di Valentina Napolitano [*]
Considerare Papa Francesco come Criollo – termine usato qui nella sua specifica connotazione latino-americana che rinvia a storie sia di emancipazione sia di repressione – significa presentare una nuova prospettiva antropologica circa l’attuale momento di trasformazione interna alla Chiesa cattolica. Al pari di precedenti studi antropologici sui papati, anche questo mio contributo assume la forma di un palinsesto basato non tanto su etnografie personali e dirette, quanto su momenti, nella vita del Papa, costruiti e trasmessi come eventi mediatici (Beatty 2006: 325; Norget 2017). Non considero Francesco come modello di riferimento – “rappresentante” della Chiesa nel senso di insieme più ampio – e indice sociologico di un gruppo (Mittermaier 2015: 131). Ritengo che la sua esemplarità si esplichi, piuttosto, nell’accogliere Cristo nella sua vita «through sensorially mediated, historically contingent and emplaced forms» (Brown 1983: 8). La mia ipotesi è che la sua esemplare imitatio Christi derivi da quel particolare carisma – affettivo, spazializzato e fondato su un’appartenenza – incentrato sulla figura di un Cristo sofferente e vulnerabile, nonché misericordioso.
Al fine di comprendere questa idea di carisma è necessario soffermarsi sui momenti etnografici e affettivi nella vita del Papa che fanno leva mediaticamente sulla sua vita privata e pubblica, i quali, a loro volta, consentono di interpretare la sua figura come quella di un papa orientato in senso pastorale più che teologico. Richiamandosi a studi antropologici sulla razza [1], sul Criollismo e sulle loro storie affettive nelle Americhe, questo saggio s’interroga sulla minaccia alla percepita unità della cattolica Mater Ecclesia che ruota attorno alla tensione istituita tra un Papa considerato pastore e un Papa considerato teologo.
Una caratteristica particolare di Francesco risiede nell’attribuzione di valore alle periferie più che ai centri teologici d’ordine formale. Francesco stesso non è un esempio di quella formazione cattolica conservatrice attualmente emergente in Europa, sempre più definita dall’inquietante difesa di uno ius sanguinis et soli (cittadinanza per diritto di sangue e per nascita) e dalla discendenza genealogica dal sangue di Cristo Salvatore/Cristo Re. Il discorso emerso intorno a Francesco è anzitutto conflittuale, irto di tensioni tra centro e periferia, dogma ed eresia, teologia astratta e teologia pratica, Occidente e Resto del mondo. Primo papa eletto dalle Americhe e primo papa gesuita, Francesco è stato visto da una parte del gregge cattolico come leader carismatico ed etico dedito al rinnovamento globale. All’interno di un altro segmento della Chiesa, Francesco è invece considerato come un traditore/sovvertitore della tradizione teologica. Senza trascurare queste posizioni concorrenti – ognuna delle quali rivendica il proprio punto di vista sulla storia della Chiesa e sul ruolo del Papa – la prospettiva che avanzo qui s’inquadra in una cornice di analisi affettiva [2] e razziale.
Sostituendo le storie sulle legittime origini dei concetti cristiani di “redenzione” o di “tradimento” con un insieme del tutto distinto di genealogie, concretamente più pertinenti dal mio punto di vista, le quali potrebbero fornire fondamento per uno studio su Francesco, mi propongo di analizzare quanto sia teologicamente permeata di Criollismo la soggettività politica e di razza. In gioco non è tanto l’importante questione relativa al modo in cui la teologia politica possa contribuire a una migliore comprensione della razza e dei rapporti tra razze, quanto invece possa un particolare punto di vista della razza incarnato e incorporato – esemplificato da Papa Francesco – aiutare a illuminare forze teopolitiche contrastanti all’interno della Chiesa cattolica, specialmente in relazione alle questioni riguardanti il fenomeno dei migranti sprovvisti di documenti, la vita sacramentale dei divorziati e le coppie appartenenti allo stesso sesso. Ritengo che, mettendo in contrapposizione storie affettive di razza con questioni d’ordine teologico, sia più facile cogliere quelle trasformazioni fondamentali della Chiesa che hanno effetti diplomatici concreti, con implicazioni decisamente globali (Lloyd 2012: 7)
Due elementi di partenza sono importanti per comprendere papa Francesco come Papa Criollo. Il primo è che il Criollismo nelle Americhe ha una lunga storia di formazione dei soggetti e, in quanto tale, poggia su una tensione tra essere l’Altro e identificarsi con il Medesimo. Per tutto il sedicesimo e diciassettesimo secolo, quella di Criollo è emersa come una categoria di “colore”, collegata a una storia di schiavitù e parte di un immaginario tassonomico vissuto in cui spazio, razza e politica si intersecavano. Il termine è in realtà polimorfo. In luoghi come il Messico, la creolizzazione è collegata all’idea di mestizaje (processo di meticciaggio) e agli inizi mitologici di una nazione dal sangue misto. Nel Cono meridionale, il termine Criollo fa invece riferimento a un oggetto, oscillante tra attrazione e repulsione, generato da una tensione tra il tropo e il corpo dell’“Indiano”. Inoltre, nelle aree di confine come il Chaco nord-orientale, dove la presenza dell’Indiano (come persona nativa originaria) subisce un’epurazione a opera di una retorica nazionale di tipo egemonico, questa oscillazione tra attrazione e repulsione del corpo dell’Indiano, onnipresente nell’immaginario del Criollo, assume quasi i tratti di un fantasma. Ciò spiega il perché l’identità egemonica di un argentino Criollo possa essere di natura spettrale (Gordillo 2014: 35).
Un secondo elemento di partenza è rappresentato dal fatto che “il Criollo”, al centro del papato di Francesco, non è soltanto tratto particolare di un soggetto: nato Jorge Mario Bergoglio in Argentina, figlio di genitori italiani, Francesco è tecnicamente un Criollo. È, piuttosto, un carisma affettivo che conferisce legittimità al progetto di Francesco di conferire attenzione alle periferie e di elevare i soggetti “marginali” (come i poveri) a nuovo sangue della metropoli. Una separazione tra metropoli e periferie coloniali è stata, a lungo, creata mediante tropi che associano moderni e pre-moderni rispettivamente agli Europei e ai colonizzati (Povinelli 2006: 215). Quindi, la svolta verso le periferie come fonte di ringiovanimento per la metropoli – in questo caso, la Chiesa metropolitana – risuona di una familiare valenza politica di Criollismo e ripete un impulso “federatore” perpetrato da più leader Criollo nelle Americhe, specialmente nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo. Nel progetto di Francesco, questo riconoscibile impulso federatore – reso nella visione di una Chiesa più decentralizzata e rappresentativa, e di una riforma della Curia romana – è accolto e allo stesso tempo contestato all’interno della Chiesa cattolica.
Sul “Criollismo” di Francesco
Jorge Mario Bergoglio, nasce nel 1936, primo di cinque figli di una coppia piemontese emigrata a Buenos Aires nel 1929. La famiglia materna partecipa attivamente al nascente movimento dell’Azione Cattolica, un’organizzazione cattolica fondata in Italia nel 1905 con l’obiettivo di portare la fede, il Vangelo e la chiamata alla santità all’interno delle pratiche sociali e popolari. Il coinvolgimento dei genitori di Bergoglio in questo movimento, non ben accolto dal regime fascista italiano, apporta alla loro successiva migrazione verso le Americhe una dimensione politica che va al di là della tipica narrazione dell’emigrazione italiana del tempo fondata sull’aspirazione a un miglioramento di tipo economico (Alazraki 2015).
