La firma del EU comprehensive partnership package with Tunisia s’inserisce nella medesima strategia europea comprendente l’accordo con la Turchia (2016) e quello italiano con la Libia (2017, rinnovato nel 2022): un’esternalizzazione dei confini comunitari, che delega la securizzazione dei flussi migratori a Paesi (ambiguamente) alleati dietro la concessione di aiuti economici, più o meno vincolati ad un piano di riforme interne che, nei fatti, viene pressoché ignorato. L’accordo di partenariato strategico con la Tunisia, di cui il governo italiano si è fatto promotore, prevede un pacchetto di supporto finanziario di 105 milioni dedicato espressamente alla gestione migratoria. Lo Stato tunisino ha però rifiutato sia la realizzazione di centri d’accoglienza, sia l’istituzione di zone di ricerca e soccorso (SAR) nei propri confini territoriali.
Di fatto, l’accordo si limita a un potenziamento dei mezzi a disposizione della guardia costiera tunisina per il pattugliamento delle acque «to fight irregular migration to and from Tunisia and on the prevention of loss of life at sea, including fighting against smugglers and human traffickers, strengthening border management, registration and return in full respect of human rights» [1]. Una simile dichiarazione d’intenti si scontra però con la realtà sociale della Tunisia, un Paese economicamente a rischio e il cui presidente ha pubblicamente stigmatizzato i migranti sub-sahariani come parte di una cospirazione internazionale. Questo breve contributo vuole concentrarsi proprio su questi due macro-temi – l’esternalizzazione dei confini e l’uso delle retoriche complottiste in politica – come particolari esempi di distorsioni del potere, riallacciandosi ai contributi dedicati al contesto tunisino nello scorso numero. In particolare, ho trovato particolarmente utili i saggi di Giada Frana e Chiara Sebastiani, a cui rimando per un approfondimento sulle condizioni socio-economiche della Tunisia e sul crescente autoritarismo del presidente Saied.
Frontiere e compromessi
La Tunisia oggi viene chiamata a rivestire il ruolo d’interfaccia nei flussi migratori africani che in passato toccò alla Libia: «stretta tra l’Algeria dei militari e la Libia delle milizie, è diventata un collo di bottiglia in cui si incanalano i flussi migratori provenienti dalle regioni subsahariane» (Sebastiani 2023). Considerando il caos civile dello Stato libico e la mano pesante della presidenza Tebboune in Algeria – oltretutto in tensione con il governo marocchino – si comprende perché l’Unione Europea e l’Italia guardino alla Tunisia come un riferimento nel Nord Africa. Dai porti di Sfax, Susa e Biserta partono rotte migratorie parallele a quelle libiche, avvantaggiate dalla maggior prossimità a Lampedusa, Pantelleria e alla costa siciliana. Certo, la Libia rimane ancora il Paese preferenziale nel Mediterraneo centrale, complice anche la sua instabilità politica e le numerose zone grigie che, se da un lato attirano migliaia di migranti con la speranza di un transito più “semplice”, dall’altro sono teatro di pratiche violente e di sfruttamento. La Tunisia gode sicuramente di un maggiore controllo territoriale, con flussi minori che però – a differenza di altri Paesi nord-africani – sono composti anche dagli stessi cittadini tunisini; molti, infatti, scelgono di lasciare il proprio Paese sia a causa delle condizioni economiche precarie (Frana 2023), sia per motivi politici vista la fragilità delle istanze post-rivoluzionarie.
Dal 2017 le coste tunisine hanno visto aumentare gradualmente il numero di partenze, e di conseguenza il numero di migranti sub-sahariani che scelgono il piccolo Stato nord-africano per transitare verso l’Europa. Una parte di costoro finisce per rimanere nei porti della Tunisia, costituendo una parte importante della popolazione locale, come nel caso di Sfax. Vista la facilità con cui si ricorre alla retorica dell’emergenza migratoria, con tutti i rischi insiti nell’adottare una simile prospettiva destoricizzante, è bene ricordare che già negli anni Novanta l’Italia aveva stretto accordi con il governo di Tunisi per contenere le partenze e favorire il rimpatrio dei suoi cittadini, a riprova di come questo Paese abbia una “storia migratoria” ben distinta da quella della Libia o dell’Algeria.
