di Francesco Faeta
1. Nel 1950, su incarico dell’UNESCO, il grande reporter polacco, naturalizzato americano, David ‘Chim’ Seymour, tra i fondatori dell’agenzia “Magnum”, si recò in Calabria, con l’incarico di documentare l’efficace campagna governativa di lotta all’analfabetismo, che era in corso, centrata sull’azione della “Unione nazionale per la lotta contro l’analfabetismo” (UNLA) e su un’imponente azione di volontariato sociale. Dietro Seymour era Carlo Levi, le suggestioni meridionalistiche che promanavano dalla sua opera, lo stretto rapporto di amicizia e collaborazione che lo legava al fotografo. Il cui viaggio, da nord a sud del territorio peninsulare (e viceversa), toccò Roggiano Gravina, Cimino (frazione del comune di San Marco Argentano), San Nicola da Crissa, Saucci (frazione del comune di Bagaladi), Capistrano, Spezzano Albanese, Morano Calabro, paesi e (sperduti) agglomerati compresi nelle tre province in cui la regione era all’epoca divisa, Cosenza, Catanzaro, Reggio Calabria [1].
Il focus delle immagini di Seymour, che aveva già avuto un’importante esperienza documentaria sul mondo dei bambini provati dalla guerra, su scala europea [2], era sulle scuole per piccoli e grandi, sull’esperienza dei Centri di Cultura Popolare dell’UNLA, con la loro capacità di chiamare a raccolta le migliori energie intellettuali presenti in villaggi e paesi, per metterle a disposizione di un processo complessivo di alfabetizzazione e di crescita culturale delle popolazioni rurali. Ma l’attenzione si soffermava, poi, con lucida partecipazione, su quanto era tutt’intorno a questo sforzo politico e sociale, il peasant way of life, le forme di vita e cultura nel loro complesso e nelle loro più varie manifestazioni, le lotte per il possesso della terra e la riforma agraria.
Le condizioni della scuola in Calabria, che il fotografo andava osservando, così come quelle di vaste aree del Mezzogiorno, erano durature, e sono state durevolmente documentate in fotografia, dalle prime rilevazioni sull’argomento di Umberto Zanotti Bianco, negli anni Venti, a quelle di Tino Petrelli, nel 1948, e poi di Giovanni Battista Poletto, nel 1950, di Federico Patellani, nel 1952, di Ando Gilardi, nel periodo compreso tra il 1954 e il 1957, di Frank Cancian, nel 1957, di Ernesto Treccani in tutti gli anni Cinquanta; immagini che testimoniano di una situazione immutata, di uno stato di disagio persistente, che riguardava l’istruzione, la scuola e il mondo infantile, ma che si estendeva a tutta la struttura sociale che le era attorno. Immagini non dissimili, altresì, da quelle da me realizzate, in aree diverse e tra loro distanti della regione, nei villaggi di Zecca, Melissa, Ragonà, a esempio, dai venti ai trent’anni più tardi. In quel periodo la situazione dell’istruzione, e quella dei centri rurali calabresi di montagna o delle aree interne e in via di spopolamento, non appariva molto mutata rispetto a quanto documentato da Seymour.
La continuità dello stato di disagio negli anni Settanta dello scorso secolo, tuttavia, appare oggi del tutto dimenticata; si è persa consapevolezza, a mio avviso, della persistenza sino a epoca molto recente di situazioni che oggi appaiono, ai più, impensabili. Per questo mi è sembrato utile provare a interrogare in proposito un deposito di memoria cui posso attingere con una certa agevolezza, quello costituito dal mio archivio fotografico.
Questa interrogazione, tuttavia, è forse opportuno sia preceduta da un excursus relativo al mio rapporto con la fotografia e, soprattutto, al rapporto che la mia fotografia ha avuto con lo stesso disagio sociale. La fotografia, infatti, tende a essere apodittica e aver presenti le situazioni personali di chi la produce, il suo modo di sentire, le sue scelte e i suoi rifiuti, facilita una sua ricezione meno perentoria e inoppugnabile.