Di Bergoglio – borghese, formato in una scuola salesiana a Buenos Aires – le sue biografie ci raccontano l’amore per entrambe le culture di origine. Apprendiamo, inoltre, della sua passione per il cinema italiano e il tango argentino, il suo supporto alla squadra di calcio di San Lorenzo, il suo affetto speciale per la poesia di José Hernández del 1872 “El Gaucho Martin Fierro” e il romanticismo della vita del gaucho nelle pampas che il poema immortala (Ivereigh 2014: 7). Nel 1958, Bergoglio si unisce all’ordine dei Gesuiti e scala i ranghi del movimento durante il periodo populista anticlericale peronista in Argentina (1943-1955), operando come superiore provinciale dell’ordine dei Gesuiti tra il 1972 e 1979. Ma è il rapporto di Bergoglio con la dittatura militare di Jorge Rafael Videla negli anni Settanta a rimanere uno degli episodi più controversi della sua storia personale in Argentina. Che abbia protetto i compagni gesuiti rapiti dal regime nel 1976 o che abbia aiutato le famiglie di desaparecidos (persone scomparse) per mano del regime fascista di Videla, la domanda di fondo è se sia stato effettivamente un collaboratore o un partigiano schierato contro il regime militare. Tanto la storia ambigua del suo rapporto con la dittatura militare nell’Argentina degli anni Settanta, quanto la sua successiva attenzione pastorale nei confronti della vita dei più svantaggiati all’interno delle periferie di Buenos Aires, pongono le basi per la sua attuale inclinazione teologica verso i poveri.
Nel Cattolicesimo promosso da Francesco, le classiche virtù cristiane della salvezza personale, della remissione e del sacrificio prendono forma attraverso una visione del peccato e del male in quanto elementi generati da forze sociali ed ecologiche, comprese le forme del male che richiedono risposte politiche e strutturali per essere sradicate (Napolitano 2017: 275; Schall 2015). A differenza del papato del suo predecessore Papa Benedetto XVI – stabilmente incentrato sull’integrità teologica della Chiesa – non è tanto l’accuratezza o la coerenza dottrinale delle credenze e delle posizioni morali a guidare il Cattolicesimo di Francesco come progetto etico, pastorale e politico, quanto, piuttosto, la trasmissione di affetti.
La trasmissione di un carisma affettivo è un fatto centrale per la politica del Criollo storico nelle Americhe. Le analisi del Criollo/Criollismo, se rimuovono i luoghi storici e politici di produzione, hanno presa limitata; la creolizzazione deve essere sempre storicizzata (C. Stewart 2007b: 16-17). Il termine “Criollo” descrive generalmente la condizione più ampia delle persone cresciute nelle Americhe, dei loro modi di vita, del cibo e delle abitudini “ordinarie” e locali. Il mio personale uso del termine fa riferimento più specifico alle ansie del Nuovo Mondo riguardo la pureza de sangre, letteralmente “purezza di sangue” o purezza della discendenza. Questa accezione di Criollo è in continuità col significato dato nel ventesimo secolo alla creolizzazione, intesa come ibridazione e mescolanza, e affonda le radici nell’ansia del quindicesimo e del sedicesimo secolo provata nei confronti della discendenza, del territorio, del suolo, del sangue e, infine, della sovranità.
La pureza de sangre era una questione tipicamente atlantica che faceva riferimento a dicerie, corruzione e lunghi processi amministrativi (Martínez 2008: 198). Procedure interminabili, volte ad attestare la prova di discendenza europea e a escludere l’origine ebraica o musulmana (in seguito africana o nativa americana) dei candidati a incarichi amministrativi nel Nuovo Mondo, vengono riportate sin dalla metà del sedicesimo secolo. Sono state proprio queste ansie, i processi burocratici e il forte senso di appartenenza alla “comunità spagnola di sangue”, ad aver dato origine a una coscienza Criollo. Configuratasi come reazione ai discorsi europei sulla purezza di razza, la coscienza Criollo nel sedicesimo e diciassettesimo secolo fu caratterizzata dall’affermazione di una nuova storia ‘militante’ nazionale e da un concetto di libertà connesso all’autonomia politica dalle monarchie europee che, tuttavia, avevano preservato la fede e l’identità culturale cristiane. In effetti, all’inizio del diciassettesimo secolo, la comunità di sangue e la sua pretesa di sovranità avevano preso le distanze dalla Corona di Castiglia, orientandosi verso un nuovo nativismo radicato nel suolo del Nuovo Mondo (ibid.: 174).
Questa prima storia moderna di Criollos segue quindi un riallineamento tra territorio, eredità e fede. In altre parole, il Criollo storico era una figura complessa che dava forma a nuove visioni della sovranità e dell’appartenenza site tra metropoli e periferie radicate in un’instabile purezza di status. I Criollos, né indigeni né peninsulari, promuovevano idee e pratiche nuove, così come pure un sapere più tradizionale. In effetti, nel diciottesimo e diciannovesimo secolo, i leader Criollo sostenevano i movimenti nazionalisti e rivoluzionari per l’indipendenza nelle Americhe, mentre il loro Criollismo era anche una formazione retorica, rappresentativa in parte di un immaginario post-coloniale (Palmié 2007). I Criollos di origine europea, nati nelle Americhe, potevano diventare padri della nazione facendo appello al vero valore della terra, più che a una comunità di discendenza. Contrariamente alla tesi di Benedict Anderson, il nazionalismo Criollo nelle Americhe (e in particolare nel Messico) fu sacralizzato, più che secolarizzato, partendo dalla convinzione che tutte le persone, indipendentemente dal luogo di nascita, erano figlie dello stesso sangue di Cristo (Lomnitz-Adler 2001: 17–18).
Tuttavia, i Criollos erano anche costantemente tormentati dalla loro duplicità d’ibridi viventi – a un tempo esseri incarnati e figure aventi uno status ereditario – pur essendo inevitabilmente parte d’ibridazioni concettuali, di discorsi ideologici e nazionali relativi all’uguaglianza e differenza (Cadena 2000). L’espressione “Papa Criollo”, in sostanza, riassume questa complessa storia di nazionalismo, di sangue-misto, di rapporti tra razza e Chiesa cattolica in America Latina. Papa Francesco, da Criollo argentino, fa appello ad alcuni aspetti della longue durée affettiva relativa a queste traiettorie, rendendo attuali le potenzialità accumulate nel corso della storia del Criollismo, diffondendole e promuovendole all’interno dell’ambiente sociale (Mazzarella 2017: 156). Quando questa traiettoria traccia un confine tra l’immagine di un’autorità indigena e l’immagine di un’autorità “civilizzata”, l’archivio affettivo a cui Francesco fa riferimento acquisisce un gradiente di de-colonizzazione non indifferente, com’è d’altronde successo con alcuni leader Criollo nelle Americhe. Ma questa non è chiaramente tutta la storia.
Sin dal diciannovesimo secolo, Criollo e creolizzazione in Argentina sono esistiti in una tensione produttiva instaurata tra la persistenza di abitudini e costumi locali e un’assimilazione creativa di culture e pratiche radicate altrove. I Criollos sono stati coloro i quali, come «alternative to speaking the imposed language of the metropolis» potevano pronunciare parole e idee indicibili all’interno degli «European expressive standards» (Cara 2003: 38-40). Nell’Argentina odierna, il termine “Criollo” acquisisce ulteriore complessità in riferimento alla denotazione di trickster e di mistero. Nelle espressioni locali, hablar criollo (parlare Creolo) significa avere una doppia coscienza, un doppio fine. Per capire il senso di Francesco come papa Criollo sono necessari tutti questi significati contrastanti del termine. Andare oltre il prisma analitico che contrappone una leadership secolare a una religiosa significa comprendere Papa Francesco, invece, attraverso una lunga e affettiva storia atlantica posta in essere dai leader Criollo, potenzialmente “rivoluzionari”, “imbroglioni” o, come direbbero alcuni, potenziali “eretici”.
