di Maria Rosaria Di Giacinto
Sopravvivenze
Palermo, 2020. Attraversando le vie del centro storico in un andirivieni quotidiano fatto di passi sovrapposti, può capitare di imbattersi nell’insolito. Qualcosa di apparentemente inusuale, un frammento urbano, devia leggermente la traiettoria di chi cammina sovrapensiero. I nomi di alcune strade, agli angoli dei palazzi, esibiscono dei caratteri sconosciuti: targhe multilingue che destano curiosità e punti di domanda. Cosa resta di ciò che è stato? Quale significato dare al visibile di cui partecipiamo?
Palermo, 1492. Una data significativa e un luogo che apparentemente nulla ha a che fare con Colombo e il suo viaggio. Tuttavia, una frattura meno conosciuta, un richiamo alla memoria meno istintivo, ma ad esso legato, cambia le sorti della città, devia la storia così come i suoi resti materiali, a distanza di secoli, fanno con i percorsi degli abitanti del nuovo millennio. La Spagna dei re Cattolici, impegnata nella costruzione della propria identità su base religiosa, espelle gli ebrei dal regno e ne confisca i beni. Ha inizio la Reconquista: da questo momento, il ricordo della lunga permanenza ebraica a Palermo sbiadisce, rimane una vaga eco di cui a fatica riconoscere i segni, ma che conserva ancora un nocciolo duro, vivo, tangibile. Ciò a riprova del fatto che la pretesa di dominio, simbolico e materiale, del diverso, nell’attualizzarsi, implica un imprescindibile e inafferrabile scarto alla norma.
L’ostracismo praticato in epoca moderna dal governo siciliano ha la meglio sui numeri: decine di migliaia di individui lasciano la Sicilia (Fonte: UCEI, Unione delle Comunità Ebraiche Italiane), ma la loro presenza non si spegne completamente e a distanza di secoli la comunità ebraica partecipa ancora della città. Il 12 gennaio si commemora la partenza degli ultimi espulsi: un tentativo di ricollocare il tempo nello spazio affinché quest’ultimo diventi luogo, diventi ciò che può essere sognato del luogo: il memorabile (de Certeau, 1980). Si cerca di restituire ai vicoli in cui sorgeva il vecchio quartiere della Meschita un passato immaginato svincolato dall’astrazione delle cifre. Nella ricostruzione documentaria degli alberi genealogici, si scorge la carne delle singolarità: i loro cognomi conservano radici lontane, arabe, orientali, mediterranee, come a ricordare l’insensatezza delle barriere identitarie anche per un gruppo altamente soggetto ad astrazione categoriale. Le vicende familiari non sono solo eventi privati: aggiungono varietà e ricchezza alla narrazione dell’intera città.
Tale sincretismo si riflette sulla materialità urbana: la nuova Sinagoga è ubicata, per concessione dell’Arcivescovo di Palermo, presso l’Oratorio della Madonna del Sabato. Si respira, durante la cerimonia annuale in ricordo della “cacciata” da terra siciliana, un’atmosfera di umana e pacifica convivenza, una tolleranza performativamente praticata: immaginata e, dunque, possibile. Il sito scelto per la rievocazione in musica è l’Archivio Centrale, luogo in cui sorgeva l’antica Sinagoga poi distrutta (Manzella, 2019): tra quelle mura in cui si stratifica e sedimenta la storia, eventi lontani e contemporaneità si incontrano, così come le fedi di chi ascolta. Cristiani, ebrei, musulmani, atei: indubbiamente, il credo rappresenta per l’individuo che ne è “portatore” un elemento di forte rilevanza, ma non è la ragione che affianca i presenti. Il desiderio di convivenza travalica le definizioni e i brani eseguiti dall’orchestra bene esprimono questa disposizione: il linguaggio universale dei suoni, così come gli elementi fisici urbani, sono un testo presentato a tutti allo stesso modo, ma che ognuno legge con soggettività. I frammenti dell’opera sono come i frammenti della città, il pentagramma come la mappa geografica, la note come i passi: abbandonano le linee rassicuranti tracciate sulla carta per farsi vive attraverso i propri interpreti.
