di Gianfranco Lunardo
Queste sono immagini stenopeiche, fatte con quelle scatolette di legno di leonardesca memoria dove la carta traslucida per disegnare è stata sostituita da una moderna pellicola. È un po’ il ritorno alle origini della fotografia stessa.
Spesso mi viene chiesto per quale motivo, nell’era del digitale, si dovrebbe tornare all’uso della pellicola e di macchine così obsolete. Innanzi tutto ci si riappropria del proprio tempo. Mentre la scatola fa il suo lavoro, ho modo di guardarmi intorno ed apprezzare tutto ciò che mi circonda. E i luoghi, a volte ai bordi di una statale, rivelano epifaniche bellezze.
La fotografia stenopeica è lenta, i tempi di esposizione sono lunghi, da qualche secondo a diversi minuti o anche più. È la fotografia della pazienza, della meditazione, che si contrappone a questa società in cui le immagini si consumano sempre più velocemente.
Qualunque sia il grado di preparazione del fotografo, qualsiasi la fotocamera che si usa, il risultato sarà sempre diverso, unico e creativo. Non ci sarà la foto “venuta male”, anzi un’intrusione di luce, un mosso, la nitidezza non proprio precisa, saranno “incidenti” che valorizzeranno il risultato ultimo che il caso contribuirà a rendere più artistico.
L’immagine ottenuta avrà qualcosa di irreale, silenzioso e incantato. Rappresenterà più uno stato d’animo, un’impressione, un’emozione, piuttosto che la realtà materiale, il soggetto fisico.
Uso la realtà per darne una mia personale interpretazione. Il mondo visto dal forellino è un mondo senza tempo, silenzioso e fatato con un’atmosfera tutta sua. Un mondo irreale ma presente, un effetto di spaesamento e di tensione affascinante.
Nella fotografia stenopeica ho trovato, dopo anni di fotografia “normale”, il mio modo interiore di espressione. Cerco di farmi artefice di una nuova visione o, se vogliamo, la riscopro, trasformo la realtà.
Attraverso la lentezza del mezzo la idealizzo e la interpreto esaltandone la bellezza e l’armonia. Come diceva Walter Benjamin, la fotografia riconosce lo straordinario come quotidiano e il quotidiano come straordinario.
Fotografo il tempo, dimenticandomene. Non sto nel passato né nel futuro. Solo nel momento presente. Non guardo al già fatto né al giudizio che potrebbe venirne. Riprendo la meraviglia che il soggetto suscita in me e non il soggetto per se stesso. La lentezza del mezzo mi permette un approccio più riflessivo, meditativo. Mi costringe a fermarci, a pensare.
Con la lentezza cerco di dare significato al mondo. Non c’è “istante” o “istantanea” nella fotografia stenopeica. Nulla di più lontano dal tempo e dal mondo dei selfie. Cerco, per lo più a piedi, con l’ausilio del treppiede, il soggetto, il giusto punto di ripresa, misuro la luce e attendo il tempo che serve all’esposizione. Insomma, una foto pensata e vissuta in ogni sua fase dove c’è silenzio, pazienza, dove c’è respiro.
Non si tratta più di una foto istintiva, che cattura il reale, ma quasi di un ritorno al simbolico. È una fotografia che viene visualizzata prima da un occhio interiore che scopre la bellezza di ciò che lo circonda alla ricerca del Genius loci. L’ispirazione è un momento fondamentale, una memoria che si fa presente e che ha bisogno di silenzio. Immagini che rispecchiano esteriormente sentimenti, stupori ed emozioni di chi si trova dietro la fotocamera.
La fotografia stenopeica rende la luce in modo particolare, morbida e sfumata, creando un’atmosfera onirica, surreale. L’immagine, poi stampata su carta e non archiviata in un computer, acquista un fascino particolare. Un frammento di tempo e di spazio che possiamo toccare, guardare e che ci fa proustianamente ricordare.
Hanno scritto che le mie foto di paesaggio coagulano gli equilibri del silenzio, l’essenza dell’infinito, appartengono ad un tempo sospeso dall’aura di antico. Ed è proprio ciò che tendo a trasmettere. Le mie sensazioni, le mie emozioni, i miei sogni, la mia sensibilità sono tutti contenuti e rappresentati nelle mie fotografie. In pratica, espongo me stesso agli altri, il mio bisogno di tranquillità, pace, serenità e silenzio.
Sottolineo questi bisogni anche attraverso il formato quadrato delle mie immagini, attraverso gli orizzonti che nella maggior parte delle mie foto tagliano in due parti uguali il fotogramma, con una leggera dominante sul bianco e nero con i contrasti che non tengo mai ad esasperare. Nell’equilibrio c’è armonia.
Considero un insieme di fotografie stenopeiche come una poesia compiuta e le singole immagini come degli haiku. Poesie di semplicità e naturalezza.
Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023
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Gianfranco Lunardo, ha iniziato a fotografare 47 anni fa. Negli anni ’80 del secolo scorso si è occupato a lungo di fotografia etnografica e ha collaborato con l’Università della Calabria, Centro Interdipartimentale di Documentazione Demo-Antropologica, documentando feste popolari, mestieri in via d’estinzione, la vita monastica maschile e di clausura femminile. Nel tempo si è dedicato al reportage e a quella che oggi viene chiamata street photography. Da qualche anno è completamente assorbito da un tipo di fotografia più introspettiva cercando di trasmettere lo stupore, l’emozione, il piacere e l’entusiasmo di ciò che lo colpisce. Per fare questo ha riscoperto una delle sue prime passioni, la fotografia Stenopeica che, grazie alle lunghe esposizioni, alla lentezza d’uso, alla minor nitidezza, gli permette di riprendere quei paesaggi esterni che danno forma, nel loro silenzio, ai suoi paesaggi interiori. Ha al suo attivo decine di mostre tra collettive e personali, la pubblicazione di quattro libri fotografici di immagini stenopeiche e tiene workshop su tecniche e poetiche.
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