Oggi più di allora, la massima parte dei migranti che partono dalle coste tunisine sono cittadini di quello Stato – più del 90% nel 2017 [2] – e solo una piccola componente proviene da Paesi sub-sahariani. Questo particolare spiega alcuni aspetti del Comprehensive partnership package tra Unione Europea e Tunisia: il fatto che vi siano così tanti cittadini provenienti dallo Stato di partenza rende più facile i rimpatri degli stessi; inoltre, i fondi ad hoc stanziati dall’UE come forma di sostegno al sistema socio-economico tunisino dovrebbero ridurre quei push factors che spingono le persone a partire. Inoltre, la minor estensione dei confini marittimi e il forte controllo territoriale dello Stato tunisino rendono i 105 milioni di euro un investimento di sicuro più “efficiente” che nel caso della Libia.
Come anticipato, la gestione dei flussi migratori si concretizzerà effettivamente in un rafforzamento degli apparati di controllo e sicurezza dei confini, senza che a questo si aggiunga la realizzazione di infrastrutture dedicate all’accoglienza dei migranti né di apparati giuridici che tutelino richiedenti asilo e rifugiati. Categorie, quest’ultime, che lo Stato tunisino non distingue dai “normali” migranti, dato che non possiede una legge nazionale sull’asilo. Basterebbe già questa assenza a rendere scricchiolante la dichiarazione d’intenti del partenariato strategico sul rispetto dei diritti umani. Di fatto, questo tipo di esigenze ideali sono subordinate alle necessità della gestione migratoria, cioè al contenimento degli sbarchi sulle coste europee e alle pratiche di “smistamento” delle varie categorie (migranti economici, rifugiati, richiedenti asilo, ecc). Come ci ricorda Fassin:
«Not only does the control of immigration involve bureaucracies, but it also supposes technologies for the surveillance of the borders and the territory and for the detention and deportation of illegal aliens [...] The production of illegality and the arrest of tens of thousands of undocumented obviously pose problems of confinement in Western countries. Although immigrants may crowd the regular carceral system, states have also developed specific detention facilities for them to avoid proximity with criminals and to facilitate their deportation» (Fassin 2011: 218-219).
Ma si può anche giocare d’anticipo: per evitare di affollare gli hub e gli hotspot sul territorio nazionale basta spostare il confine un po’ più in là, esternalizzando la frontiera europea sull’altra sponda del Mediterraneo. Più che una frontiera fisica, il grande arco che dalla Turchia passa per l’Egitto e arriva al Marocco va inteso come un «ubiquitous, techno-social, deterritorialised apparatus or regime producing geographically stretched borderscapes» (Hess & Kasparek 2019: 3); margini che non si limitano ad escludere e circoscrivere ma possono anche rendere opaco ciò che sta sotto quel contrassegno. Il borderscape del Mediterraneo centrale rappresenta uno spazio denso, stratificato e poroso che si sovrappone ai confini territoriali e alle no man’s land delle acque internazionali. Denso perché costruito attraverso apparati di controllo, sicurezza e contenimento estesi su centinaia di migliaia di chilometri cubici; stratificato poiché la densità al suo interno varia a seconda della combinazione di attori e pratiche (istituzionali, private, illegali, ecc) e delle “zone” morali e giuridiche; poroso, infine, per gli spazi di informalità, corruzione, disinteresse o incapacità che persistono nelle strategie di gestione migratoria, i quali si traducono in altrettante tattiche di attraversamento del borderscape.
L’allontanamento dei confini comunitari e l’“inspessimento” degli stessi è un’approssimazione di un particolare immaginario europeo (nel senso di governo europeo) legato alla gestione migratoria: la visione tecno-scientifica «of a “smart”, invisible yet selective border that is able to seemlessly distinguish between bona-fide travellers and unwanted migrants that were, labelled as “illegal migration”» (Hess & Kasparek 2019: 4); una visione utopica di gestione “leggera”, smaterializzata e – almeno in parte – deterritorializzata entrata in crisi nel 2015, il cosiddetto “anno dei rifugiati”. L’arrivo di decine di migliaia di migranti nei territori europei evidenziò tutti i limiti di un modello gestionale pensato per una situazione ordinaria, di flussi contenuti e facilmente “contabilizzabili”. Invece di un confine “intelligente” e semi-invisibile, il Mediterraneo è diventato un enorme e pericoloso borderscape, pesantemente stratificato e incapace di distinguere efficacemente tra le varie categorie di migranti.