Scene e interludio dall’opera 1492 – il brano proposto per la commemorazione – è un pezzo in fieri alla sua prima esecuzione [1]. Generalmente, autore e librettisti, dopo ritocchi e aggiustamenti, consegnano la composizione finita: la conclusione di un percorso di creazione da condividere con il pubblico. L’ascolto di qualcosa di incompiuto suggerisce, piuttosto, l’idea di una storia ancora da scrivere. Non è esclusivamente ciò che è stato ad accomunare chi è in sala, ma la volontà di partecipare a ciò che sarà. Come in altri meccanismi di costruzione identitaria già noti alla storia, passato e futuro si toccano in un presente immanente, fatto di qui e ora. Si è tentati dal pensare che canti simili, frutto dell’influenza reciproca di molteplici tradizioni, riecheggiassero in questo stesso luogo secoli addietro. La musica, come forma d’arte, come (la) poesia, come (la) preghiera, non nasce dal nulla, ma dal vissuto e nel vissuto, vario e variabile, incessantemente si trasforma per mezzo delle soggettività che la mettono in scena. Così, sebbene il credo ebraico rimandi a una visione teleologica ed escatologica della storia e le “giornate della memoria” vengano spesso celebrate come tappe indiscusse nel cammino verso il futuro, l’incertezza dettata dall’incompletezza dell’opera restituisce la contingenza di ciò che sarà. È sottraendo all’oblìo della memoria la complessità culturale, mista – ebraica, cristiana, musulmana –, di oggi e di ieri, presente nelle note, nel gusto, nei ciottoli palermitani, che si può attualizzare un Mediterraneo che unisca e non divida.
Un luogo di culto giudaico a Palermo non serve alla – sola – comunità ebraica per le pratiche di preghiera quotidiana, serve alla città tutta. Fa riflettere che Almeyda, architetto, autore dell’edificio dell’Archivio Centrale palermitano dove si svolge il concerto, si sia ispirato alla forma della Sinagoga sita lì un tempo (Manzella, 2019): significati reconditi che non si svelano subito all’occhio, ma testimoni di un legame e di una tradizione difficilmente negabile, se si comprende quali tasselli urbani interrogare.
La vicinanza spaziale e temporale ha la meglio sull’allontanamento dell’alterità, sul suo confinamento negli anfratti reconditi di ciò che è lontano allo sguardo, del resto del mondo e del passato annebbiato. Sembra quasi, ci si voglia, ironicamente, fare beffa della Storia con la “S” maiuscola, quella dettata dal potere: si richiama un passato di doloroso sradicamento, mosso da esigenze di uniformità; si attualizza la mistura tra le genti, mossa dal desiderio di risignificazione delle reliquie cittadine.
Polisemie urbane
È possibile, in questo movimento di presenza al presente, guardare alla città con occhi altri, quasi fosse la prima volta, riempire il vuoto semantico scaturito dall’oblìo della memoria di nuovo senso. Nell’atto creativo del camminare, le scritte delle targhe trilingue, indecifrabili ai più, assumono spessore: escono dal riquadro, passano dalla seconda alla terza dimensione.
Così, i nodi urbani, con il loro potere di suscitare domande inaspettate, diventano luoghi in cui il passo rallenta, deformando lo spazio e il tempo, esprimono una pluralità di stratificazioni costantemente in divenire, aprono spunti di riflessione imprevisti. Se «i luoghi vissuti sono come delle presenze di assenze [e] ciò che si mostra designa ciò che non c’è più», resta che l’urbano inventa il suo presente di ora in ora (de Certeau, 1980): i passanti, «parlano la città semplicemente abitandola, percorrendola, guardandola» (Soucy, 1971). Gli abitanti, coinvolti e immersi nei rumori, nel loro incedere quotidiano, si trasformano da archeologi di un sito preistorico (Auster, 1985) a scrittori di storie frammentate e plurime. Una pratica di tensione al futuro che sopperisce all’iniziale sgomento scaturito dall’inconosciuto.
