di Giuseppe Modica
Una mostra da poco inaugurata a Roma, città nella quale il siciliano Francesco Trombadori ha avuto un ruolo centrale nel dibattito artistico nazionale sia come artista ma anche come fine scrittore d’arte, ci riconduce a quella felice stagione ricca di fermenti culturali dei Caffè e delle Riviste d’Arte e di Letteratura che vedeva insieme scrittori, poeti, critici ed artisti. Proprio negli anni trenta il Maestro scrive nella rivista “Circoli” come critico d’arte avendo come collaboratori Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Giacomo Debenedetti, Giuseppe Ungaretti, Marcello Gallian, Alberto Savinio, Umberto Saba, Romano Bilenchi e Rosso di San Secondo
Ci riferiamo a quei circoli culturali che, vivendo la modernità del nuovo secolo dentro le ragioni originarie della tradizione, per organizzare un nuovo linguaggio non frantumano il cubo prospettico, ma si interrogano sulla contemporaneità e sulla modernità guardandosi dentro, indagando la “tragedia dell’infanzia” (de Chirico), scoprendo stupore, mistero ed enigma. Si tratta di un’altra via della modernità, più segreta e privata, che nutre lo sguardo di nostalgia e di memoria, ma lo orienta anche negli abissi della psiche, dell’inconscio, svelando, secondo le varie personalità, incanti poetici, oppure feroci turbamenti, disagi esistenziali, angosce inquietanti, disorientamento e smarrimento.
Un’area che in maniera non uniforme, con specifiche differenze e varie sfaccettature trova però un non trascurabile riscontro internazionale. Partendo dalla mitica Terza Saletta del Caffè Aragno nel primo decennio del Novecento con la rivista d’arte e letteratura Il Convito, nell’immediato dopoguerra 1918-1921, ecco che incontriamo la rivista di Mario Broglio Valori Plastici che annovera l’adesione, tra gli altri, di Alberto Savinio, Giorgio de Chirico, Carlo Carrà, Arturo Martini e Giorgio Morandi. La rivista rappresenta l’inizio ma anche il punto di riferimento di quella stagione artistica detta da Bontempelli Realismo Magico, che vide protagonisti autori come lo stesso Trombadori, Donghi, Casorati, Cagnaccio di San Pietro, Mario ed Edita Broglio. Non mancano i parallelismi ed echi riscontrabili oltre l’area nazionale in Germania con la Nuova Oggettività che si caratterizza con poetiche di intensa drammaticità e feroce indagine critica sociale con autori come Christian Schad, Otto Dix, George Grosz.
A veder bene troviamo certe analogie e corrispondenze anche con alcuni maestri americani come Edward Hopper, Charles Sheeler, Georgia O’Keeffe, Ivan Albright fino ad arrivare alla generazione più giovane di George Tooker
L’essenziale verità delle cose è il titolo della bella retrospettiva a cura di Giovanna Caterina De Feo che la Galleria Comunale d’Arte Moderna di Roma dedica al Maestro Francesco Trombadori dopo l’ultima della Accademia di San Luca a cura di Maurizio Fagiolo che risale a più di trenta anni fa. Il titolo è azzeccato ed in maniera fulminante definisce il senso profondo della pittura del Maestro siciliano, singolare interprete di quell’area di ricerca del Realismo Magico che – come abbiamo detto – si muoveva attorno a Massimo Bontempelli con autori della rivista Valori Plastici come Mario ed Edita Broglio ed Antonio Donghi.
È lui stesso, in uno dei suoi scritti, a chiarirci il senso della sua pittura: «L’arte, moderna come antica, è solo quella che riesce ad esprimere l’essenziale verità delle cose con profonda umanità e spiritualità» e l’arte moderna non è certamente quella che rispecchia in modo formale e convenzionale il nostro tempo.
Il Maestro di Siracusa (nei suoi quadri giovanili si firmava Franz di Ortigia) ma romano di adozione, è pittore di un linguaggio di incantata essenzialità che nasce da una attenta osservazione del dato reale, dalla compenetrazione della con- sistenza plastica e tattile delle cose e del corpo per poi trasferirli in una dimensione altra che è visione-apparizione magica. Valori minimi ed essenziali giocati su una gamma di grigi dalle impercettibili variazioni lungamente inseguiti e ricercati, impastati di rosa, di azzurro e di ocra.
Un percorso il suo in sintonia, anche se con soggetti tematici diversi, con quel grande isolato del Novecento che è Giorgio Morandi ma certamente anche con i già citati compagni di strada del Realismo Magico: Donghi e Broglio. Una sinfonia di grigi perlacei ostinatamente ricercati ed una luminescenza stupefatta ed incantata sono caratteristiche costanti di questa pittura che filtra e coniuga l’emozione con il rigore e la ragione.
Una strutturazione formale attenta, ben studiata ma felicemente semplificata genera una spazialità nuda, sospesa, armonica ed intrigante. Qui, l’assunto pierfrancescano quattrocentesco di forma-colore-luce sembra trovare una felice versione in una novecentesca reincar- nazione.