Gli accordi siglati con la Turchia, la Libia e la Tunisia hanno rappresentato altrettanti compromessi tra il modello europeo ideale e le necessità e i desiderata degli Stati designati come prime interfacce tra il sistema Unione Europea e i fenomeni migratori. Compromessi che, se mi si concede il gioco di parole, generano frontiere compromesse, spesso ab origine a causa delle instabilità politiche, dell’ambiguità normativa e delle fragili condizioni socio-economiche di questi Stati gatekeeper.
Tutto ciò è particolarmente evidente nel caso della Tunisia: qui le crescenti tensioni sociali sono sfociate anche in scontri tra cittadini e migranti, o finanche verso tunisini d’origine sub-sahariana. In particolare nella città di Sfax, principale porto di partenza verso l’Italia, i migranti sono stati oggetto di violenze, arresti e trasferimenti forzati, innescate dalla morte di un uomo tunisino avvenuta il 3 luglio. L’omicidio, presto attribuito a un sub-sahariano, ha scatenato un pogrom nei confronti di questa parte della popolazione cui ha fatto seguito il trasferimento di centinaia di migranti verso delle no man’s land sul confine algerino (a Ras Jedir) e su quello libico, dove molti hanno perso la vita. Il governo tunisino nega ogni responsabilità, e dal canto suo i portavoce di Tripoli rifiutano di accogliere questi migranti nel proprio territorio, lasciando centinaia di persone letteralmente in un limbo, sia dal punto di vista esistenziale che da quello spaziale: bloccati in un lembo (in latino, limbus) di terra ai confini di uno Stato che li ha cacciati, mentre l’Unione Europea siglava un accordo con quello stesse istituzioni.
Non si tratta di un malfunzionamento nella gestione migratoria, di un’eccezione dovuta a situazioni straordinarie bensì di una conseguenza assolutamente normale dell’esternalizzazione dei confini, così come sono drammaticamente ‘normali’ i naufragi nel Mediterraneo o le violenze nei centri detentivi in Libia. Lo si voglia o no, la firma apposta al comprehensive partnership package accetta anche il compromesso con uno Stato guidato da un presidente che ricorre a narrazioni complottiste contro i migranti per rafforzare la propria autorità; lungi dall’essere un dettaglio minore in questa storia, le dichiarazioni razziste di Saied hanno infiammato una parte della società tunisina, esacerbando l’ostilità verso i migranti sub-sahariani. Un simile effetto non è dovuto tanto al consenso di cui gode il presidente – che anzi, è osteggiato da più parti – quanto invece dalla risonanza di certi temi nell’immaginario culturale tunisino contemporaneo.
Un complotto contro la Tunisia
Lo scorso febbraio, il presidente Saied ha sostenuto pubblicamente l’esistenza di un piano criminale «to change the composition of the demographic landscape in Tunisia and some individuals have received large sums of money to give residence to sub-Saharan migrants» (Blaise 2023). Gli immigrati sub-sahariani starebbero minando la “vera identità” tunisina – quella araba e islamica – sostituendosi gradualmente alla popolazione autoctona destinata a diventare una minoranza perseguitata; è facile riconoscere in simili affermazioni un richiamo alle teorie della sostituzione etnica e della minaccia di tracollo demografico, una sorta di adattamento locale del “Piano Kalergi” che anche il mondo politico italiano ha dimostrato di conoscere.
Le affermazioni di Saied puntano il dito contro un “nemico invisibile” all’opera da decenni per portare orde di migranti in Tunisia, un tema che condivide con molte altre teorie del complotto tre aspetti: propone un’interpretazione immediata e netta di un fenomeno complesso e sfaccettato come i flussi migratori; imputa la responsabilità del disagio sociale ad una causa esterna al sistema, preservando lo status quo; crea un bersaglio per la rabbia, la frustrazione e le conflittualità. Dato che però il “vero” antagonista rimane sempre nell’ombra, l’odio si scarica sui migranti sub-sahariani, come complici – anziché vittime – di questo piano.
