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Frammenti di memorie, figure e scritture

i__id13224_mw600__1xdi Antonino Cangemi 

A che serve scrivere? A tante cose e abbastanza diverse tra loro. Lo studente, tramite la scrittura, appunta i rudimenti del sapere per apprenderli; il romanziere trasfigura la realtà raccontandola infedelmente; il poeta penetra nell’anima rincorrendo parole che rapiscono l’“attimo fuggente”; il burocrate, su input del politico, rende opaca e ingannevole la comunicazione con gli interlocutori cui dovrebbe prestare servizio; lo studioso svela e approfondisce la conoscenza. E si potrebbero fare moltissimi altri esempi. 

Giuseppe Modica, già ordinario di Filosofia morale e presidente del corso di laurea in Filosofia e Scienze etiche all’Università di Palermo, per quasi una vita si è avvalso della scrittura per offrire al mondo accademico volumi su pensatori (Vico, soprattutto) che hanno concorso all’evoluzione della speculazione filosofica [1]. Testi inappuntabili, di scrupolo e rigore scientifico, frutto di ricerche laboriose. Nulla in quei scritti poteva essere lasciato al caso, tutto era soggetto ad attento controllo, ogni asserzione era accompagnata da una nota a piè di pagina che ne asseverava il fondamento, anche le intuizioni che discostavano il suo pensiero da quello di altri studiosi.

Certo, la scrittura scientifica appassiona: attraverso di essa si partecipa alla grande sfida del sapere, si contribuisce ad arricchirlo, ci si confronta con altre intelligenze, si dibatte su argomenti solo apparentemente aridi – aridi non lo sono se investono la sfera esistenziale dell’uomo o i grandi interrogativi su ciò che governa e regola l’universo. Ma richiede fatica e, esercitatala a lungo, nasce il desiderio di abbandonarla e tradirla con una scrittura meno esigente.

E ciò che è accaduto a Giuseppe Modica che, dopo avere versato fiumi d’inchiostro su filosofi e filosofia, ha dato alle stampe un libro di narrativa, Il pendolo e la bussola (sottotitolo Racconti brevi) edito da Mimesis (2022). Con questo libro, Modica si è voluto vendicare di se stesso filosofo, dell’ossessiva vigile diligenza dello studioso impugnando la penna con disinvoltura, spirito trasgressivo e “leggerezza”? Occorrerebbe chiederlo a lui per rispondere: quel che s’immagina è che, se la scrittura dei racconti de Il pendolo e la bussola è stata per certi versi liberatoria e mossa da intenti molto differenti da quella dei suoi testi scientifici, anch’essa ha comportato fatica. La fatica di scavare dentro se stesso, di dare voce a ricordi e a vicende della propria esistenza, di mettere nero su bianco momenti significativi del proprio vissuto e di interrogarsi su di esso quasi a volerne cercare un consuntivo. Le pagine de Il pendolo e la bussola infatti, collocate come sono nel tempo interno del sentire dell’autore (“la bussola”), lungi dal risultare un esercizio di narrativa fantastica, si rivelano una sorta di diario e si succedono solo in parte secondo criteri cronologici – in relazione al battere del tempo esterno (“il pendolo”). Si spiega così come i racconti – tutti tratti dal proprio vissuto e tutti più o meno intimi – vengano suddivisi, nella struttura del libro, in tre parti (o sezioni, se si preferisce): “Radici”, “Alberi”, “Arbusti”.

Padre Gaspare Morello

Padre Gaspare Morello

Nella prima sono raccolti i ricordi-racconti legati perlopiù alla propria infanzia, adolescenza, giovinezza  e a tutto ciò che ha concorso a scolpire le impronte della propria personalità anche se riferiti agli anni della maturità; nella seconda quelle vicende – incontri soprattutto – che hanno indicato la via da percorrere, le mappe da seguire, le rotte verso cui salpare, quando i tratti identitari erano comunque già  delineati; nella terza gli accadimenti apparentemente marginali nei quali si manifestano costumi e caratteri della quotidianità che potrebbero sembrare esteriori e che invece tali non sono.