Ci si chiede, scorgendo i nomi delle strade dai caratteri insoliti, in che misura Palermo sia una città cosmopolita, in cui convergano strati aggrovigliati di alterità e familiarità, esotico e consueto. Il quartiere dove anticamente ebrei, musulmani, cristiani si mischiavano – la Meschita era, infatti, frequentata da singolarità varie (Fonte: UCEI, Unione delle Comunità Ebraiche Italiane) – è tracciato tuttora da coloro che hanno calpestato il suolo delle più disparate aree del pianeta. Qui lo spazio sembra essere quel prodotto sociale di cui parlano i sociologi di Chicago degli anni ‘20 del ‘900, in cui l’adattamento passa attraverso la dialettica tra assimilazione e aggregazione, in cui tolleranza e competizione devono fare i conti con le categorie imposte dall’altro e le relazioni nel quotidiano. La distanza tra la norma e il vissuto permette di rinominare il luoghi in un presente irriducibile, mai risolto, mai esatto e mai perfettamente definito. L’urbano è pieno di soggetti che lo vivono diversamente, che ne danno una rappresentazione multiculturale: il generale si innesta nel particolare e visioni, mobilità, socialità complesse si mostrano ambigue e inafferrabili, refrattarie alla piatta classificazione. La città non è un concetto e non lo sono i suoi attraversatori: entrambi restano irrappresentabili. La narrazione che se ne dà è animata da incontri e contese, ma è un processo che resta incompiuto.
Distogliendo lo sguardo dai volti fatti di carne che si incrociano per le vie del centro palermitano, si è spinti a riflettere su come il globale trovi in questi spazi il suo particolare, ovvero come le dinamiche mondiali intersechino le vite dei passanti. Che tipo di governance guida le scelte della policy cittadina?
La riscoperta della Meschita, oltre a richiamare all’esigua comunità ebraica palermitana, risponde ad esigenze che coinvolgono il mercato nel tentativo di inserire Palermo entro la rete delle città globali. Questo piccolo frammento urbano vede attente e calcolate politiche di ri-significazione. La città sembra quasi ripiegare su se stessa: un “cuore” dalle dimensioni ristrette rispetto al resto, ma su cui convergono grandi aspettative economiche e sociali. Gli eventi multiculturali, le opere degli artisti di strada – che pur svelano l’ovvio invisibile agli occhi (Foucault, 1976) –, la gentrification danno un’immagine simbolica pacificata: quasi questo tassello di urbanità in cui si concentrano edifici e monumenti del passato sia emblema della città in toto. Elementi diacronici e sincronici si fondono per dare vita a un’odonomastica pensata. Il percorso Arabo-Normanno entro cui è inserito il quartiere ebraico riconduce l’esotico all’interno di cornici rassicuranti, normalizzate, conosciute. Così, nel tentativo di disciplinare i corpi si cattura il movimento (Foucault, 1976), pianificando percorsi turistici al sapore di capitalismo: una Palermo in cui l’alterità rischia di essere cosificata, di divenire brand economico ad uso e consumo di visitatori disattenti, di passaggio, inconsapevoli dei tratti controversi che attraversano questi luoghi. L’ideologia, che pare voler rendere ragione delle multisfaccettature del vissuto, corre il pericolo di divenire cieca alle crepe stridenti di chi quotidianamente abita la città.
Sebbene spazio e tempo siano indissolubilmente legati, la possibilità di riconoscere ciò che è stato nel luogo non risulta un processo immediato e compiuto. L’asfalto su cui si poggiano i piedi, gli edifici così evidenti agli occhi, sono fatti di dimenticanze: il passato deve fare i conti con le esigenze del presente che lo interroga. La costruzione del mito passa da un confronto serrato con la spazializzazione della memoria pubblica. Il racconto, “orientalizzante”, sugli ebrei a Palermo, parla di radici arabo-normanne-giudaiche, rimanda a un periodo d’oro antichissimo, riducendo la cultura ebraica a ciò che si scrive di essa. Un sincretismo socioculturale Occidentale/Orientale in cui la città mette in scena il suo lieto fine: una narrazione sommaria che banalizza il quotidiano, ne occulta i nodi eccedenti gettando l’oblìo sugli strati di memoria poco utili allo scopo, in favore di altri giudicati più consoni. Ma dietro alla certezza del rappresentare (Farinelli, 2003) si cela l’ambivalenza delle scritture del mondo e delle sue forme sempre politiche (Minca- Bialasiewitcz, 2014).
