Nella Londra multi-etnica, citta-mondo e crogiuolo di etnie e tradizioni disparate, s’intrecciano le esistenze di tre immigrate profondamente dissimili tra loro eppure in qualche modo affini. Lamis è una profuga irachena cresciuta in Libano e approdata a Londra in seguito a un matrimonio combinato; una donna che è riuscita a sottrarsi allo stereotipo femminile a cui la propria provenienza culturale l’aveva condannata, a una vita matrimoniale infelice e agli obblighi di una casa-prigione rigidamente sorvegliata dall’invadenza della suocera. Amira è una prostituta marocchina eccentrica e spudorata, che ordisce una truffa finanziaria nei panni di una ricca principessa saudita per sentirsi finalmente accettata, ammirata. Infine Samir, donna libanese ingabbiata in un corpo maschile, sorta di nuova Princesa del memoir di Fernanda Farias De Albuquerque, che aveva già narrato l’inquietudine sofferta di una trans-gender.
Le storie sofferte di queste tre individualità sradicate e sovversive si alternano, si sfiorano e talvolta si sovrappongono nell’ultimo libro della scrittrice libanese Hanan El-Shayk dal titolo Fresco sulle labbra, fuoco nel cuore, uscito lo scorso marzo per Piemme edizioni: un romanzo dalla struttura polifonica, ma in cui probabilmente è la voce discreta e profonda di Lamis, con la quale il libro si apre e si chiude, a raccontarci con maggiore audacia e intensità il significato delle parole esilio, riscatto, rinascita, a parlarci del cammino tortuoso dell’integrazione e dei contraccolpi emotivi provocati dal delicato cortocircuito tra due mondi, il mondo arabo e quello inglese.
Lamis ha vissuto tredici anni a Londra continuando a sentirsi un’estranea, segregata in un microcosmo – quello del marito, della suocera, degli amici del marito – che ha scelto la chiusura come modalità di vita da condurre in un paese altro, rappresentazione di una parte della società araba che – per usare una metafora della scrittrice – vive con le «tende calate», continuando a osservare rigidamente abitudini e costumi delle proprie origini ed esorcizzando qualsiasi rischio di contaminazione.
L’impatto con la nuova cultura rappresenta, per la giovane donna, a un tempo fattore destabilizzante e richiamo attrattivo, se si considera che è la visione di un’opera lirica come la Carmen di Bizet, indubbio esempio di produzione culturale dell’Occidente, ad acuire il senso di insoddisfazione per la vita matrimoniale e a farle prendere una decisione drastica come quella del divorzio.
La parola libertà, da temine vuoto, chimera irrealizzabile, diviene improvvisamente concreta e a portata di mano: «La verità» – dirà Samir – «è che Londra è libertà, una libertà che si può respirare a pieni polmoni. Londra significa poter fare quello che vuoi, senza dover scatenare una guerra. Gli altri pensano ai fatti propri e ti lasciano libero, senza farti pesare il senso di colpa o la vergogna, e senza costringerti a ricorrere a una doppia vita, che alla fine porta solo tristezza e frustrazione».
Lamis sceglie di “aprire le tende”, ma a tale scelta consegue inevitabilmente un senso di profonda, spiazzante, alienazione: si ritrova nella «terra di nessuno della non-appartenenza»1, si sente un outsider, un’incompresa, segnata dalla stessa solitudine raccontata da una canzone dei Beatles, Eleanor Rigby: «All the lonely people/ Where do they all come from?/ All the lonely people/ Where do they belong?». Una canzone che ballava spensieratamente a Damasco, insieme agli altri profughi iracheni, senza capirne il significato: immagine suggestiva – quella di Lamis profuga quattordicenne mentre danza beata sulle note di una canzone inglese che parla di isolamento, di abbandono – da una parte rivelatrice di un divertente ibridismo culturale, dall’altra segno della sconnessione che si crea tra due culture a causa dell’incomprensione linguistica.
Intrappolata tra passato e presente, tra la seduzione della modernità e il senso di colpa per aver abbandonato la vita familiare, Lamis inizialmente identifica la propria brama di inglesità con una sorta di rinuncia all’appartenenza araba, che si concretizza in un improbabile programma scritto “a tavolino” con tanto di obiettivo finale («Questo paese diventerà il mio paese. La mia vita qui non sarà più a tempo») e comandamenti da rispettare: imparare bene l’inglese, smettere di mangiare cibo arabo, non truccarsi più adoperando il kajal. Come se si potesse smettere di essere arabi così, da un momento all’altro, come si smette di usare il kajal. Come se, sostituendo la shawarma2 con il fish and chips, ci si potesse sentire un po’ meno arabi e un po’ più inglesi.