Ma perché trickster? Francesco viene a situarsi sul confluire di una stratificata contraddizione e contestazione. Considerato un traditore da parte della Curia romana e percepito più come un pastore che come un teologo da altri, scuote la fervente macchina della Chiesa cattolica, decentrando e rimaneggiando i suoi luoghi di potere. In primo luogo, Papa Francesco ribadisce di essere vescovo di Roma. Ciò imprime un cambio di direzione rispetto alla svolta del diciannovesimo e del ventesimo secolo nella Chiesa cattolica che enfatizzava il dogma dell’infallibilità del Papa e rafforzava la spaccatura tra Roma e le Chiese cristiane orientali. Segnando una svolta rispetto a questa tradizione, l’enfasi di Francesco sul suo ruolo di vescovo di Roma implica una Chiesa Romana Cattolica posta su un piano di parità rispetto agli altri centri paralleli dell’antica cristianità: Alessandria, Costantinopoli, Gerusalemme. In questo modo, il Criollismo di Francesco riformula, dall’interno, la scala d’importanza della Chiesa cattolica.
L’insistenza di Francesco sul suo ruolo di vescovo di Roma implica inoltre un’apertura verso un modello federatore della Chiesa, da me individuato nella recente emergenza del Criollismo come progetto politico nelle Americhe. Tale impulso federatore può essere visto nell’esempio del motu proprio “Magnum Principium” (un emendamento alla legge canonica chiamata “Grande Principio”) che Francesco ha pubblicato nel settembre 2017: un testo che riguarda gli adattamenti e le traduzioni nelle lingue contemporanee dei testi liturgici della Chiesa Latina. Al suo interno, Francesco opera una chiara distinzione tra recognitio (verifica) e confirmatio (conferma), ma non definisce chiaramente il campo delle Conferenze Episcopali nazionali o cosa dovrebbe essere sottoposto all’approvazione della Santa Sede [3]. Robert Sarah, un insigne cardinale guineano e prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, ha assunto una posizione particolare in risposta a tale motu proprio, affermando che verifica e conferma sono in realtà sinonimi o, in ogni caso, sono «interchangeable with respect to the responsibility of the Holy See», il cui compito di revisionare le traduzioni prima di approvarle rimane inalterato (Harris 2017). Due settimane dopo, il Papa ha criticato la posizione di Sarah con una lettera dura, facendo ancora riferimento a una nuova forma federatrice all’interno della governamentalità della Chiesa. In questa lettera pubblica, Francesco ha esplicitamente assegnato alle Conferenze Episcopali nazionali la libertà e autorità di decidere autonomamente sulle traduzioni, alla sola condizione di una ratifica finale da parte della congregazione del Vaticano.
Il Criollismo di Francesco deve essere compreso anche in relazione ai principali orientamenti teologici precedenti. La sua esortazione, rivolta anche al di fuori dei gruppi cattolici, è di occuparsi del bene comune con un radicalismo francescano consistente nel rifiuto di «trasformare la realtà in un oggetto semplicemente da usare e controllare» e volto a respingere le formazioni capitaliste se queste producono una “cultura dello scarto” (Papa Francesco 2015). Uno dei principali obiettivi del papato di Francesco è stato quello di reintrodurre la teodicea politica agostiniana della privatio boni (privazione del bene) nell’insegnamento sociale e pastorale della Chiesa e di adottarla come una critica al tardo capitalismo. Introducendo la prospettiva della privatio boni, Francesco attira l’attenzione sulla teodicea non come presenza tangibile, ma come limite a ciò che l’azione umana, politica ed economica, può ottenere sulla Terra, sottolineando il principio che la vita dovrebbe essere sempre permeata dall’amore, più che da una logica della penuria (Rowlands 2015:418-419).
Il carisma affettivo di Francesco trae forza da un modello medievale di vita monastica, ben al di là dell’ovvio riferimento al suo nome papale (Napolitano 2017: 278).
La sua Enciclica “Laudato Si, Sulla cura della casa comune” (Papa Francesco 2015), è un’esortazione pastorale senza precedenti che sprona a prendersi cura dell’ambiente come bene comune, ad abbandonare il mito capitalista della crescita senza fine. In questo modo, Laudato Si ha riacceso un lungo dibattito sulla natura del possesso e della proprietà, al contempo prendendo posizione sull’assenza di cura della Terra in quanto peccato dell’umanità, per i suoi effetti sulla diseguaglianza sociale, sui poveri e sulla «malattia del suolo, dell’acqua, dell’aria e degli esseri viventi» (ibid.; v. anche Agamben 2013: 124-125). Tuttavia, la misura della provocazione di questi interventi risiede principalmente nell’ampia portata del tema (e del soggetto politico-economico) che ci si aspetta che il Papa affronti: ciò va da un riconoscimento implicito dell’importanza dello Stato-nazione e dei suoi cittadini a un appello apparentemente antico, ma anche profondamente contemporaneo agli abitanti della terra e a un soggetto transnazionale che è al tempo stesso sociale, biologico, terrestre e cosmico. Dando una maggiore estensione al concetto di “casa”, Francesco sollecita nuove forme politiche dell’abitare e del posizionarsi – richieste centrali nella formazione storica di una coscienza Criollo nelle Americhe.
Ho dibattuto altrove, nelle mie ricerche sulla migrazione latinoamericana in Italia, l’importanza di uno studio della Chiesa cattolica come “macchina appassionata” (passionate machine) (Napolitano 2016: 3), forma di immaginario religioso e forma di governo, attraverso l’etica e la gestione materiale dell’anima (Rutherford 2009: 7). Dovuto a questo tipo di governance, fortemente caratterizzata dall’affettività, non è sempre semplice riconoscere la dimensione restrittiva delle pratiche quotidiane cattoliche all’intersezione, per esempio, fra rituali di devozione performantiva e mimetica e la razzializzazione del lavoro transnazionale che produce e viene prodotto da tali rituali (Bautista 2015: 427). Nel caso di Papa Francesco, questa governance affettiva si regge su una soggettività (del povero) latino-americana e cattolica situata nel cuore di un ravvivamento globale della Chiesa Cattolica Romana dall’interno e dall’esterno.
La tensione tra centro e periferia è un altro elemento che descrive in maniera decisa la spinta teologica dell’ordine gesuita. Partiti all’inizio del sedicesimo secolo per abbracciare la vita missionaria, più che la clausura monastica, e muniti degli Esercizi Spirituali di Ignazio di Loyola come strumento, portatile e moderno, di auto-formazione, i Gesuiti hanno avuto un ruolo centrale nel processo di globalizzazione del Cristianesimo (Molina 2013). La Imitatio Christi, imitazione del Cristo che soffre e si sacrifica per l’umanità, che combina un’attenzione alla “profondità dell’anima” con un’azione Ad maiorem Dei gloriam (Per la maggiore gloria di Dio), sta al cuore delle pratiche missionarie e della stessa raison d’être dei Gesuiti. La forza apostolica dei Gesuiti è stata infatti una questione di globalizzazione. Nel Nuovo Mondo, tuttavia, la capacità dell’ordine di aumentare e controllare le tasse, nonché il suo ruolo chiave nell’educazione delle élite locali, ne fecero un nemico degli interessi della Corona spagnola, cosa che portò alla sua tanto contestata repressione nel 1767. La storia dei Gesuiti è strettamente connessa sia al sostegno al papato sia all’impulso a mantenersi indipendenti, in alcuni casi anche ricusando, prima, gli interessi imperiali e, successivamente, quelli del moderno stato “secolare”.
Nel 1924, Gramsci affermò che il Vaticano è un “nemico del proletariato” terribilmente pericoloso perché mette insieme l’apparato delle istituzioni statali e l’elitismo culturale con un assemblaggio di formazioni politiche e affettive di base. Gramsci ha anche asserito che l’influenza gesuita sulla vita pubblica somigliava molto, negli obiettivi, al movimento fascista, in quanto entrambi erano mossi da un desiderio di “conquista dello Stato” (Gramsci [1924] 1978: 220-224). L’analisi di Gramsci trova riscontri proprio nella relazione intrattenuta tra l’ordine dei Gesuiti e la Chiesa cattolica con la dittatura argentina (1976-1982), benché la storia di questa relazione sia intessuta di chiaroscuri (Verbitsky 2005). Rispetto alla sua posizione nei confronti delle altre dittature latinoamericane dell’epoca, come in Brasile, la posizione dell’ordine dei Gesuiti in Argentina consisteva in una critica silenziosa, ma non pubblica, al regime. Fu in questo contesto di dittatura che nacque la relazione di Bergoglio coi Gesuiti. L’ambiguità dell’investimento gesuita nella vita pubblica è stata interamente ereditata da Francesco.
