva porla a rischio di scomparsa se si provava che il tutto era una pura invenzione di cui non valeva la pena discutere. L’autore in questione si chiama Tomaso Garzoni, il quale creò una “stanza sarda” nel suo libro Serraglio degli stupori del mondo [15]. L’autore morì nel 1589 e l’opera fu continuata, integrata e ampliata dal Fratello Bartolomeo e fu pubblicata solo nel 1613.
Premettiamo che il capitolo di circa 20 fitte pagine non è dedicato interamente alla leggenda sarda, la quale, però, avvia soltanto il tema e segna il tono della trattazione. Comunque ad essa viene dedicata una prima parte del capitolo che serve ad impostare il “problema” della leggenda della fonte di cui bisogna capire lo strano potere di smascherare gli spergiuri. Si tratta di potere naturale oppure di potere magico e/o diabolico? In questo secondo caso la Chiesa non può esimersi dall’interessarsene in quanto, dove il diavolo fa capolino, la Chiesa deve essere guardinga; se invece quel potere fosse naturale, sarebbero stato cómpito dei “naturalisti” darne una spiegazione.
Tomaso Garzoni (1549-1589) era un canonico lateranense e un militante della Chiesa in un periodo in cui questa correva ai ripari contro gli effetti della Riforma e cercava di frenare nel modo migliore la grande ondata di superstizione e di pratiche magiche sollecitate in gran parte dalle insicurezze sociali e religiose. Non è neppure il caso di ricordare i roghi che si accesero in molte piazze italiane ed europee per bruciare streghe e stregoni ed eretici. Né sembra necessario dedicare qualche paragrafo allo scontro che andava profilandosi fra una nuova visione scientifica del mondo e le resistenze che le opponeva una visione “magica” del mondo: pochi paragrafi non direbbero niente, e molti paragrafi ci porterebbero fuori tema.
Il punto però è che tutti sappiamo che un uomo di Chiesa era avverso alla superstizione e alla magia almeno quanto lo era alla scienza che mette in dubbio le sicurezze garantite dal credo religioso. Garzoni scrisse un’opera che segue quella strada di mezzo perseguita distinguendo fra due forme di “magia”, una bianca ed una “nera”. Quest’ultima veniva realizzata con la partecipazione del diavolo, mentre la prima era di un tipo che la ragione e la scienza riuscivano a spiegare e quindi a riportare alla normalità. Ad esempio, se una statua suda, non bisogna pensare che sia il diavolo o un intervento divino a produrre questo fenomeno, ma capire che la porosità del materiale della statua assorbe l’umidità dell’aria che poi un caldo eccessivo fa essudare. Riuscire a spiegare fenomeni simili in termini naturali o di scienza naturale significa ridurre la presenza del diavolo e dei miracoli nel mondo. E il libro di Garzoni si occupa prevalentemente di questa “magia bianca” cercando di offrire le spiegazioni di fenomeni naturali avanzate da teologi e uomini di scienza.
Garzoni avvia il discorso osservando che Ariosto aveva parlato di una coppa che rivela le infedeltà delle consorti, presentando così un fenomeno affine a quello della fonte sarda. Quindi riporta vari passi classici che descrivono la Sardegna come un sandalo, come una terra priva di animali velenosi, eccetto la “solipuga”; quest’ultima lo porta a parlare dell’aria e dopo aver citato vari aspetti della geografia sarda, viene a parlare della fonte che dà il nome alla stanza. Citiamo il passo sfoltendolo del bagaglio bibliografico:
«Ma nonostante l’autorità di tanti uomini gravi, è chiara cosa che in Sardegna ai nostri giorni non si trova quel fonte che scopre e castiga gli spergiuri. […] E se per questi fonti nel tempo degli antichi idolatri si ritrovarono, è cosa verosimile anzi del tutto ragionevole che non la natura dell’acqua operasse questi meravigliosi effetti. Essendo impossibile che i secreti nostri non palesati per questo naturalmente, ma che il demonio meschiasse le sue operationi in tali acque per far credere a gli antichi che in quelle consistesse una certa deità» (ivi: 706- 707).