2. Ho avuto in mano la prima macchina fotografica relativamente tardi, rispetto alle mitopoiesi dei fotografi accreditati (rammarico all’ascolto delle narrazioni di infanzie precoci, doni di padri o di nonni previdenti e preveggenti, adolescenziali folgorazioni sulla via di Damasco; invidia profonda per i perfetti 6X6 di Peppuccio Tornatore decenne). Io invece ho trascorso infanzia, adolescenza e prima giovinezza lontano dalla fotografia; mio padre aveva fatto un po’ di cinema, ne era restato profondamente scottato, non suggeriva, neppure indirettamente, un approccio possibile al mondo delle immagini, fisse o in movimento. Se qualcosa poteva sottrarre l’uomo alla maledetta fatica del guadagnarsi da vivere, questo qualcosa, per lui (come per mia madre), era lo studio, ed eventualmente, qualora questo studio avesse dato i suoi frutti, extrema ratio, la scrittura.
Avevo ventidue anni dunque e, nell’urgenza di documentare la condizione degli emarginati delle periferie romane, soggetto della mia tesi di laurea in Sociologia (Franco Ferrarotti, il mio relatore, me lo aveva chiesto in modo tassativo), domandai in prestito una fotocamera a un collega di studi. Era una Zeiss Contina, telemetro e ottica fissa; egli fu generoso, il prestito fu a lungo termine. I risultati, all’inizio scadenti, migliorarono via via. La documentazione dello stato d’indigenza degli abitati provvisori, della miseria degli occupanti, del disordine edilizio e urbanistico dei sobborghi, che realizzai, impressionò la commissione d’esame (malgrado la sua radicata diffidenza per qualcosa che fosse comunicato attraverso la fotografia) e le immagini, pochi mesi più tardi, furono addotte in tribunale, quale prova della situazione di bisogno i cui versava un abitante di quegli insediamenti, un minore, accusato di rapina per aver sottratto, con minaccia, generi alimentari da una bottega della zona. Il ragazzo fu assolto, il giudice sentenziò lo stato di necessità e dichiarò che non avrebbe immaginato condizioni di vita come quelle illustrate. Era il 1969.
Da allora la macchina fotografica non mi ha più abbandonato. Appena sono stato in grado di acquistarne una, con i proventi di piccoli lavoretti, l’ho fatto; da quell’anno, e sino all’avvento del digitale, le mie compagne sono state due Nikon F, dotate di due obbiettivi Nikkor, un 24 mm e un 85 mm (raramente una Minolta SRT303 con ottica Rokkor da 50 mm). Poi ancora una Nikon F 801, con uno zoom 35-70 mm, poi una D800 con uno zoom 24-70 mm, entrambe ottiche di fabbrica, prima di passare alle Sony, per la qualità delle loro ottiche Zeiss, per la loro maneggevolezza (l’idea, particolarmente stimolante per un antropologo, di avere realmente in tasca un taccuino per appunti); l’ultima, la piccola α 6500, con cui viaggio ai giorni nostri. Non sembri narcisistica e pedante questa elencazione; le immagini sono risultato anche dell’attrezzatura tecnica che scegliamo (che dice molto di noi e del rapporto che intendiamo intessere con la realtà e con le sue rappresentazioni) e originano, per ricordare Vilém Flusser, dalla strenua lotta che intraprendiamo contro il mezzo tecnico, la sua tirannica rigidità, per far prevalere le nostre scelte e la nostra libertà.
Non mi ha più abbandonato, la macchina fotografica, perché ho ritenuto che fosse davvero utile a sostenere, ampliare, rendere più profondo, dal punto di vista euristico ed ermeneutico, un percorso di studio nell’ambito delle scienze sociali. Ma non mi ha più abbandonato anche perché mi è sembrata adatta a sostanziare una postura poetica nei confronti di ciò che osservavo, sganciata dall’obbligo, poggiata su bisogni profondi, altrimenti inesprimibili. Fotografare, in altre parole, mi ha aiutato a vivere la vita per quel che essa era, al di là dell’impegno di ricerca e di riflessione teorica; lasciando traccia di cose che accadevano intorno a me e lasciando traccia, anche, della vita affettiva, delle persone con cui ho condiviso piccole o grandi cose, sentimenti, emozioni, bisogni, lotte, viaggi e ricerche. Credo che questa possibilità di raccordo tra l’immediatamente professionale e l’esistenziale che la fotografia può propiziare sia importante proprio per la nostra prospettiva di studio. Fotografando, ci si accorge delle tante cose che sono al di là dei quattro segmenti che racchiudono l’inquadratura e si è portati, dunque, a interrogarsi anche su cosa ci sia un metro più in là del lavoro, del mestiere, dell’abitudine, dell’impegno. E ciò spinge ulteriormente a sperimentare, a saggiare i meandri del set, del film o della carta da impressionare, della camera oscura, rendendo meno rigida la nostra postura rispetto alle cose osservate. Non mi sembra, del resto, che vi sia una cesura irrimediabile (al contrario una certa complementarità) tra l’impegno legato al contesto scientifico e la sperimentazione formale, tra un uso “artistico” e concettuale della fotografia e quanto immediatamente concerne l’onere documentario. Un onere che, tuttavia, ho sentito sempre di dovermi prioritariamente assumere.