La mancanza di chiarezza nella posizione di Bergoglio – da me definito Criollo – si ripercuote sul suo papato. La visita di Francesco in Cile nel 2018, per esempio, fu contestata non solo per il suo fallimento nel denunciare il precedente regime militare argentino, ma anche per la ritrosia nell’unire la sua voce contro il rifiuto e la violenta opposizione del governo alle richieste dei Mapuche in ordine alla sovranità e all’accesso alla loro terra ancestrale. Francesco – evocando una modalità di potere Criollo – è stato percepito come allineato ai regimi conservatori e violenti, più che come difensore delle rivendicazioni indigene. In effetti, in linea coi suoi predecessori, nonostante le petizioni ricevute da parte di varie organizzazioni indigene nelle Americhe, Francesco non ha ritirato l’Enciclica Inter Caetera di Papa Alessandro VI del 1493 che afferma la sovranità dei Regni di Spagna e Portogallo “sui mondi non ancora scoperti”. In breve, dunque, Francesco è percepito come un papa progressista, ma il suo carisma politico ed evangelico è anche intriso di ambiguità, tradizionalismo e violenza repressiva appartenenti alla storia Criollo, delle Americhe e della Chiesa cattolica in generale.
Politiche della seduzione: La Croce/Le Croci di Lampedusa
L’8 luglio 2013, pochi mesi dopo la sua elezione, Papa Francesco parte per la sua prima visita ufficiale. Inizialmente invitato senza alcuna aspettativa da Stefano Nastasi – l’allora parroco di Lampedusa, un’isola situata a 200 miglia (321 km) dalla costa tunisina – Francesco intraprende la prima di quelle che saranno le tante violazioni dell’etichetta papale e della tradizione. La sua prima messa ufficiale non è affiancata da cardinali e arcivescovi, né vede la partecipazione di autorità statali. Indossando la bianca veste papale e sostituendo l’oro previsto con una croce di ferro, Francesco usa una barca da pesca in legno come altare. Trait d’union tra il sostentamento dei nativi dell’isola e la condizione di speranza e disperazione per coloro che attraversano il mare, la barca da pesca, in questa area del Mediterraneo, è vista e rinforzata mediaticamente come indice di un paesaggio mortale (Albahari 2016; Ben-Yehoyada 2016; Fassin 2016)[4]. È il caso, per esempio, della fotografia premiata e diffusa su larga scala del World Press 2015 di Massimo Sestini che riprende dall’alto una piccola barca da pesca piena di richiedenti asilo vicino alla costa di Lampedusa. I pescherecci di legno hanno ormai lasciato il posto all’uso dei gommoni (sgonfiati dalla polizia di frontiera per scoraggiarne il riutilizzo). Negli striscioni che segnano l’arrivo di Francesco, mostrati mentre camminava attraverso una folla di gente del posto, turisti e migranti, si leggevano frasi del tipo “Solo tu puoi salvarci”; “Sei uno di noi, benvenuto tra coloro che [sono visti come] gli ultimi”. In quel momento, il tema dell’impegno per gli emarginati divenne il nuovo campo performativo del Papa.
Francesco cammina appoggiandosi con delicatezza allo scettro papale creato per l’occasione da Francesco Tuccio, un falegname locale. Costruito a forma di croce, lo scettro è stato realizzato col legno delle barche naufragate che portano i migranti sulle coste dell’isola. Il Papa sparge l’incenso nelle quattro direzioni dell’altare. Questo momento rituale conferisce sacralità alla barca e alla croce e, per estensione, trasforma il legno di altre navi ordinarie della costa di Lampedusa in materia vitale grazie a una forza cattolica che cerca di rendere visibili le persone marginali e gli spazi marini. Più tardi, il Papa benedice una corona di fiori e poi la getta in mare. Dall’istante, carico affettivamente, in cui i petali e la superficie dell’acqua vengono in contatto, la diffusione dei riverberi, tramite le preghiere del Papa, crea un collegamento con coloro che giacciono “dispersi” sotto la superficie del mare. La connessione con – e l’amore per – coloro che sono dispersi ha luogo per mezzo di una visione aptica: toccare e pregare grazie a una resa materiale divenuta poi comune (la corona benedetta di fiori galleggiante sul mare). Papa Francesco ha teologicamente, mediaticamente e pastoralmente messo in primo piano l’abrazo (l’abbraccio) e l’importanza dell’aspetto tattile come incontro con Dio attraverso il sacrificio di Gesù sulla croce: «Il paradiso non è un luogo da favola, tanto meno un giardino incantato. Il paradiso è l’abbraccio di Dio, l’amore infinito, e noi entriamo lì grazie a Gesù che è morto sulla Croce per noi» (Papa Francesco 2017b; mio corsivo).
Nella Nuova Spagna e nell’America Latina contemporanea, vi è un attaccamento affettivo indigeno e Criollo di lunga data alle immagini della Crocifissione collegate non solo alla tristezza di una morte sofferente, ma anche alla gioia della rinascita, e codificate attraverso un corpo sulla croce (Hughes 2010). Per Francesco, la Croce ci trasporta da un modo di vivere all’altro, dal fascino della mondanità all’azione sociale impegnata. La presenza della Croce di Gesù crea una possibilità di riflessione e dialogo nel “cuore” (evocando gli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio), salvandoci dal fascino del materialismo. Questo incontro con la croce a/di Lampedusa è performativo e diretto all’azione, e dà forma a una nuova visibilità e consapevolezza relativa alla sofferenza e alla gioia della migrazione priva di documenti.
Alla fine della sua prima visita a Lampedusa, Papa Francesco ha benedetto la croce invitando a portarla ovunque («portatela ovunque»). Questa croce e altri oggetti simili avrebbero successivamente viaggiato attraverso l’Italia e la Germania settentrionale, nonché in Inghilterra e nel Galles (vedi ANSA 2016; CAFOD 2016; Wir nel 2015). Nell’aprile del 2015, il British Museum ha commissionato una croce di Lampedusa a Tuccio. Come mi ha spiegato il curatore capo del Museo Jill Cook, la croce, che mostra una “politics of seduction”, diventerà un documento vivente del «historical moment we are embedded in». Quando la religione e la cittadinanza si trovano in una tensione dialogica di dissociazione, la relazione tra sacro e politico va meglio studiata come produzione storica, risultato di una condizione di modernità occidentale che ha bisogno di sprovincializzarsi (Certeau 1988: 121) Di fatto, il richiamo della croce di Lampedusa a una politica di seduzione impone una disposizione verso la sofferenza dei migranti. Attraverso il tocco papale [5], la croce di Lampedusa diventa traccia materiale di storie violente insieme al (e oltre il) sacrificio di Gesù.
L’evento mediatico di Papa Francesco che, nella sua prima visita papale ufficiale, si appoggia, abbraccia e bacia la croce di legno ha dato una direzione particolare al suo papato. Attraverso le croci di Lampedusa, lo sforzo di Francesco di rendere visibile il movimento di migranti privi di documenti in quanto sacrificio, sofferenza e violenza – nonché gioia – acquisisce concretezza. In questo modo, la croce diventa fattore potenziale di un rinnovato progetto cattolico poiché unisce materialmente una politica estetica, trasformativa e affettiva.
Queste croci sollecitano tutti i sensi, sensibilizzando le persone all’immigrazione, poiché commuovono (muovono insieme) storie affettive di esilio e marginalità. Non solo spingono all’azione ma “seducono”: specialmente contro quelle politiche che innalzano muri o rafforzano quelli esistenti (Radio Vaticano 2016). Ciò accade perché esse rappresentano tracce materiali intrise di una forza che entra in risonanza con la traccia per eccellenza: il corpus verum (il vero corpo) di Cristo. Attraverso il contatto, il potere divino di Cristo viene distribuito tra la vita della carne e la vita del gregge (Rivera 2015: 50; Santer 2016: 11).