Garzoni allarga il regesto degli autori moderni che ricordano leggende analoghe e cita alcune pagine dei Dies geniales di Alessandro d’Alessandro, il quale ricorda che gli antichi solessero giurare sulle acque dell’Averno perché evidentemente alle acque attribuivano proprietà sacre. Chi spergiurava, dunque, infrangeva un patto fatto con una divinità ed era punito con un malessere. Con una simile constatazione il grande giurista napoletano offriva una spiegazione di questa reazione divina: le acque dello Stige erano così mefitiche che chi sostava sulle sue rive anche per breve tempo si ammalava a causa degli effluvi nocivi. Inoltre Alessandro d’Alessandro ricorda varie altre fonti che producono effetti strani – come ad esempio una fonte dedicata al dio Libero o Bacco nei pressi di Andro, le cui acque in un determinato giorno festivo dell’anno prendono il sapore del vino – e che i Dies geniales registrano fedelmente. Ma Garzoni osserva che:
«Tali historici allegati sono stati troppo creduli a queste meraviglie che non hanno in loro verosimilitudine alcuna; e che si sian fondati qualche volta sui detti dei poeti, per natura loro mendaci et favolosi, e alcuna volta uno habbia preso dall’altro senza discorrere più oltre se le cose stanno nella maniera che si raccontano» [16].
Importante in quest’ultima constatazione è il fatto che dati così straordinari siano “presi dagli altri”, cioè che nascano non dall’osservazione diretta degli autori ma dai libri che essi leggono. Garzoni enumera molti di questi casi in cui si vede un intervento della natura su fatti psicologici e di elementi che modificano altri elementi (il vento che ingravida un animale). In tutti questi casi Garzoni utilizza due costanti metodologiche: da una parte raccoglie un numero sempre alto di casi analoghi di un fenomeno, e dall’altra trova le auctoritates che servono a mettere in dubbio la veracità di quei casi. Il primo procedimento ricostruisce una serie di fenomeni che potrebbero provare il contrario di quello per cui sono stati addotti. Nella fattispecie, una serie di fonti analoghe può voler dire due cose: o che il fenomeno sia normale, e quindi non “stuporoso”, oppure che siano tutti una variazione del primo caso che apre la serie. In altre parole, le catene di esempi analoghi sono un topos che non presuppone necessariamente una novità per ogni singolo membro della serie, ma indica una ripetitività di un modello che è riuscito ad imporsi.
Una fontana magica ha sempre un bel gruppo di utenti incantati, ma una loro serie, oltre a rompere l’incanto, fa sospettare che siano modelli facili da copiare, magari apportandovi qualche semplice variazione. Succede, insomma, quel che accade nella creazione e nell’utilizzo di topoi letterari. Le serie, quindi, non possono contare sulla quantità dei dati poiché, per quanto numerosi siano, non fanno altro che ripetere il modello; e Garzoni dice bene che i poeti prendono uno dall’altro le cose meravigliose alle quali poi gli storici ingenui prestano fede. Se la ricchezza di tanti dati analoghi porta a conclusioni simili, vuol dire che sono creazioni fantastiche, letterarie, e non degne di credibilità. La fonte sarda, quand’anche fosse documentata da opere letterarie, sarà, appunto, di natura letteraria, vale a dire fittizia. L’altra costante del metodo garzoniano consiste nel confutare la veracità di questi dati citando filze di auctoritates che sostengono l’irricevibilità di quei dati fantastici. Egli ricorre al metodo scolastico che ricava dai libri le verità del mondo reale, e usava la logica aristotelica per provare o meno la verità delle cose che trovava nei libri. Era la logica, insomma, dei Simplicio e non ancora quella galileiana che non parte dalle categorie logiche bensì dall’esperimento. Con quel metodo i teologi della Controriforma salvavano la magia nera – in quanto riconoscevano la presenza del demonio dove la ragione non poteva trovare una spiegazione alternativa – e la magia bianca – in quanto la ragione riusciva a spiegare con i testi alla mano fenomeni che sembrano innaturali.