Sebastiani si era già soffermata su queste retoriche complottiste, segnate da una «contrapposizione tra Neri e Arabi (musulmani) [la quale] appartiene specificamente a Kais Saied che, al pari del suo ispiratore Gheddafi, oscilla tra panarabismo e panafricanismo» (Sebastiani 2023). In effetti le retoriche complottiste del presidente tunisino mostrano notevoli somiglianze non solo come le posizioni del dittatore libico, e si collocano più in generale nel solco dell’immaginario culturale del Maghreb; con questo termine ci si riferisce solitamente all’area e alle popolazioni comprese nei cinque Paesi nord-africani che si affacciano sul Mediterraneo, ma più spesso ridotta al Marocco, l’Algeria e la Tunisia. Lungi dal costituire un contesto geografico e culturale omogeneo, l’idea di Maghreb è piuttosto un costrutto culturale vecchio di secoli, riattivato e ridefinito durante il colonialismo europeo (Mohamed 2012; Hannoum 2021).
La dominazione francese, in particolare, ha contribuito alla configurazione identitaria di Algeria e Tunisia, e del Maghreb in generale, come una zona separata dell’Africa, più in dialogo con l’Europa che con i Paesi sub-sahariani. Questa lettura si è mantenuta anche durante le guerre d’indipendenza: «d’après les formules choisies (Maghreb arabe, peuple du Maghreb arabe et non pas Afrique du Nord), il semble bien que la colonisation française ait réveillé l’arabité de ce Nord de l’Afrique et déclenché l’unité maghrébine» (Abbassi 2008: 121).
Significativamente, nella rilettura del periodo coloniale della Tunisia indipendente la presenza francese venne presentata come un complotto contro il Maghreb, basato su «la dénonciation d’une alliance entre “les étrangers” de l’extérieur et “les traîtres” de l’intérieur contre les “patriotes authentiques”» (Abbassi 2008: 121). Questa interpretazione torna anche nello Stato algerino, che nel corso della sua storia impiegò frequentemente narrazioni complottiste a supporto della propria autorità:
«During the 1954-62 war of independence, the revolutionary National Liberation Front (FLN) accused its various rivals, including certain urban economic elites, emigrant reformers, ethnic minorities, and rival political parties, of being “traitors” (harkis), colonial enemies within. Likewise, during the contemporary civil war, the 1994-1999 governments of General Liamine Zeroual decried the “terrorists” as a fifth column of “neo-colonialism,” as a violent version of the hizb fransa (“French party”) normally associated with “Westernized” journalists and other intellectuals. They specifically pointed the finger at a congeries of “foreign circles” from Tehran to “London and other European capitals” for contributing to the “fiendish process” of terrorism (through providing arms and sanctuary to outlawed groups) and seeking to “interfere” with and destabilize Algeria» (Silverstein 1992: 651).
I temi dei complotti cambiano nel tempo, adattandosi alle circostanze storiche e sociali; si prenda il caso di Boubekeur Benbouzid, ex ministro algerino dell’educazione rimasto in carica per quasi vent’anni, che rumors interni volevano sposato a una sorella di Vladimir Putin; voci che ci possono sembrare assurde, e che tuttavia «echoed the familiar idea that ruling elites serving foreign interests have mortgaged the country’s future» (Serres 2023: 169). O ancora, consideriamo le accuse mosse al governo del Marocco da parte di alcuni media algerini, secondo cui i disastrosi incendi del 2021 erano stati provocati ad arte da alcune organizzazioni terroristiche (o gruppi politici dissidenti, come Rachad) con il supporto dello Stato confinante. Anche il Marocco, dal canto suo, è stato attraversato da narrazioni complottiste che ne hanno influenzato la politica interna, specie durante il periodo coloniale; i movimenti indipendentisti della prima metà del Novecento vennero considerati «as ‘a British plot’, or, in a later variation, as ‘an Anglo-Saxon conspiracy’ with Great Britain and the USA working together to undermine colonial rule in order to reap the benefits of newly independent client states for themselves» (Roslington 2014: 513). Questo atteggiamento paranoide dell’amministrazione coloniale è stato in parte ereditato dal Marocco indipendente, dove piccoli gruppi estremisti sostengono che l’Algeria stia tentando di indebolire il Regno attraverso la corruzione per espandere il proprio dominio sui territori desertici al confine dei due Stati. Una teoria che richiama la Guerra delle sabbie combattuta tra Algeria e Marocco per il possesso del Sahara occidentale; un conflitto di breve durata scoppiato nel 1963 e presto conclusosi per le forti pressioni internazionali e dell’Organizzazione dell’Unità Africana sul Marocco.