La memoria dell’antico, la tradizione qui nella sua accezione astratta e severa, senza i compiacimenti del tradizionalismo di certo novecentismo, produce una epifanica apparizione di corpi, di cose e di paesaggi che coniugano insieme imma- nenza, concretezza fisica e sorprendente trasposizione metafisica.
Lo aveva già ben detto Maurizio Fagiolo, molti anni fa, che Trombadori, ben lontano dall’essere un pigro e compiaciuto imitatore della natura, è un sofisticato regista del linguaggio pittorico, indagatore di ineffabili finezze, di finzioni nella finzione, in cui i frammenti di realtà e di memoria entrando in scena nella sua pittura diventano una sorta di “teatro nel teatro”.
E qui a proposito di teatro un chiaro riferimento va a quel maestro di “sottili riflessioni” che è stato Luigi Pirandello, ma nella pittura anche alle sorprendenti “apparizioni” del Grande Metafisico che Trombadori frequentava ed ammirava e che annovera fra i suoi amici.
Per concludere direi che nella mostra si possono vedere sostanzialmente tre nuclei precisi: ritratti e quadri di figura anni 20-30, composizioni di natura morta anni 30 e paesaggi urbani romani anni 40 e 50.
I quadri di figura, ritratti e nudi femminili di impeccabile ma anche di impenetrabile bellezza sono opere di sobria armonia musicale. Diremmo oggi pittura colta, una classicità ed una singolarità inedita, lontanissima dalla retorica degli acca- demismi di maniera che in ogni epoca sono sempre in auge. Le composizioni di vanitas sono proprio delle “nature silenti” di grande finezza luministica, di arguta sottigliezza spaziale e sensualità cromatica: una circolarità magica, tra la presenza concreta dell’oggetto e la sghemba strutturazione geometrica dello spazio, genera ed innesca nella composizione una salutare ed armoniosa alternanza dinamica di rimandi.
I paesaggi romani sono visioni stupefatte di rara essenzialità: una originale angolazione dello sguardo genera uno straniamento metafisico dove il silenzio, il vuoto e l’assenza ci restituiscono brani di pittura di commovente verità e purezza. «Pur non essendo romano di nascita – si legge nel comunicato stampa – per Francesco Trombadori la capitale è fonte di ispirazione per molti dipinti, ma soprattutto luogo di aggregazione in cui insieme a scrittori, critici ed artisti partecipare all’intenso dibattito artistico e culturale, dando impulso alla creazione di mostre d’arte e a riviste d’arte e di cultura». Il percorso espositivo si chiude con i dipinti eseguiti dal 1950 al 1961, anni in cui i luoghi d’incontro erano il Caffè Greco o Rosati e Trombadori dipinge tra le altre opere la splendida Piazza del Popolo, la scenografica Trinità dei Monti e l’incantato Corridoio dei Papi, spazi e architetture immersi in una atmosfera sospesa e straniante.
Ogni sezione della mostra è corredata da un amplissimo patrimonio di materiali documentari provenienti dall’Archivio dell’Artista a Villa Strohl-Fern, oggi Casa Museo, un supporto illustrativo utilissimo per conoscere e capire la profondità dell’attività di critico che Trombadori svolse, dagli anni Venti, presso diverse testate di stampa nazionali.
Auguriamoci, come auspica Giovanna De Feo, curatrice della mostra ma anche nipote dell’Artista, che questa mostra dia un segnale positivo di speranza, dopo ormai tanti anni di pressante insipienza, di dilagante cinismo e di pervasiva superficialità, che nel mondo dell’arte si è accompagnata al degrado ed alla crisi globale del nostro Paese. Un cambiamento di rotta e di nuovo accostamento all’Arte che con rinnovata passione liberi lo sguardo da quel velo opaco e di becera ottusità per ricominciare a saper vedere con occhi più limpidi ed incantati.
Dialoghi Mediterranei. n.28, novembre 2017
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Giuseppe Modica, nativo di Mazara del Vallo, ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Firenze, nel 1986-87 si è trasferito a Roma, dove attualmente vive e lavora ed è titolare della cattedra di Pittura all’Accademia di Belle Arti. Autore “metafisicamente nuovo” occupa un posto ben preciso e di primo piano nella cultura pittorica contemporanea. Ha esposto in Italia e all’estero in prestigiose retrospettive e rassegne museali, apprezzato da critici come M. Fagiolo, C. Strinati, Janus, G. Giuffrè, V. Sgarbi e da letterati come L. Sciascia, A.Tabucchi, G. Soavi, M. Onofri, R. Calasso. Una mostra personale dal titolo La Luce di Roma, a cura di Roberto Gramiccia, è stata allestita nel 2015 presso la Galleria La Nuova Pesa di Roma. Sempre nello stesso anno ha esposto una personale sul tema della mediterraneità alla Galleria Sifrein di Parigi: La melancolie onirique de Giuseppe Modica. Ha recentemente partecipato, dal 22 settembre al 29 ottobre, ad una esposizione internazionale organizzata, con il patrocinio dell’Accademia Nazionale Cinese di Pittura, a Fenghuang, nel sud-est della Cina.
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