Dopo le fatiscenti periferie romane, così, è stata la volta delle campagne siciliane ancora devastate dal terremoto e dalle politiche del post-terremoto; delle molte occasioni rituali e festive nel Mezzogiorno italiano e, in particolare, in Calabria (il culto dei morti, il carnevale, la settimana santa, le feste dei santi patroni); delle spesse e nascoste vite comunitarie di villaggi sperduti tra impervie montagne dell’Appennino meridionale; delle realtà di Paesi lontani, particolarmente quelli disposti attorno al Mediterraneo (Algeria, Turchia, Spagna, Portogallo, Grecia, Jugoslavia, Romania, Bulgaria e una miriade di isole sparse), alla ricerca di ciò che divide e unisce il suo ambiente e la sua gente, di ciò che sopravvive alla violenza e al fanatismo, di ciò che trascende il funereo uso contemporaneo delle sue acque; delle grandi città, infine, che nascondono sotto un prospetto di facciata, disegnato a uso e consumo del turista, identità imperscrutabili, così difficili da individuare e da restituire. L’attività con la macchina fotografica è sempre stata lieve, sia che contemplasse, come spesso è stato, un impegno da reporter, nella documentazione della ritualità popolare a esempio, specialmente di quella connotata da comportamenti drammatici e cruenti, sia che implicasse attesa, pazienza, indugio; sia che esigesse affetto e condivisione, sia che comportasse freddezza e distanza, uno sforzo concettuale e creativo per identificare un nodo teorico, uno scarto, un problema da tradurre in forma visiva.
3. Ho già evidenziato come la mia fotografia, al di là del suo aspetto privato o legato alla ricerca e alla sperimentazione formale, sia stata essenzialmente etnografica: legata, dunque, alla società e alla cultura che esploravo, alle forme e ai modelli comportamentali che mi trovavo dinnanzi. Non è mai stata, esplicitamente, una fotografia sociale. Malgrado abbia conosciuto, e frequentato, fotografi che hanno fatto dell’impegno sociale una ragione importante, se non esclusiva, della loro professione, la denuncia di una condizione sociale sperequata, a parte il lavoro degli esordi, è sempre restata in qualche modo sullo sfondo. Ho documentato le manifestazioni culturali delle classi deprivilegiate del nostro Paese, in particolare del Mezzogiorno, e tali manifestazioni poggiavano su una reale, estesa e radicata, condizione di disagio. Ma essa è rimasta, per così dire, sullo sfondo. Era talmente rilevante la ricchezza delle cose cui assistevo che l’indigenza di coloro che le producevano passava quasi in secondo piano. Soltanto in un piccolo libro collettivo iniziale (negli stessi anni dello studio sulle periferie della capitale), realizzato assieme a entusiasti compagni d’avventura, esplicitamente ponevo in relazione le forme culturali che osservavo, legate per lo più alla fenomenica della religiosità popolare, con la cultura della povertà, come amava dire, ricordando Oscar Lewis, Annabella Rossi [3].
Malgrado ciò l’archivio mi restituisce, come ho accennato, in modo direi impietoso, anche la rappresentazione di una condizione sociale assai disagiata, prolungatasi ben oltre il convenzionale, quanto vago, termine del dopoguerra. L’esteso lavoro d’inchiesta sull’ingiustizia sociale e sulla miseria nel nostro Paese, soprattutto sulla sua parte meridionale, che ha avuto una dignità e una profondità non minori rispetto a quello di altre grandi esperienze internazionali concerned della fotografia, un lavoro ben poco studiato e riconosciuto, certamente condizionato dalle istanze neorealiste, da esotismo e orientalismo, come ho più volte ricordato, per quel che concerne la Storia più recente, parte dal 1945 e giunge sino alla metà degli anni Sessanta. Si dà in buona misura per scontato, nel susseguo, che la miseria e l’arretratezza siano state sconfitte, e che il miracolo economico abbia a sua volta prodotto il miracolo di lenire fortemente, se non di cancellare, l’indigenza e l’ingiustizia sociale. Queste cessano di fare notizia. L’obiettivo dei fotografi si sposta dal disagio al conflitto, con una stagione di documentazione delle lotte operaie e studentesche che in larga parte, tuttavia, ignora le concrete condizioni sociali dei protagonisti.