L’incontro tra due culture verrebbe in questo modo ad assumere i connotati di un dissidio irriducibile: il dissidio tra una presunta identità di partenza e una altrettanto presunta identità di arrivo, imposta e non negoziabile, tra due mondi distanti tra cui si è chiamati a scegliere e che comporta inevitabilmente rinunce, evizioni, oblio. La conseguenza diretta non può che essere «una condizione molto simile a quella della schizofrenia: si crea un conflitto tra la persona che non possiamo più essere e la persona che non siamo ancora»3. Lamis appare come una «giocoliera» che tenta di maneggiare goffamente pluralità disparate, senza riuscire ad averne la piena padronanza. L’estraneità si declina innanzitutto nella forma dell’estraneità alla lingua inglese: la rabbia della protagonista per non riuscire a pronunciare la “r” «ingoiandola», proprio come fanno gli inglesi, rappresenta l’impossibilità di un annientamento totale della propria identità araba. Tale impossibilità da un lato fa sentire Lamis ai margini, out of place, una reietta in una città che non sentirà mai totalmente sua, dall’altro le mette addosso una malinconia ansiogena e la paura di stare perdendo una parte fondamentale di sé («Mi sembra di aver dimenticato anche l’arabo!»).
Si ha l’impressione di risentire Randa Ghazy quando, nel suo Oggi non ammazzo nessuno. Storie minime di una giovane musulmana stranamente non terrorista (Fabbri, Milano 2007) descrive la volontà di assimilazione culturale negli stessi termini, angoscianti, della perdita: «Sono sempre lì, tesa verso l’integrazione perfetta, l’assimilazione più totale. Senza rendermi conto che forse alla fine è un miraggio lontano. Tu ti sforzi e fai di tutto per avvicinarti, ma più ti avvicini più perdi qualcosa di te, e anche se sembra sempre più vicino, non ci arrivi mai».
Il malessere esistenziale dovuto a tali tentativi di equilibrismo schizofrenico sarà anche la causa della fine dell’appassionata storia d’amore di Lamis con Nicholas, inglese affetto da una sorta di “orientalismo” e che rivede nell’avvenente irachena una donna-statua fuggita dal tempio di Khajuraho.
Solo alla fine – attraverso un percorso di formazione incerto e tormentato – la donna riuscirà a ritrovare un equilibrio, a dare un senso alla propria esistenza dissestata, e questo equilibrio coinciderà con la presa di coscienza che integrazione non vuol dire rinuncia, camuffamento o dissoluzione di qualcosa di sé, bensì combinazione, possibilità di essere a un tempo arabi e inglesi, perché, per usare le parole di Tzvetan Todorov, «gli esseri umani non hanno alcuna difficoltà ad assumere più identità alla volta», e «questa pluralità è la regola, non l’eccezione»4.
«Davvero – si chiede Lamis – avevo pensato un giorno di sostituire e cancellare completamente le mie radici, smettendo di vedere, sentire, parlare, respirare?». In questa nuova, illuminante, dimensione di consapevolezza, si inserisce la decisione dell’irachena di iniziare gli studi, insieme riscatto da un passato che aveva coinciso con la frustrante impossibilità di istruirsi e tentativo di trovare un senso nell’altrove frenetico del melting-pot londinese.
Hanan Al-Shayk, interprete della sovversione femminile a un destino di sottomissione già scritto nei precedenti successi La sposa ribelle e Mio signore, mio carnefice (Piemme, Milano 2011), decide qui di cambiare lo scenario geografico e culturale d’ambientazione: non più il mondo arabo, la Beirut dilaniata dalla guerra civile, ma un città eclettica e polimorfa come Londra, una città in cui i personaggi possono godere appieno degli effetti della propria ribellione.
Dialoghi Mediterranei, n.5, gennaio 2014
Note
1 E. SAID, Riflessioni sull’esilio, in Nel segno dell’esilio, Feltrinelli, Milano 2008, p. 220.
2 Piatto tipico del Medio Oriente, costituito di carne, solitamente di pollo, montone, manzo o mista, cotta su uno spiedo verticale, messa nel pane o su un piatto da portata con pomodori, cipolle, insalata e salse.
3 C. DE CALDAS BRITO, Migranti: nuove identità e partecipazione sociale attraverso la scrittura?, in AA.VV., Lingue e letterature in movimento. Scrittrici emergenti nel panorama italiano contemporaneo, a cura di S. CAMILLOTTI, Bononia University Press, Bologna 2008.