In “Radici” naturalmente non può mancare la madre, protagonista di un episodio in cui le parti tra genitrice e figlio s’invertono, nel senso che sarà il secondo a indicare alla prima come comportarsi ma grazie agli insegnamenti che lei gli ha impartito e che, fatti propri, assurgono a metodi di vita. Né sono assenti figure familiari di zii, zie, nonni, ma anche di estranei dalla cerchia parentale che hanno inciso sulla propria crescita: come padre Morello, un prete-filosofo che, dinanzi ai suoi dubbi  alimentati da una chiesa succube di ridondanti formalismi, gli ricorda che «la religione che non si appoggi sulla testimonianza rischia di essere davvero vuota superstizione, e non c’è peggior ateo di chi si limita ad osservare i precetti della Chiesa anziché testimoniarli con un comportamento retto, onesto e aperto alla generosità». Nella sezione “Radici” da segnalare anche l’assai singolare incontro con una studentessa ottantenne che, non paga della laurea in Lettere, vuole conseguire la laurea in Filosofia e a tal fine si rivolge all’autore che da quell’incontro trae linfa per un’ulteriore sua crescita; un messaggio esplicito sia per lui sia per lei: non si finisce mai d’imparare a dispetto del “pendolo”, metronomo del tempo inteso solo in senso matematico.

Luigi Fiorentino

Luigi Fiorentino

Tante le figure delineate in “Alberi” che hanno avuto un posto di rilievo nel percorso di vita dell’autore. A cominciare dallo zio Luigi, solitario e severo con se stesso e con gli altri, che gli trasmette l’amore per la poesia [2]; tra le sue lezioni di vita, una riguarda la scrittura: «C’è una regola generale che va seguita indipendentemente dal tipo di scrittura con cui si intende cimentarsi: se vuoi scrivere, impara anzitutto a leggere; e se vuoi scrivere approfonditamente, impara anzitutto a studiare, ossia a leggere con metodo…». Per continuare – rimanendo nel campo della poesia – con Nino De Vita espressione con la sua Cutùsio [3] della dimensione senza tempo e fuori da ogni logica anche temporale e spaziale della poesia. Passando per illustri cattedratici: Virgilio Titone, Santino Caramella, Luigi Pareyson.

Virgilio Titone

Virgilio Titone

Virgilio Titone è colto nella sua innata malinconia e nella profonda umanità: «Era un uomo posseduto dalla malinconia, quel sentimento, impalpabile nella sua pervasività, che si espande attraverso una tristezza refrattaria a rassegnarsi, una dolcezza che non spicca il volo, una speranza ferita, una prigione fatta d’aria, un’attesa di nulla, un’inquietudine che non si placa…’desiderio dei desideri’, come dice Tolstoj». Il Titone descritto da Modica è un uomo dotato d’ironia e autoironia, e di lui è tra l’altro ricordato il giudizio sarcastico e senza sconti su taluni politici – oggi dal sapore profetico –: «Vadano a zappare, a coltivare la terra che ha tanto bisogno di braccia; o, se proprio non hanno nessuna vocazione per la campagna, vadano a studiare!».

Santino Caramella, tra i più sagaci studiosi di Kant, ci appare nel suo rigore di docente universitario di altri tempi, dall’eloquio affascinante e dall’intelligenza lucidissima. Un professore che nel discente non può che incutere ammirazione unita a timore reverenziale, quel timore reverenziale che Modica supera dopo essere riuscito a supplirlo, su suo incarico, nell’esposizione agli studenti (più o meno suoi coetanei) dei Prolegomeni di Kant.

Luigi Perinson

Luigi Pareyson

Luigi Pareyson ha avuto un rilievo particolare nei primi studi scientifici di Modica che, folgorato da una sua conferenza, decise di dedicare una monografia al suo pensiero e, preso il coraggio a due mani, l’andò a trovare a Rapallo. E fu un incontro che segnò la sua vita di studioso di filosofia. In “Alberi” però non ci sono soltanto cattedratici, vi è anche posto per un incontro in una libreria palermitana con Laura Ephrikian, che gli insegna come una volta ci si baciava fingendo nei set cinematografici, e per la musica di cui Modica è un appassionato (lirica, soprattutto).