La mia macchina fotografica inizia a riprendere proprio in quel momento. Sulla soglia di un nuovo decennio, durante il quale la miseria è nascosta, l’acculturazione è data per scontata (tanto da essere reiteratamente e profeticamente biasimata da intellettuali di alto prestigio), la massificazione considerata un traguardo raggiunto, all’insegna di un collettivo benessere e di un diffuso consumismo. Ma le immagini che produce raccontano un’altra storia. Raccontano che una condizione di estremo malessere, e di alterità culturale e sociale, era diffusa in zone assai ampie del Paese; che si estendeva nelle campagne del Mezzogiorno, vieppiù abbandonate dopo gli abortiti tentativi di riforma agraria degli anni Cinquanta, assediava le periferie e i suburbi delle città del centro-nord, s’insediava sovrana ovunque una crisi, grande o piccola, lacerasse il tenue tessuto sociale di un luogo, nella generale incapacità a provvedere, a riparare i viventi e i loro habitat degradati. Raccontano dunque, a saperle leggere, che lo sviluppo economico e il benessere piccolo-borghese di alcuni era pagato anche dalle privazioni degli ultimi, sulla pelle dei quali era costruito, e che lo Stato ignorava le realtà marginali, abbandonate a una condizione di decadimento assolutamente fuori dagli standard del mondo occidentale.
4. La Calabria, dunque, e la Sicilia, le personali Indie, visitate tanto tempo dopo i viaggi di Seymour e Levi [4]. Paradossalmente, come ho scritto in apertura, il primo contatto con la condizione di deprivazione di quelle regioni, è avvenuto in un luogo prossimo, i sobborghi capitolini. Questa condizione, infatti, mi è venuta incontro dai campi periferici – al Tufello, a Val Melaina, al Borghetto Latino, alla Magliana, all’Acquedotto Felice – in cui migliaia di contadini poveri, di braccianti, di artigiani, estromessi da una realtà rurale in crisi, da campagne e paesi della Calabria (soprattutto, ma anche della Sicilia e della Lucania), si ammassavano in baraccopoli di legno e cartone, senza acqua, luce, servizi igienici, in attesa di venire, in qualche modo, assorbiti nei processi produttivi, o clientelari, che l’espansione capitalistica incontrollata e l’occupazione partitica dello Stato generavano. Nessun aiuto era loro dovuto. A quel che ricordo non frequentavano quei luoghi né i volontari cattolici che più tardi avrebbero avuto tanta parte nell’assistenza ai bisognosi, né i funzionari di qualche istituzione delegata. Soltanto taluni assistenti sociali dal piglio burocratico, qualche attivista del PCI, della CGIL (i più concreti) e del movimento studentesco (questi ultimi, incapaci di tradurre dentro un orizzonte operativo la loro generosa e fragorosa empatia politica). Ciò che colpiva era l’assenza del diritto stesso di essere assistiti: per le autorità, per le istituzioni, per lo Stato, questi uomini, queste donne e questi bambini, erano lì per colpa loro, dovevano sbrigarsela da soli.
E i loro sguardi erano sbigottiti, le loro espressioni interrogative, i loro abiti non più quelli contadini, ma quelli dei poveri dell’Ottocento che si ammassavano nei suburbi industriali delle metropoli dell’Occidente. Non ricordavano i farmers, sradicati e oppressi dai debiti, inchiodati ai bordi delle loro terre non coltivate e sulle verande delle loro fatiscenti abitazioni in legno, quali ci sono stati restituiti da Dorothea Lange, da Ben Shahn, da Walker Evans, nell’ambito del lavoro della Farm Security Administration; ricordavano, malgrado la diversità delle storie e dei destini, gli immigrati sul suolo americano quali ci sono stati tramandati attraverso le immagini di Lewis Hine e, soprattutto, di Jacob Riis. Molti di loro provenivano da fallimenti epocali: le lotte per la terra, come ho accennato, e i tentativi di riforma agraria nei paesi d’origine; l’emigrazione nelle aree ad alta densità – e cultura – industriale, da cui erano stati ributtati indietro perché inadeguati o superflui. Era un’umanità refluita alle soglie della capitale come per una violenta risacca, sopravvissuta, frustrata, sbandata, giustapposta, senza più passato e vita comunitaria.