L’emergenza, la circolazione e la “museificazione” delle croci di Lampedusa che Francesco ha messo in moto (portatela ovunque) sono indicazioni del fatto che queste croci costituiscono materialità politiche ed estetiche che rendono visibile l’invisibilità della sofferenza. Traendo la loro forza da un originale evento-tattile avvenuto a Lampedusa, le croci combinano, all’interno di un mondo immanente, una comprensione contemplativa di Dio e un orientamento sensoriale affettivo, il cui risultato diventa una passione per il – e in un – passare all’atto. In un’intervista con Antonio Spadaro, noto gesuita e direttore del giornale La Civiltà Cattolica, Papa Francesco (2013b; mio corsivo) spiega:
«Dio lo si incontra nella brezza leggera percepita da Elia. I sensi che ritrovano Dio sono quelli che Sant’Ignazio chiama i “sensi spirituali”. Ignazio chiede di aprire la sensibilità spirituale al fine di incontrare Dio al di là di un approccio puramente empirico. È necessario un atteggiamento contemplativo: è sentire che si va per il buon cammino della comprensione e dell’affetto nei confronti delle cose e delle situazioni».
Eppure sono sempre croci, croci cristiane che sottolineano tensioni paradossali tra molte fedi e uno spazio nazionale “secolare” (sostenuto dal Cristianesimo) in condizioni di migrazione (forzata) e di mobilità – persone prive di documenti – attraverso il Mediterraneo. Al pari delle storie dei Gesuiti – richiamando qui la posizione di Gramsci – anche queste croci sfidano la tendenza (dello Stato italiano) a privilegiare lo jus sanguinis rispetto allo jus soli, rappresentando un richiamo ad accogliere il diritto di cittadinanza oltre la linea di discendenza, in direzione dei diritti acquisiti per nascita o per aver vissuto sul luogo in cui ci si trova.
Queste tensioni devono essere lette, attraverso la trasmissione di affetti di Francesco, in quanto forze tangibili, per cui, come sostiene Brennan (2004: 3), «the emotions or affects of one person, and the enhancing or depressing energies these affects entail, can enter into another». Gli affetti di Papa Criollo non sono la descrizione di sentimenti che emanano da un Sé autonomo o, per usare le parole di Povinelli (2006: 3–4), un Sé quasi autoprodotto, un Sé papale “autologico”. Come spiego di seguito, sono invece forze trasmesse, attraverso eventi mediatici, che si coalizzano intorno al tocco papale. Mentre un tocco suggerisce intimità, come evento mediatico può anche implicare la distanza (Immergut e Kosut 2014: 280). Papa Francesco (2017a) chiede un’esperienza tattile di Gesù e un “abbraccio” della sua presenza:
«Con il vostro impegno quotidiano, voi ci ricordate che Cristo stesso ci chiede di accogliere i nostri fratelli e sorelle migranti e rifugiati con le braccia, con le braccia ben aperte. Accogliere proprio così, con le braccia ben aperte. Quando le braccia sono aperte, sono pronte a un abbraccio sincero, a un abbraccio affettuoso, un abbraccio avvolgente, un po’ come questo colonnato in Piazza che rappresenta la Chiesa madre che abbraccia tutti nella condivisione del viaggio comune».
Francesco ha tenuto i bambini tra le braccia incurante degli avvertimenti della sicurezza, ha lavato i piedi dei prigionieri durante il Giovedì Santo [6], ha fermato la papamobile per incontrare la folla e gli è stato restituito l’abbraccio da un gruppo di suore di clausura che quasi lo hanno “mangiato” (nelle parole del cardinale Crescenzo Sepe) durante una visita al Duomo di Napoli nel 2015. La mobilitazione di Criollismo da parte di Francesco è la mobilitazione di una storia d’inclusione ed esclusione; in questo senso, il suo papato sta producendo una forma di politica affettiva, una politica di seduzione in azione, qui in particolare sulla migrazione di persone prive di documenti.
Dalla elezione di Papa Francesco, le condizioni in cui versano i migranti di tutto il mondo e le riverberazioni di queste condizioni sono punti di contesa all’interno della Chiesa Cattolica Romana. La catechesi promossa da Francesco sui migranti ruota attorno a quattro auspicabili condizioni: (1) accogliere migranti e rifugiati attraverso canali legali e sicuri; (2) proteggere lo status legale e la dignità di queste persone nei loro Paesi di origine e di arrivo; (3) promuovere pratiche che sostengono la dignità di tutti e la coltivazione del potenziale umano «in tutte le dimensioni che compongono l’umanità voluta dal Creatore»; e, infine, (4) ispirata all’espressione di Giovanni Paolo II, creare opportunità di arricchimento, a partire dalla migrazione, basate non solo sui processi di assimilazione, ma anche sulla scoperta del “segreto” riportato in vita, attraverso i migranti e i rifugiati, che contribuirà a plasmare la società, rendendola maggiormente «un riflesso dei doni sfaccettati di Dio agli esseri umani» (Papa Francesco 2018; cfr. Papa Giovanni Paolo II 2004).
Nonostante la chiarezza di queste condizioni, rimangono profonde tensioni che attraversano la Chiesa Cattolica Romana in merito alla migrazione di persone prive di documenti in Europa. Una parte della Chiesa considera la migrazione sulla base di un approccio comunitario e contestuale – dignità umana per tutti, un chiaro respingimento di forme violente di governamentalità e un interesse nei confronti delle culture migranti. L’altra attinge alla teologia per i diritti umani dei migranti, in un’apparente comprensione pre-culturale universale degli esseri umani che, è in definitiva, fondamento della civiltà e dei valori europei (cristiani). Quest’ultimo orientamento teologico, sostenuto in particolare da Papa Benedetto XVI e dai suoi seguaci, vede i migranti sotto la luce di una humanitas cattolica. Tale humanitas richiede una presupposta tradizione universale che pensa, in modi non esaminati e problematici, una nozione specifica di famiglia etero-normativa (ricongiungimento familiare) come motivo e telos della migrazione.
È attraverso l’articolazione contemporanea di una humanitas cattolica che la storia e il significato di un papa Criollo appaiono più chiaramente. In seguito all’incontro del quindicesimo secolo con il Nuovo Mondo, una tensione tra Identità e Alterità è stata rafforzata da una comprensione della razza che ha modellato l’appartenenza alla categoria degli umani (humanitas) in un attributo apparentemente inclusivo, ma in realtà esclusivo. Il continuo impatto ideologico di questa humanitas cattolica nel XXI secolo mostra un attaccamento inquietante alle radici cristiane immaginate dal mondo occidentale che rimane al centro della Chiesa Cattolica Romana. Il rifiuto esplicito di Francesco a un attaccamento populista – una radice cristiana che esclude la visione del mondo fondamentalmente eurocentrica, abbracciata da altre fazioni della Chiesa – si allinea con il suo status di papa Criollo e gesuita. In effetti, lo sforzo di Francesco teso a riformulare i dibattiti della Chiesa sull’immigrazione, l’ospitalità e l’appartenenza, lo hanno reso più un sovvertitore che un antagonista agli occhi di quelle fazioni della Chiesa che considerano il discorso universalizzante della humanitas cattolica e la visione restrittiva dell’immigrazione europea non cristiana – che questo apparente universalismo ha storicamente nascosto – come ancora vitale per l’espansione della Mater Ecclesia.