md30142399747Nei racconti raccolti in “Arbusti” – in genere piuttosto brevi – prevale la levità e affiora un discreto senso dell’umorismo che pervade (quasi sottotraccia) anche le altre pagine. Si tratta di divagazioni varie dettate da incontri spesso casuali: sul caffè (napoletano, naturalmente), sui social, sull’abbigliamento “che fa il monaco”, sul senso di ospitalità dei siciliani, sul lessico, sul conversare in treno con una persona non conosciuta che gli fa osservare che «…il volto degli altri è già un viaggio, un rispecchiamento e un riconoscimento, così come una scena può essere teatro e, dunque, un viaggio a sua volta».

Il pendolo e la bussola è un libro gradevole e accattivante. Conquista i lettori per la scorrevolezza della sua scrittura che, per quanto accurata (il vocabolario di Modica è vasto e lui sceglie le parole selezionando le più appropriate e scartando le più ostiche e meno espressive), è godibile nella sua levità. Già, levità. Una “levità” cercata da Modica, in contrapposizione alla “pesantezza” dei suoi scritti scientifici. Ma se l’autore è riuscito a essere leggero nella scrittura – leggero s’intende in senso calviniano –, non è riuscito a svestire, almeno del tutto, i panni dello studioso di filosofia. Nulla di grave, anzi: nelle pagine de Il pendolo e la bussola (non a caso pubblicato da un editore sensibile alla filosofia e nella collana “La vita di Sophia) vi è tanta filosofia, più di quanto si creda. Quella filosofia che guida tutti noi (talvolta inconsapevolmente) nella vita di ogni giorno, che ci instrada e orienta nelle scelte, che ci fa da “bussola”. 

Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre 2022                                          
Note
[1] Tra i suoi scritti, Per un’ontologia della libertà. Saggio sulla prospettiva filosofica di Luigi Pereyson, Roma, 1980, La filosofia del “senso comune” in Giambattista Vico, Caltanissetta-Roma, 1983, I cenni di Giove e il bivio di Ercole. Prospettive vichiane per un’etica sociale, Milano, 1988, Fede Libertà Peccato. Figure ed esiti della “prova” in Kierkegaard, Palermo, 1992, L’unico e l’altro.  Sul problema dell’alterità in Max Stirner, Palermo, 1996, Sul ruolo della libertà nella concezione vichiana della storia, Napoli, 2001, Una verità per me. Itinerari kierkegaardiani, Milano, 2007.
[2] Giuseppe Modica si è anche cimentato in sillogi poetiche. Al riguardo si ricorda la raccolta Stupore e pudore. Emozioni versate, Palermo, 2013.
[3] «Cutùsio è un luogo dell’anima, un microcosmo, non solo geografico e storico, ma anzitutto linguistico, cuore di un’etnia che si riconosce in una tradizione veicolata da parole scarne, essenziali, profonde come sanno essere le radici dell’appartenenza a un universo dal tempo dilatato e indefinito» (G. Modica, Il pendolo e la bussola, Milano, 2022: 58).

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Antonino Cangemi, dirigente alla Regione Siciliana, attualmente è preposto all’ufficio che si occupa della formazione del personale. Ha pubblicato, per l’ente presso cui opera, alcune monografie, tra le quali Semplificazione del linguaggio dei testi amministrativi e Mobbing: conoscerlo per contrastarlo; a quattro mani con Antonio La Spina, ordinario di Sociologia alla Luiss di Roma, Comunicazione pubblica e burocrazia (Franco Angeli, 2009). Ha scritto le sillogi di poesie I soliloqui del passista (Zona, 2009), dedicata alla storia del ciclismo dai pionieri ai nostri giorni, e Il bacio delle formiche (LietoColle, 2015), e i pamphlet umoristici Siculospremuta (D. Flaccovio, 2011) e Beddamatri Palermo! (Di Girolamo, 2013). Più recentemente D’amore in Sicilia (D. Flaccovio, 2015), una raccolta di storie d’amore di siciliani noti e, da ultimo, Miseria e nobiltà in Sicilia (Navarra, 2019). Collabora col Giornale di Sicilia e col quotidiano La ragione.

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