Ho fotografato quella realtà per il motivo prossimo che ho ricordato, anche se la macchina fotografica si soffermò più sugli espedienti realizzati per costruire i rifugi, sui modi per difendersi dalla pioggia e dal freddo, sui materiali, sugli arredi, sulle attività di sostentamento, meno sugli uomini, sui loro sembianti, sul complesso della loro fisionomia sociale e culturale (un soggetto sfuggente, tale fisionomia, risucchiato in un’opaca e densa eclisse della società e della cultura).
In modo significativo la sequenza culminante di quel lavoro d’indagine durato molti mesi, tecnicamente incerto ma ricco di scoperte intorno al rapporto tra immagine e scienze sociali, illustrava la distruzione e l’incendio di un intero borghetto – così erano eufemisticamente chiamati gli agglomerati di baracche –, stretto in un’intercapedine urbana, tra la via Appia e la linea ferroviaria, organizzati per protesta dai suoi abitanti, la maggior parte dei quali, anche in questo caso, provenienti dalla Calabria. La manifestazione aveva richiamato una folla di curiosi, mestatori, amministratori, sindacalisti, studenti, giornalisti, cittadini sdegnati o solidali, pompieri e poliziotti e, mentre in un’atmosfera eccitata e rumorosa le baracche andavano in cenere, i loro abitanti silenziosamente guardavano e piangevano. Perdevano, attraverso un atto volontario, ciò che avevano, ciò che permetteva loro di sopravvivere, ciò che li allontanava da una condizione umana; tagliavano i ponti dietro di loro, gettandosi nel mare metropolitano, per nuotare o affogarvi.
E quando si alzava lo sguardo da quei mucchi di bandoni, detriti e cenere, tutto intorno si imponeva il caos urbanistico e architettonico di una città che cresceva su sé stessa, senza regola se non quella del profitto, che dilatava il grande sacco intrapreso sotto l’amministrazione del nefasto Salvatore Rebecchini. E mi sembrava allora evidente (oggi lo è ancor più) che tra le nascenti fila di palazzoni anonimi e gli spazi interstiziali colmati dalle scorie urbane, tra le gru, le benne, le scavatrici, le betoniere, le carrozzerie contorte di autoveicoli rottamati e il legno fradicio, l’eternit e il cartone degli improvvisati ricoveri, vi fosse una stretta relazione di dipendenza e di reciprocità.
5. Quando vi sono giunto con la macchina fotografica, nell’estate del 1970, nella valle del Belice il terremoto era avvenuto da oltre due anni, nel gennaio del 1968. Una prima volta avevo tentato di arrivare nell’area poco più di un mese dopo la tragedia (si era verso la fine di febbraio, le scosse non erano ancora terminate), al seguito di un gruppo di volontari del movimento studentesco romano, con tende, coperte e medicine (e senza macchine fotografiche), ma fummo respinti a Villa San Giovanni da un blocco della polizia che impediva il transito a volontari politicamente armati. L’operazione di desertificazione della valle era già in atto, con concessione del passaporto a vista ai superstiti, con agevolazioni di vario tipo per chi volesse lasciare la Sicilia, alleggerendo momentaneamente, si diceva, la pressione demografica, alleggerendo in realtà, auspicabilmente in modo definitivo, la pressione politico-sociale.
Il terremoto, come ogni altro genere di catastrofe “naturale”, aveva colpito nel modo tremendo in cui lo aveva fatto perché quella, come altre che verranno poi (si pensi all’Irpinia, dodici anni più tardi), era un’area ridotta allo stremo (emarginata dal contesto nazionale, con un’agricoltura di sussistenza, una viabilità arcaica, infrastrutture fatiscenti e insediamenti fragilissimi, un reddito pro-capite da terzo mondo). Ma il Belice era anche un’area in cui le tensioni sociali erano alte. E la risposta della desertificazione, come subito dopo, quella dello spostamento “illuminato” degli insediamenti, servivano a tamponare il malcontento e a prevenire una riorganizzazione civile e politica da parte delle popolazioni native.
Non posso qui soffermarmi su una questione, quella della marginalità storica del Belice, del tardivo e parziale aiuto dello Stato e delle istituzioni, della fisionomia sostanzialmente autoritaria dei processi di ricostruzione, dello strisciante progetto etnocida che vi presiedette, che ha avuto nel nostro Paese molti testimoni, molti appassionati narratori, molti combattenti per la democrazia e per i diritti delle popolazioni interessate. Senza aver timore di far torto a tanti, ne ricorderò, emblematicamente, uno, sicuro che i tanti si sentiranno rappresentati, pur nella loro autonomia, dalla sua esemplare figura, Danilo Dolci.