Questo elemento di rottura apportato da Francesco deve essere analizzato come indice delle forze affettive di un “Ritorno Atlantico” – un termine che io utilizzo per descrivere il processo stratificato e ambiguo di ritorno di persone, idee, e cultura materiale dalle Americhe all’Europa (in particolare, il Vaticano) che caratterizza il Cattolicesimo nel ventunesimo secolo [7]. Tale Ritorno è un campo di forza, con alcuni intrecci atlantici di storie, mobilità e materialità trasmesse affettivamente nello spazio, e pertanto vive nel presente. Esso prende forma attraverso ansie consolidate di conversione che la Chiesa cattolica ha affrontato dal quindicesimo secolo, riapparse nel ventunesimo secolo come inversione inquietante del progetto di piena conversione delle Americhe. Il Ritorno produce varie e contrastanti forme di affezione alla Chiesa cattolica “universale” – attaccamenti che si avvalgono e allo stesso tempo sfidano la nostalgia per un impero cristiano (Napolitano 2016).
L’ambiguità del Ritorno Atlantico ci consente di concentrarci su Papa Francesco non semplicemente come un Criollo nel Nuovo Mondo, ma, anche, come un “creolo decreolizzatore” che nasce da ciò che W. E. B. Dubois (1994) descriverebbe con l’espressione “doppia coscienza”, in questo caso in movimento e confermata da una seconda generazione di migranti rimpatriati [8]. Il carisma di Francesco non è solamente il prodotto del conflitto di due modi di essere – uno che ha pregiudicato il campo per l’auto-comprensione dell’altro – ma è anche l’indice di un ritorno al centro cattolico di storie affettive conservatrici attraverso un movimento rivitalizzante delle periferie. È da questa prospettiva sulla doppia coscienza che la complessità razziale e ambigua di Papa Francesco diventa più chiara, in modo speciale se fa riferimento al suo orientamento in merito a questioni relative al genere e all’essere indigeni “a casa” nelle Americhe.
Carisma Criollo e Domus Divisa
La mobilitazione degli affetti di Papa Francesco si esplicita in quanto articolazione di carisma, affetto e liturgia (come forma di officium religioso, con un significato che fa riferimento all’essere investito in un’opera liturgica). La classica lettura del carisma di Max Weber (1968: 1115) presuppone che le persone seguano un leader carismatico in risposta a una spinta “interna”, non razionale. Colui il quale possiede il carisma, nell’ipotesi di Weber, investe le persone di una sorta di benessere che può sfuggire socialmente «alle norme tradizionali e razionali» (ibid.). Secondo Taves, tuttavia, una forza carismatica risiede anche nella capacità di dare vita a qualcosa «che si pensa non sarebbe potuto accadere altrimenti» (Taves 2014: 89). Per Taves, si tratterebbe più di qualcosa che s’instaura tra le persone ed è presente nello spazio che di una proprietà appartenente a un individuo o a un gruppo. Direi che, se uno degli elementi del carisma è «la capacità di produrre un effetto che non richiede consapevolezza» (ibid.: 84), allora il carisma lo si può studiare come forma di affetto spazializzato.
Se l’affetto è il risultato dell’intensificazione carica di un gesto che produce un «evento e una sensazione» (K. Stewart 2007: 1) – per esempio, nel mondo papale, una corona di fiori benedetta e lanciata sulla superficie del mare – l’attenzione posta sulla circolazione, trasmissione e distribuzione del carisma papale in chiave affettiva fa luce sul potere della Chiesa cattolica di «strutturare forme sociali» attraverso l’affetto (Shaefer 2015: 52). Oltre a chiederci se Papa Francesco possegga o emani una leadership carismatica o sacerdotale, dovremmo studiare la qualità degli effetti carismatici relativi alla mobilitazione e trasmissione di affetto, guardando in particolar modo alla nascita liturgica di nuovi “oggetti” devozionali come la croce di Lampedusa e alla circolazione mediatica degli eventi tattili di tali croci (portatela ovunque). Questa materialità della reliquia dà delle indicazioni sull’intervento politico papale circa le condizioni della contemporanea migrazione forzata di persone sprovviste di documenti, attribuendole visibilità e sollecitando effetti politici. Ma ciò avviene, potenzialmente, a spese dell’amore della Chiesa in quanto “famiglia unita”, cosa che spiegherò in questa sezione finale.
Per resistere alla tendenza di uniformare la ricerca sugli affetti, è necessario combinare un’attenzione al potenziale rizomatico divenire degli affetti e lo studio della “verticalità” della soggettività, vale a dire le condizioni storiche e politiche che quest’ultima presuppone (Navaro-Yashin 2009: 9). La sovranità affettiva che Francesco sta mettendo in atto tenta sia di “decentrare” la Chiesa cattolica sia di “riformare” la Curia Romana. La sua governance affettiva consiste nell’accogliere, incorporandola, la figura del pastore che è vicino al suo gregge. Durante la Messa del Crisma del 2013 svoltasi nella Basilica di San Pietro, Francesco ha esortato in maniera appassionata gli altri sacerdoti: «Questo vi chiedo: essere pastori con “l’odore delle pecore”, pastori in mezzo al proprio gregge e pescatori di uomini» (Papa Francesco 2013a). Un modo sensoriale di rendere Dio “reale” – decisamente diverso da quello del suo predecessore.
Il richiamo, da parte di Francesco, a eventi tattili affettivi e alla loro conseguente politica di seduzione costituisce un orizzonte costante per la Chiesa cattolica – il formarsi e il riformarsi della Mater Ecclesia “orizzontale” o la Madre Chiesa. L’“amore” della Madre Chiesa ha una storia teologica all’interno della Chiesa e, benché sia uno dei fondamenti della Chiesa, reca con sé un pericolo potenziale. Papa Francesco è percepito da alcuni membri della Chiesa come un distruttore della Chiesa dall’interno e, da altri, come un suo riformatore in modi importanti e attesi da tempo. L’amore della Mater Ecclesia si trova nella scomoda intersezione tra una genealogia immaginaria di una Chiesa universale (come nelle Humanitas cattoliche) e la responsabilità papale di riformarla. In questa lettera del papato, sostengo che questo amore diventa, così, terreno di contese, ansie e interruzioni, quando animato dal Criollismo di questo Papa.
All’interno di un segmento della Chiesa cattolica, Francesco è percepito come un trickster: non come un complice della nuova unità nazionale, ma come un ‘reietto’, l’istigatore di una domus divisa (casa divisa), di un’interruzione nella linea di discendenza di sangue [9]. C’è stata una rigida campagna, proveniente, in particolar modo, dall’interno della Curia Romana, per ostacolare e indebolire l’impatto delle riforme proposte da Francesco. Due esempi emergono in particolare. Il primo riguarda una lettera scritta da quattro cardinali tradizionalisti – Walter Brandmüller, Raymond L. Burke, Carlo Caffarra, e Joachim Meisner – e sostenuta dal cardinale tedesco Müller sull’interpretazione dell’“amore” e sulla natura della famiglia nell’esortazione apostolica di Francesco Amoris Laetitia. La lettera mette in discussione la mancanza di chiarezza di Francesco in merito al tema dell’apertura ai divorziati del rito dell’Eucaristia. Papa Francesco, più che affermare una posizione dogmatica centralizzata, rimette la decisione ai sacerdoti locali (v. Petin 2016). La critica dei cardinali ruota attorno alla questione della catechesi della famiglia, la cui posta in gioco è resa chiaramente nell’intervento del cardinale Müller del marzo 2016, quando descrive Papa Francesco nel modo seguente: «Papa Francesco non è un “teologo professionista”, ma è stato in gran parte formato dalle sue esperienze nel campo dell’impegno pastorale, molto diverso qui da noi [in Occidente]» (citato in Hickson 2016). Questa lettera di risposta ad Amoris Laetita è una contestazione riguardante la natura dell’evento intimo dell’amore nella formazione familiare cattolica (Povinelli 2006). I cardinali (autori della lettera) puntano il dito contro un’ambiguità incombente che Francesco introdurrebbe nella struttura del Vaticano. Papa Francesco, a causa del suo Amoris Laetitia, è stato infatti descritto dal frate cappuccino americano Thomas Weinandy come «creatore di confusione». Weinandy sostiene che la posizione del Papa sia quella di «censurare e addirittura prendere in giro» coloro che hanno una visione tradizionalista del matrimonio, descrivendoli come «farisei, lanciatori di pietre, personificanti un rigore privo di compassione» (citato in Hallett 2017).