Con il suo metodo libresco Garzoni distruggeva la leggenda della fonte sarda, la racchiudeva in una stanza dopo averla imbalsamata, ma in questo processo le conservava quel carattere letterario che la portava nella sfera della menzogna. Non molti sono entrati in quel sarcofago, in quanto il Serraglio, stipato di citazioni di auctoritates, non ebbe una grande diffusione. Poco importa. Le leggende come gli oracoli entravano ormai in una stagione che le avrebbe mostrate per quello che sono: favole fantastiche. Esse erano legate in qualche modo ad una nozione magica del mondo, di un mondo che si pensava avesse un’anima, che fosse un organismo vivente tenuto insieme da una forza armonica divina. Esse erano anche legate ad un subconscio che, in tempi tormentati quali erano quelli del primo Seicento italiano, desiderava che i miti si trasformassero in realtà e creassero un mondo più sincero e trasparente.
Sta di fatto che dopo quella data, la leggenda sembra destinata alla sepoltura. Lo proverebbe la menzione sbrigativa della fontana nell’opera di Francisco de Vico il quale non crede all’esistenza della fontana magica [17]. Tuttavia bisogna stare attenti a non condannare in blocco il “mirabile incredibile” con il “mirabile credibile”. Vico in genere non contesta la credibilità di autori come Isidoro e altri, e parla anche di altre fonti che stupiscono per alcune qualità. E sono le “fonti termali” che erano consigliatissime dalla scienza medica fin dall’antichità [18]. Esistono, insomma, fonti che stupiscono e che hanno poteri terapeutici senza che per questo si debba chiamare in causa il demonio o qualche potere magico. Da storico, Vico deve solo registrare un fatto, e lascia poi che i filosofi e gli scienziati spieghino cosa dia a queste fonti un potere così grande.
Scompariva in questo modo una fonte che non sfigurava davanti a tante altre che la storia ricorda. Aveva però uno svantaggio: non aveva un nome, non aveva un’ubicazione e non aveva un eroe o comunque un personaggio capace di imporsi alla memoria dei posteri. Queste deficienze impedirono che qualche poeta se ne appropriasse e ne facesse una vera leggenda la quale deve avere sempre un nucleo narrativo per stare in vita: priva di un eroe e di una storia, la fontana diventava del tutto irreale. Presentava una proprietà mirabile che la presenza di un personaggio (ad esempio, un ladro come Caco) l’avrebbe resa indimenticabile. Il terreno era dispostissimo ad accettarla perché le fonti erano molto vive nell’immaginario di tanti secoli. Il mondo antico conosceva le fontane di Narciso e di Salmace; il Medioevo cortese immaginò le fonti come luoghi magici attorno ai quali nascevano amori di pastorelle e il Rinascimento aveva inventato le fontane dell’odio e dell’amore nell’Orlando innamorato (I, 3). E non poteva essere altrimenti: la fonte sarda entrò in quella classe di cose belle e fantastiche della natura, ma il suo anonimato e il possibile zampino del diavolo, le negarono un posto visibile e permanente.
Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
Note
[1] Si veda Elena Spadini, Elena S., Il motivo della donna alla fonte nella lirica romanza. Appunti intorno ad un corpus poetico, in «Critica del testo», 15 (2012): 79-113.
[2] Giovanni Boccaccio, Tutte le opere, a cura di Vittore Branca, Milano, Mondadori, voll. VII-VIII. Il De montibus, a cura di Manlio Pastore Stocchi, è nel vol. VIII a: 1827-2122; la sezione relativa alle fonti: 1881-1893, e sono elencate in ordine alfabetico.
[3] Caius Ilius Solinus, Collectanea rerum memorabilium, IV, 5-7, ed. Th. Mommsen, Berlino, Nicolai, 1864, IV, 5-7: 51-52.
[4] Isidoro di Siviglia, Etymologiae sive Origines, XIV, 40, ed. W.M. Lindsay, Oxford, Oxford University Press, 1911.
[5] Vincenzo di Beauvais, Speculum naturale, Strasburgo, 1485, XX, 165; fol. 262r. Il dato si trova nel capitolo intitolato “De medicinis ex ipsis scorpionibus”, in cui si parla della solipuga, ossia della “argia”.