Quel che posso invece ricordare, è la logica che guidò il mio sguardo sul Belice. Uno sguardo prevenuto, occorre dirlo. Non avevo affatto digerito il respingimento di due anni prima e i numerosi posti di blocco in cui incorsi due anni dopo, viaggiando in macchina assieme a Marina Malabotti, mi videro fremere di impazienza e di sdegno, rischiando numerose volte il fermo, l’interruzione del viaggio e dello stesso progetto di documentazione. Mi sembrava di aver capito tutto, attraverso il dibattito che prima ho ricordato, ed ero alla ricerca di conferme come mai poi è accaduto nella ulteriore attività fotografica. Sono restato in loco per tre settimane, caratterizzate da una grande calura e da un sole che sembrava non voler tramontare mai lungo l’intuita linea del mare occidentale. Ho abitato nella stanza di una baracca a Santa Ninfa, messa a disposizione dal sindaco, Vito Bellafiore, sotto tetti di lamiera incandescente che non consentivano di stare in casa, di giorno e, a mala pena, consentivano di stendersi nei pressi di una finestrella lasciata aperta per respirare, di notte. In luoghi come quello in cui io ho vissuto per una manciata di giorni, altri hanno condotto stabilmente la loro vita per lunghissimi anni, andando incontro, alla fine della stagione estiva, alle delizie dei glaciali inverni dell’interno isolano.
Cosa cercavano di narrare le fotografie realizzate in quell’occasione? L’incombenza, innanzitutto, ancora fortemente avvertibile, della tragedia, testimoniata anche dalle macerie che erano dappertutto e che potevano ancora uccidere, malgrado gli sforzi dei sindaci e degli amministratori locali per porle in condizioni di sicurezza. La relazione di funzionalità, poi, tra il mortificante anonimato dei luoghi provvisori in cui i superstiti erano ammassati e il progetto anomico che serpeggiava e prendeva spazio. La relazione problematica, ancora, che contrapponeva i luoghi senza identità dei paesi provvisori e il disperato bisogno di comunità che la gente esprimeva. Un bisogno che cercava faticosamente di insinuarsi negli interstizi minimi, un bar, la sezione del Partito Comunista, la baracca che fungeva da chiesa, la bottega alimentare. Quando ho rivisto, anni dopo, la nuova Gibellina e, più tardi, il Cretto Burri, sotto il quale i ruderi del vecchio abitato, con le loro storie, le loro tragedie, le loro anime vaganti, sono stati definitivamente sepolti, ho compreso ancor meglio che ciò che minacciava i superstiti, nell’estate della mia visita, era la solitudine e il silenzio, la perdita dell’idea stessa di località; quella località che era venuta materialmente meno nei giorni e nelle notti del sisma e che veniva invece, con cinismo, costantemente e falsamente riproposta e promessa.
6. Giungiamo, infine, per terminare questo brevissimo memorandum offerto dall’archivio, al martirio della scuola in Calabria, per evocare ancora Zanotti Bianco e la sua Africo [5]. Come ho fugacemente ricordato all’inizio, nel 1970 ho visitato Zecca, frazione di Curinga, in provincia di Catanzaro, nel periodo intercorrente tra il 1974 e il 1979 Melissa, in provincia di Crotone, nel 1979-’80, Ragonà (e Cassari), frazioni del comune di Nardodipace, in provincia di Vibo Valentia. Sono questi i luoghi, le cui scuole, secondo quanto testimoniano le immagini, erano nelle stesse condizioni degli anni Cinquanta. La fotografia della scuola di Zecca allocata in una stalla, rinvia con immediatezza a Seymour, pur essendo assente il pathos della grande trasformazione che era in atto alla sua epoca e che alimentava speranze (poi, rapidamente, sopite). Nella piccola frazione si giungeva con una strada sterrata che attraversava un rado bosco e che lasciava a circa cinquecento metri dall’abitato (occorreva proseguire a piedi). I visitatori erano talmente rari che il rumore di un autoveicolo in avvicinamento faceva sì che tutti coloro che erano nel villaggio (e non spersi nei campi circostanti), per lo più vecchi e bambini, si schierassero sul suo limitare ad attendere, speranzosi e ansiosi.