Una domus divisa – una casa divisa – è temuta da queste fazioni che la considerano il prodotto di una spinta al decentramento dovuto all’impulso federatore di Francesco. Il Papa è rappresentato come un pastore, capace di mettere in atto, affettivamente, una rinnovata evangelizzazione delle periferie e dei confini, ma non come un vero teologo avente il sommo potere dogmatico di comandare la Chiesa cattolica e capace di dare un ordine alla sua legge canonica. Francesco è inoltre percepito come un Papa che aprirà le porte alla migrazione indebolendo la humanitas cattolica che privilegia invece le radici culturali europee e cristiane.
Niente potrebbe esemplificare meglio quest’aspetto della marcia di preghiera cattolica, intitolata “Il rosario alle frontiere”, svoltasi in Polonia nell’ottobre 2017. Tenutasi nel giorno della commemorazione della battaglia navale di Lepanto del 1571, la manifestazione ha spinto migliaia di persone a percorrere i confini nazionali polacchi in difesa della “Polonia Cattolica” contro l’“Invasione Islamica” (Berendt e Specia 2017). Anche Francesco, in quanto papa criollo, fa appello alla relazione instaurata tra sangue, suolo e fede, ma lo fa in maniera molto diversa rispetto a quest’ala della Chiesa. La promozione di una politica della seduzione e la ricca ambiguità di un posizionamento papale criollo è ciò che rafforza la capacità di Francesco di reindirizzare le storie di violenza e di rinnovare il potere di una diplomazia etica papale. Questa è un’etica che ci invita anche a confrontarci con l’imprevedibilità di Dio come vettore di trasformazione sociale e individuale grazie a una agency distributiva di Dio (Scherz 2018: 108-109).
Nella sua visita del 2017 in Colombia, Francesco ha fatto il punto su una teologia della riconciliazione che attraversa anche il corpo delle donne (pagane). La sua affermazione sul sangue “pagano” di Cristo (Papa Francesco 2017; mio corsivo) è stata prontamente attaccata da diversi collegi in quanto espressione di tendenze potenzialmente eretiche (e, nella terminologia criollo, da trickster) di Francesco:
«La menzione delle donne – nessuna di quelle evocate nella genealogia appartiene alla gerarchia delle grandi donne dell’Antico Testamento – ci permette un accostamento speciale: sono esse, nella genealogia, quelle che annunciano che nelle vene di Gesù scorre sangue pagano e ricordano storie di emarginazione e sottomissione. In comunità, dove tuttora manifestiamo atteggiamenti patriarcali e maschilisti, è bene annunciare che il Vangelo comincia evidenziando il ruolo di donne che hanno tracciato una tendenza e hanno fatto storia».
Una parte della Curia romana – e, più in generale, la Chiesa che rappresenta – vede ciò che Francesco ha messo in moto come una “infiltrazione” del potere delle periferie all’interno della “solidità” del centro, testando l’elasticità del corpo/Ecclesia. Come ha notato Michel De Certeau (2000: 6), studiando le possessioni del diciassettesimo secolo a Loudun e le accuse contro il carismatico confessore Gesuita del convento femminile, dichiarato eretico dalla Chiesa e bruciato sul rogo: «Le istituzioni ecclesiastiche, se in subbuglio, attraverso le spaccature lasciano passare al loro interno – e anche trasudano – alcuni sintomi religiosi: una miscela, per così dire, dei più arcaici e radicali elementi… Questi sintomi vengono, poi, sospettati e frequentemente accusati di costituire al contempo un’‘eresia’ sociale e dottrinale» (mio corsivo). Papa Francesco non è un eretico, ma è sistematicamente additato come ‘diverso’ da una parte della sua stessa Chiesa e specialmente dal suo centro di potere metropolitano. Ciò, chiaramente, non rappresenta una novità nel rapporto tra il papato e l’ordine dei Gesuiti che ha una lunga storia di allineamenti e di contrasti con le direzioni papali.
Francesco, primo papa gesuita, è un esempio ambivalente di un Ritorno Atlantico dalle Americhe al cuore dell’Europa cattolica. Il suo papato apporta nuovo sangue al Cattolicesimo e un nuovo impegno evangelico nei confronti delle periferie. Ma la forza del Ritorno che esso rappresenta mina anche forme stabilite di riproduzione ideologica e istituzionale all’interno del centro teologico della Chiesa cattolica, così come la sopravvivenza di una parte dell’apparato di governo del Vaticano. L’ansia in merito alla condizione della domus divisa in seno alla Chiesa cattolica non è nuova, ovviamente. Tuttavia, un’analisi di Papa Francesco come Papa Criollo consente un legame più solido con la longue durée di storie affettive e razziali (con i loro effetti dissolventi e coagulanti) che Francesco incarna e promuove attraverso una politica carismatica, seppur contestata e seduttrice, particolarmente evidente se considerata attraverso il problema dell’immigrazione. Nondimeno, la vicinanza affettiva di Francesco ai fedeli e la sua distanza dalla gerarchia della Curia romana è inoltre rappresentativa di una storia gesuita – caratterizzata dalle ingerenze dei missionari appartenenti a questo ordine religioso sulle vite dei nativi dapprima e, poi, sugli Stati-nazione di recente formazione nelle Americhe – realizzatasi attraverso la riproposizione della loro élite in chiave educativa. In questo articolo, tuttavia, posso soltanto indicare una direzione di complessità ulteriore: la relazione tra l’essere gesuita e l’essere Criollo, di cui Papa Francesco è un esempio. Entrambe le condizioni, in seno una storia atlantica, hanno rappresentato una agency e una minaccia alla riproduzione del cattolicesimo, all’autorità papale e alla formazione dello Stato-nazione.
Contrariamente al suo predecessore Papa Benedetto XVI, Francesco ha infatti aperto una finestra all’accettazione delle persone omosessuali e lesbiche in una conferenza stampa, famosa in tutto il mondo, tenuta durante un volo di ritorno da una visita, del 2013, in Brasile: «Se qualcuno è omosessuali, è in cerca del Signore e possiede una buona volontà, chi sono io per giudicarlo?» (Papa Francesco 2013c). Tuttavia, come ho sottolineato all’inizio di questo articolo, Francesco si è anche schierato con una parte della Chiesa, attaccando la cosiddetta ideologia gender, criticandola per aver promosso identità intime, radicalmente diverse dalla differenza biologica tra maschio e femmina. La “ideologia del genere” è una retorica, nata negli anni Novanta con la nuova evangelizzazione di Giovanni Paolo II che collega la teologia con una particolare lettura delle scienze naturali, contraria alle teorie sociali di genere e della riproduzione sessuale (Garbagnoli 2016: 189). La mossa retorica re-inscrive il genere all’interno di una differenza anatomica, demonizzando le teorie di genere (descritte come un prodotto intellettuale e non delle persone comuni).
Questa ideologia affonda inoltre le radici in un immaginario cattolico impaurito da una religione premoderna, irrazionale e popolare, così come da un processo di “femminizzazione” proveniente dalle società contadine del Mediterraneo (cattolico) (Favret-Saada 1980; Norget et al. 2017). Gli elementi centrali di questo immaginario cattolico pre-moderno includono una agency materiale mai completamente risolta nella divina provvidenza – pietre, acque e simili (Cohen 2015: 13) e la loro importanza materiale nell’attuale panorama politico (Barad 2017) – ma, anche, una paura infinita dell’eresia. La battaglia contro l’ideologia gender condotta attualmente, con convinzione, dai fedeli nelle Americhe e in alcune regioni europee – evidente in forma spettacolare nel rogo di un’effige di Judith Butler (ritratta come ‘strega’) a San Paolo (Bizerra 2017) – è un esempio calzante di alcuni capovolgimenti riguardanti una storia affettiva dell’eresia, così come la mancanza di una sua condanna è effetto di una doppia coscienza papale-criollo. Il conflitto riguardante l’ideologia gender – coniugato con specifici orientamenti teologici, pastorali ed evangelici – ha aperto una frattura particolarmente forte tra il fronte “pro” e quello “anti” gender in merito alla naturalizzazione della famiglia come “baluardo di civiltà”, e alla sua concezione come nucleo da opporre al male in società. Le teodicee sono, in effetti, parti costitutive di politiche affettive intime e oggetto di controversia all’interno – e oltre – la domus divisa, intanto che i temi relativi all’abuso sessuale e al celibato del clero perseguitano un papa Criollo [10].