[6] Fazio degli Uberti, Dittamondo, III, 12, vv. 43-45 e 97-99. ed. G. Corso, Bari, Laterza, 1952.
[7] Citiamo dall’edizione moderna, Sigismondo Arquer, Sardinae brevis historia et descriptio, a cura di Maria Teresa Laneri, con saggio introduttivo di Raimondo Turtas, Cagliari, CUEC, 2007.
[8] Leandro Alberti, Isole appartenenti all’Italia di F. Leandro Alberti Bolognese, aggiuntovi di Nuovo i disegni di quelle, et collocate alli suoi luoghi, Venezia, Avanzi, 1567: 10-11.In questa edizione rispetto a quella anteriore del 1561 si aggiungono delle mappe.
[9] Pedro Mexía, Silva de varia lección, a cura di Antonio Castro, Madrid, Cátedra, 1989, 2 voll., vo. I: 730.
[10] Antonio de T., Jardín de flores curiosas, edición electrónica preparada por Enrique Suárez Figaredo, Lemir 16 (2012): https://parnaseo.uv.es/Lemir/Revista/Revista16/ Textos/07_Jardin_Flores_ Torquemada. pdf : 679.
[11] Non è improbabile che anche in questo caso Fara abbia presente l’opera di Arquer senza però volerla citare e in qualche modo, allargandosi ad una documentazione “trasversale”, contesti o almeno attenui lo scetticismo di Fara. Sui rapporti tra i due autori, si veda Maria Teresa Rosaria Laneri, Ancora sul rapporto Arquer-Fara: i neoterici auctores, in «Sandalion» 21-22 (1998-1999: 137-152.
[12] Giovanni Francesco Fara, Corographia Sardiniae, ed. Luigi Cibrario, Torino, Tipografia Regia, 1835, lib. I, cap. “De fontibus”: 34-35.
[13] Tommaso Porcacchi, L’isole più famose del mondo, Venezia, Porro: 49. La princeps è del 1572.
[14] Simone Maioli, Dies caniculares seu colloquia tria et viginti, colloquium XIII (“Fontes”), Roma, Zanetti, 1597: 623.
[15] Tomaso Garzoni, Il Serraglio degli stupori del mondo con le aggiunte del fratello Bartolomeo Garzoni. Introduzione di Paolo Cherchi, Russi (RA), VACA (= Vari cervelli associati), 2004.
[16] Ivi: 708.
[17] Francesco de Vico, Historia de la isla y del reyno de Sardeña, a cura di Francesco Manconi e Marta Galiñanes Gallén, Cagliari, CUEC, 2004: 70-71.
[18] Per un primo orientamento sul tema si veda Massimo Danzi, Le terme tra letteratura e medicina, in «Quaderns d’Italià», 22 (2017): 43-56.
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Paolo Cherchi, “professor emeritus” della University of Chicago, dove ha insegnato letteratura italiana e spagnola e filologia romanza dal 1965 al 2003, anno in cui è stato chiamato dall’Università di Ferrara come Ordinario di letteratura italiana, e da dove è andato in congedo nel 2009. Si è laureato a Cagliari in filologia romanza, ha conseguito un PhD a Berkley (1966). Si è occupato prevalentemente di letterature romanze nel periodo medievale e rinascimentale. Fra i suoi lavori più recenti ricordiamo Il tramonto dell’onestade (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2016); Petrarca maestro. Linguaggio dei simboli e della storia (Roma, Viella, 2018); Maestri. Memorie e racconti di un apprendistato (Ravenna, Longo, 2019); Ignoranza ed erudizione. L’Italia dei dogmi verso l’Europa scettica e critica (1500-1750) (Padova, libreriauniversitaria.it.edizioni); Quantulacumque lucretiana. Nuove piste di ricerca sulla fortuna di Lucrezio nel tardo Rinascimento (Generis Publishing, 2022); Studi ispanici. Fonti, topoi, intertesti (Milano, Ledizioni, 2022). Nel 2016 è stato cooptato come socio straniero dall’Accademia dei Lincei.
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