La maestra di turno, in un continuo avvicendamento caratteristico di tutti i luoghi marginali e disagiati del Paese, aveva addobbato il vano con rondini di carta fatta ritagliare ai bambini. La stalla, mi comunicò, veniva restituita al proprietario al termine delle lezioni e ricondotta alle sue funzioni originarie. I bambini erano volenterosi e diligenti, ma spesso stanchi perché, sin dall’alba, aiutavano i genitori, le mamme, a governare gli animali e a fare i lavori necessari prima di recarsi nei campi. Le case del paese erano in pietra cruda, le strade rigagnoli di fango, l’acqua si attingeva a una fontana, la luce era presente soltanto in pochissime abitazioni, gli essenziali servizi collettivi collocati nel comune di Curinga, distante qualche chilometro.
Migliore era la situazione a Melissa. Anche lì si giungeva percorrendo una tortuosa strada bianca che si diramava per chilometri dalla statale 106, nei pressi di Crotone. Il paese era più grande ovviamente, ma soprattutto la vicenda conflittuale vissuta nell’ormai lontano, quando io vi giunsi, 1949, con la strage di contadini che avevano occupato le terre e la dura repressione collegata, aveva stabilmente insediato all’amministrazione cittadina un sindaco e una giunta comunisti. Che avevano lavorato indefessamente, e ancora lavoravano, per migliorare la condizione locale, con interventi accorti e ingegnosi, nella totale indifferenza delle autorità provinciali e nazionali.
La scuola era modesta ma non fatiscente e, accanto alle attività curriculari, il Comune, con lo sforzo congiunto di numerosi volontari, aveva creato un insegnamento di musica per formare i giovani suonatori della banda municipale, affidata a un valente maestro locale, Vincenzo Vozzo. La grande maggioranza dei bambini veniva con le scarpe ai piedi e nelle aule vi era un braciere. Il clima era sereno, a tratti allegro. Anche qui, tuttavia, i bambini dovevano lavorare la mattina prima di entrare a scuola e al pomeriggio dopo l’uscita; il loro aiuto era fondamentale per portare avanti l’economia precaria (e assediata, per via della sua eterodossia politica) del piccolo centro. Negli anni Cinquanta i bambini erano stati fotografati a lungo – dentro e fuori scuola, nei campi, al lavoro, nelle strade dove giocavano e, per lo più, vivevano, come ho fugacemente ricordato – dal grande pittore Ernesto Treccani, che frequentava dal momento della strage abbastanza regolarmente il luogo, e con cui ho poi condiviso una fraterna amicizia; e le sue immagini testimoniavano uno stato d’indigenza certamente più alto, una condizione infantile mortificante, forse più dura di quella illustrata nel Cinquanta da Seymour.
Non era invece migliore la situazione della infanzia e della scuola a Ragonà, la frazione del comune (statisticamente) più povero d’Italia, nel momento in cui vi giunsi. Minuscolo insediamento delle Serre calabresi, devastato dalle alluvioni e dalle frane, dichiarato inagibile e, pertanto, sparito dallo stesso consesso civile, sopravvivente a sé stesso e all’Italia, ormai saldamente ancorata al suo sviluppo economico e sociale. La scuola si teneva nella distante frazione di Cassari, in un cubo di cemento malmesso, facente parte del villaggio di riforma assegnato ai contadini ragonesi (senza che questi vi abitassero, lontano com’era dai campi da lavorare e dai morti, sepolti nel cimitero della vecchia frazione). Nelle giornate di sole, le maestre tenevano i bambini all’aperto, seduti sul bordo del marciapiede o sulle seggioline che venivano portate fuori dall’aula.
I bambini consideravano la scuola una perdita di tempo e apparivano smarriti e inadeguati rispetto alle sue indicazioni, ai suoi ritmi, ai suoi insegnamenti. Molti di loro giungevano a piedi dalla frazione di residenza e, per far prima, si gettavano attraverso i dirupi delle frane, ancora attive, che avevano tagliato i tornanti della strada, accorciandone il percorso. Un ponte sospeso sopra corde attraversava il torrente che cingeva alla base il paese e faceva parte, anch’esso, del disagiato e periglioso cammino verso la scuola. In paese, in cui la maggior parte delle case non avevano luce o l’avevano attraverso attacchi abusivi di fortuna, parte dei bambini, che vivevano anch’essi nei vicoli e nella piazza, non aveva scarpe, se non nel giorno di festa. Era il 1980, trenta anni dopo il viaggio di Seymour.