Ho presentato qui un’analisi dell’impatto avuto dal papa sulla «sacra vitalità della società» (Muehlebach 2013: 458), in parallelo a una chiara evidenza del processo di ‘razzializzazione’ di Francesco stesso, incentrata su una prospettiva applicata al suo diffuso carisma affettivo. Questo carisma papale è stato orientato, più o meno con successo, verso un’azione politica che si concentra su una nuova visibilità del fenomeno dei migranti privi di documenti e sul tema dei poveri (Napolitano 2017). Allo stesso tempo, però, Francesco porta con sé aspetti delle storie conservatrici del Criollismo nelle Americhe che, in nome di una sovranità del suolo e di ciò che vi abitava, respingevano (e reprimevano violentemente) le legittime rivendicazioni dei nativi.
Francesco ha mostrato un allineamento di tipo conservatore alla lotta contro la “ideologia del gender” e, in certi momenti della sua vita, un’assenza di sostegno pubblico alle lotte degli indigeni in Argentina. Durante una visita in Cile, nel gennaio 2018, Francesco non ha soltanto evitato di prendere posizione contro il presunto molestatore sessuale, il vescovo Barros Madrid, ma ha in realtà disconosciuto le affermazioni delle vittime – ritrattando questa posizione, pochi mesi più tardi, dopo un approfondito accertamento (Horowitz 2018). Non si è scusato nemmeno con coloro i quali hanno sofferto abusi nelle scuole residenziali cattoliche canadesi, sebbene questo gli sia stato chiesto ripetutamente. Come indice di un Ritorno Atlantico, Francesco reca con sé una doppia coscienza, che è al tempo stesso emancipatrice e conservatrice, mentre il suo Criollismo è permeato dalla figura spettrale del nativo (nazionale). Se per Giovanni Paolo II il rinnovamento della Chiesa avveniva attraverso lo Spirito Santo e una chiara agenda carismatica, per Papa Francesco il rinnovamento è decisamente situato, teologicamente e geopoliticamente, in quei margini della Chiesa che stanno diventando il nuovo “vero” centro – una prospettiva gesuita relativa al compimento del mandato del Concilio Vaticano Secondo nel ventunesimo secolo.
Ciò che ho qui delineato, quindi, è il modo in cui questo Papa viene percepito dal suo gregge e dalla Curia romana, e come un attacco alla sua forma di governo della Chiesa sia profondamente intriso di una prospettiva razziale. Se è così, allora la capacità del governo della Chiesa cattolica romana di contenere scismi – ciò che Carl Schmitt (1996) definisce complexio oppositorum – dovrebbe inoltre essere studiata attraverso quelle continuità stabilite tra il carisma papale e la lunga storia affettiva di razza nelle – e dalle – Americhe. Se Francesco come Criollo – trickster/eretico, Papa riformatore così necessario – mette in atto una politica di seduzione realizzata attraverso un’ambigua storia di Criollo, allora uno studio antropologico della Chiesa cattolica dovrebbe focalizzare l’attenzione sulle implicazioni teopolitiche degli elementi affettivi e, in tal modo, forgiare «nuove traiettorie per l’immaginario intellettuale» (Navaro 2017: 212; vedi anche Elden 2010). Il teologico partecipa in effetti del politico, forse in forme inaspettate, tuttavia ancora da raccontare.
Dialoghi Mediterranei, n. 42, marzo 2020
[*] Traduzione dall’inglese di Maura Scimeca
Note
[1] Il concetto di razza è qui utilizzato nella sua accezione di razzializzazione, che nelle Americhe è un termine che connota non solo chi e cosa è stigmatizzato verso ciò che è considerate normativo, ma si riferisce anche ad una storia coloniale che, ancora nella presente, marca forme di delegittimazione, violenza e soggettivazione della persone stigmatizzate e delle loro condizioni di vita.
[2] Lo studio degli affetti, e il susseguente ‘affective turn” nelle teorie critiche letterarie e sociali è un campo di studi che è nato sulla scia del lavoro di Raymond Williams sulla ‘strutture dei sentimenti’ (Williams, Raymond. The Long Revolution. Broadview Press, (1963) 2001). Questi studi analizzano sistemi di circolazione di forze che attraversano corpi, spazi e sono intessuti nella storia contemporanea e nella politica economica. Essi vengono trasmessi attraverso la socialità, ma sono pre-sociali e non fanno parte di linguaggi codificati e riconosciuti. Gli affetti “divengono” e hanno sia un carattere di ordinaria incarnazione e di potenziale innovazione come pure di assoggettamento a poteri costituiti. Saggi importanti sugli affetti sono molteplici, ma per alcuni testi seminali e iniziatori del dibattito vedi: Berlant, Lauren. Cruel Optimism. Durham and London: Duke University Press, 2011. Stewart, Kathleen. Ordinary Affects. Durham, NC and London: Duke University Press, 2007.Massumi, Brian. Parables for the Virtual: Movement, Affect, Sensation. Durham, NC, and London: Duke University Press, 2002
[3] Il primo è un attento esame teso a stabilire una legittima equivalenza tra diritto canonico e i testi che le Conferenze episcopali vogliono promuovere. Il secondo è solo un’approvazione positiva della fedeltà e della congruenza di un testo a una scrittura latina originale.
[4] Per un approfondimento illuminante sulla formazione multiforme del Mediterraneo e sul rapporto tra sovranità e ospitalità, vedi Ben-Yehoyada (2017) e Shryock (2012).
[5] Questo contatto è una forma di visione tattile: una modalità del tatto che passa attraverso la carne e teologicamente della incarnazione. Ciò produce un decentramento del primato della visione oculare.
[6] Nel 2015, papa Francesco ha lavato i piedi dei prigionieri nel carcere di Rebibbia, un carcere che ospita oltre il 90 percento dei detenuti non italiani (RaiNews 2015).
[7] Esiste qui un legame tra teologica politica e filosofia della storia che passa attraverso un impegno etnografico che posso solo indicare ma non sviluppare adeguatamente in questo saggio.
[8] Desidero ringraziare Charles Stewart per avere suggerito questa prospettiva di analisi.
[9] Qui il riferimento è alla mobilitazione teopolitica del Vangelo di Marco 3: 24–25, dove Gesù avverte che una casa/chiesa divisa non potrà resistere.
[10] Per mancanza di spazio, devo tralasciare le considerazioni relative al susseguirsi degli abusi sessuali che affliggono la Chiesa cattolica.
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Valentina Napolitano, docente di Antropologia e Connaught Scholar all’Università di Toronto, si occupa di Studi di Critica del Cattolicesimo, frontiere e migrazioni, con particolare interesse per l’antropologia delle tracce e per il lavoro di Michel De Certeau. A partire dalle ricerche sul campo condotte in Messico, California, Italia e nel corridoio Detroit/Windsor, ha pubblicato articoli, numeri speciali e due monografie: Migrant Hearts and the Atlantic Return: Transnationalism and the Roman Catholic Church (2016) e Migration, Mujercitas, and Medicine Men: Living in Urban Mexico (2002). Ha inoltre pubblicato un’edizione co-curata: Anthropology of Catholicism: A Reader (2017). Attualmente scrive di teopolitica e sulla relazione tra antropologia e teologia politica.
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