Derive enigmatiche
Palermo, 2017. Accade, alquanto spiacevolmente – e qui il giudizio di valore sembra imprescindibile –, che la narrazione pacificata del presente attraverso il passato sfugga agli intenti del proprio creatore. Così, gli spettri urbani diventano corpi, tornando ad animare le vie del centro storico. Le indicazioni delle strade in lingua araba ed ebraica – a differenza di quelle in italiano – vengono coperte da spray verde: un atto vandalico che, occultando la parola, parla esso stesso. Di insofferenza. Di odio. Di razzismo.
L’idea(le), auspicabile, di convivenza pacifica viene spezzato dall’imprevedibile. Una distopia dell’oggi in cui «l’inganno della trasparenza della città di vetro è l’inganno della lingua», in cui «il mondo è in frantumi e le nostre parole non corrispondono più a ciò che le circonda» (Auster, 1985). L’eccedenza della materia di cui partecipiamo si traduce nella possibilità di imbattersi nell’ignoto anche quando si esplora ciò che è apparentemente conosciuto: sporgersi verso l’altrove significa scoprirsi impreparati a quanto dell’altro non si potrà mai definitivamente catturare. Ciò è facilmente sperimentabile nell’urbano, nei suoi nodi irrisolti dove fedi, genti e sentire si mescolano vorticosamente: «la città è un Dedalo senza vie d’uscita, ma è anche la complessità delle identità che si fonda e confonde lungo un intreccio inestricabile» (ibidem). Ed è in questa complessità, tra le direzioni proposte dall’alto e quelle emerse dal buio, che si esplicita performativamente una direzione, cosicché, come gli 88 tasti del pianoforte, i passi di chi attraversa la città scorgono infinite possibilità di combinazione in cerca del giusto suono.
Dialoghi Mediterranei, n. 42, marzo 2020
Nota
[1] Marco Betta e Davide Camarrone lavorano dal 2017 all’opera teatrale 1492.
Riferimenti bibliografici
P. Auster, Città di vetro, Sun & Moon Press, Los Angeles, 1985
M. de Certeau, L’absent de l’histoire, Mame, Tours, 1973
M. de Certeau, L’invention du quotidien, Gallimard, Parigi, 1980
F. Farinelli, Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo, Einaudi, Torino, 2003
M. Foucault, Sorvegliare e punire: nascita della prigione, Einaudi, Torino, 1976
M. E. Manzella, La sinagoga perduta di Palermo. Storia e nuove scoperte sull’impianto dell’antica Meschita, Edizioni Kalós, Palermo, 2019
C. Minca – L. Bialasiewitcz, Spazio e Politica. Riflessioni di geografia critica, Cedam, Padova, 2004
C. Soucy, L’image du centre dans quatre romans contemporains, CSU, Parigi, 1971.
Sitografia
http://ucei.it/cultura/giornata-europea-cultura-ebraica/2018-2/2017-sicilia-palermo-ebraica/
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Maria Rosaria Di Giacinto, si è laureata con lode nel 2017 in Studi Filosofici e Storici presso l’Università degli Studi di Palermo. Nello stesso anno ha partecipato come relatrice al convegno internazionale Stati Uniti, Australia e Unione Europea: tre modelli a confronto, da cui è stato tratto nel 2019 un volume da lei curato e in cui è inserito il suo saggio Politiche di migrazione irregolare. Stati Uniti, Australia e Unione Europea: tre modelli a confronto. Nel 2019 è relatrice nel convegno Dai Vespri Siciliani a Strade Sicure, ne ha raccolto gli atti per la pubblicazione che comprende un suo contributo: Ricerca sul campo e cambiamenti di prospettiva. Ha, inoltre, partecipato a numerosi scambi all’estero, all’interno di progetti UE. Laureanda in Studi Storici, Antropologici e Geografici, si occupa attualmente di migrazioni e cambiamenti climatici.
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