7. Termino qui la rivisitazione di una piccola parte dell’archivio, in cui sono custodite anche le immagini realizzate da Malabotti negli anni di nostro lavoro comune nel Mezzogiorno e altrove (tre delle quali, le finali, sono andate a sostenere la piccola selezione antologica che ho voluto proporre).
Quel che ho visto e che, per qualche cenno, ho voluto partecipare ai lettori non è la realtà oggettiva, qual è testimoniata da un mezzo che dice la verità (la fotografia, superfluo ricordarlo, non dice mai la verità, per lo meno nel senso, convenzionale e conformistico, che noi siamo soliti attribuire al termine). È quel che ho voluto vedere anni or sono; quel che mi è ritornato alla mente osservando immagini altrui e che ho esumato dal vasto giacimento personale; quel che desidero addurre come testimonianza affinché, nel processo di generale rimozione che caratterizza l’epoca contemporanea, permanga qualche ricordo di ciò che siamo stati. Questa operazione, tuttavia, ricordare come eravamo, non dovrebbe avere quell’aspetto rasserenante che sembra essere caratteristico della circostanza; stavamo male, oggi stiamo meglio. Vi è stato un progresso. Mi auguro, al contrario, che produca inquietudine; perché abbiamo sotto gli occhi la vischiosità della diseguaglianza e la sua centralità nella costruzione del Paese contemporaneo; perché osserviamo forme arcaiche di una condizione che nel presente si manifesta altrimenti, ma con immutata carica d’ingiustizia.
Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022
Note
[1] Su questa campagna di ricerca si veda G. Hendel, C. Naggar, K. Priem (eds.), They Did Not Stop at Eboli. UNESCO and the Campaign against Illiteracy in a Reportage by David “Chim” Seymour and Carlo Levi (1950), Paris-Berlin, Unesco and De Gruyter, 2019. Raccomando al lettore questo libro, interamente consultabile on line, per iniziativa dell’Unesco (https://digital.archives.unesco.org). Ho ricostruito in dettaglio la vicenda di Seymour in Calabria nel mio “There are many roads to Italy”. David ‘Chim’ Seymour in Calabria, in Vi sono molte strade per l’‘Italia. Ricercatori e e fotografi americani nel Mezzogiorno, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, in corso di stampa.
[2] Si veda D. Seymour, Children of Europe, Paris, Unesco, 1949; anche questo libro è consultabile attraverso il sito Unesco e l’agenzia “Magnum” (http://magnumphotos.com).
[3] Si veda P. De Angelis, F. Faeta, M. Malabotti, S. Piermarini, Sfruttamento e subalternità nel mondo contadino meridionale, con un intervento di L. M. Lombardi Satriani, Roma, Savelli, 1975.
[4] Temi analoghi a quelli che qui tratto, ho affrontato nel mio Nelle Indie di quaggiù. Fotografie 1970-1995, Milano, Jaca Book, 1996.
[5] Cfr. U. Zanotti Bianco, Il martirio della scuola in Calabria, Firenze, Vallecchi Editore, 1925.
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Francesco Faeta, professore di Antropologia culturale, ha insegnato presso le Università della Calabria e di Messina; insegna ora come professore esterno presso la Scuola di Specializzazione per i Beni Culturali DEA dell’Università “La Sapienza” di Roma. Docente Erasmus nelle Università di Valladolid e de’ A Curuña, è stato Direttore di Studi invitato all’École Pratique des Hautes Études di Parigi, nel 2004, fellow e associate researcher dell’Italian Academy for Advanced Studies in America presso la Columbia University, nel 2012. Ha effettuato ricerche in ambito europeo, con particolare riferimento al Sud d’Italia. Fa parte dei comitati scientifici di riviste italiane e straniere e dirige, per Franco Angeli, la collana Imagines. Studi visuali e pratiche della rappresentazione. Tra le sue ultime pubblicazioni Le ragioni dello sguardo. Pratiche dell’osservazione, della rappresentazione e della memoria, Torino, Bollati-Boringhieri, 2011; Fiestas, imágenes, poderes. Una antropología de las representaciones, Vitoria Gasteiz-Buenos Aires, Sans Soleil Ediciones, 2016; La passione secondo Cerveno, Milano, Ledizioni, 2019; Il nascosto carattere politico. Fotografie e culture nazionali nel secolo Ventesimo, Milano, Franco Angeli, 2019; L’albero della memoria. Scrittura e immagini, Palermo, Museo Pasqualino 2021.
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