In sintesi, già a partire dal diciannovesimo secolo l’intero Maghreb «became a land of conspiracy in the colonial imaginaire» (Roslington 2014: 513), alimentato dalla rivalità e dalle azioni di intelligence delle potenze europee e, successivamente, dalla costruzione identitaria e territoriale degli Stati indipendenti. Lo stesso concetto di Maghreb è sempre stato rideclinato a seconda delle riformulazioni identitarie della Tunisia: «Il peut être aussi bien le coeur du nationalisme arabo-islamique qu’une annexe lointaine de l’Occident musulman ou encore un espace mal défini sur les rives sud de la Méditerranée. Le Maghreb semble en fait servir de décor au paradigme Tunisie. C’est un concept plus politique que culturel» (Abbassi 2008: 137). I temi al centro delle cospirazioni cambiano, adattandosi ai singoli contesti nazionali, ma rimane comune il sospetto di piani segreti tesi a indebolire la nazione o minacciare la popolazione.
In Tunisia ritroviamo lo stesso canovaccio del complotto di epoca coloniale, recitato da attori diversi: i pericolosi stranieri provenienti dall’esterno non sono più i colonizzatori francesi, bensì i migranti sub-sahariani; i traditori all’interno della nazione sono i membri di Ennahda, movimento politico fondato già nel 1981 ma divenuto effettivamente partito solo nel 2011, all’indomani della Rivoluzione dei Gelsomini. Il suo leader, Rāshid al-Ghannūshī, è stato arrestato nell’aprile 2023 con l’accusa di cospirazione contro lo Stato; già nel luglio 2021 Saied aveva esautorato il primo ministro Mechichi e sospeso il Parlamento, alla cui presidenza vi era proprio al-Ghannūshī come leader del più importante gruppo d’opposizione. Alle accuse di Ennahda di stare attuando un colpo di Stato contro la rivoluzione, il presidente Saied replicò sostenendo di agire nell’interesse della nazione, per salvare la Tunisia da una cospirazione ordita dai movimenti islamisti coordinati internamente da Ennahda e esternamente dai Fratelli Musulmani, quest’ultima è un’organizzazione internazionale diffusa nella maggior parte dei Paesi arabi (seppur bandita in molti di questi), fortemente ispirata ai valori islamici. Domenico Copertino, che si è particolarmente interessato ad Ennahda nel corso della sua ricerca sul pubblico islamico tunisino (Copertino 2020), ricorda come nel tempo il partito abbia preso le distanze dalla Società dei Fratelli Musulmani, scegliendo un islamismo più moderato.
Dopo la sospensione del Parlamento, il rafforzamento dell’autorità di Saied è andato di pari passo ad altre esternazioni sulla minaccia interna rappresentata da certi gruppi e leader politici, e di nuovo all’inizio del 2023, riferendosi a poteri stranieri – “lobby” non meglio identificate – dediti a destabilizzare il governo tunisino e influenzare le elezioni. Il copione è piuttosto simile a quello statunitense durante la presidenza Trump, fenomeno che – non a caso – ha dato un’inedita visibilità e legittimità all’uso delle narrazioni complottiste nella politica nazionale e internazionale. Il “modello Trump”, con i suoi ammiccamenti a QAnon e la ripresa di molti temi del cospirazionismo made in USA, negli ultimi anni sta venendo esportato e riadattato in altri contesti culturali; nella Tunisia del presidente Saied, la componente d’oltreoceano è stata amalgamata a temi propri del retaggio coloniale e post-coloniale. Certo è che queste dichiarazioni, per quanto possano parere irrazionali e strumentali al consenso politico, come parte di un sistema di credenze eterodosse rispondono a determinate inquietudini sociali; nel caso del famigerato Hizb Fransa algerino vi era il timore di un potere coloniale pervasivo e violento; per i gruppi estremisti marocchini, il sospetto verso un’alleanza tra l’Algeria e altri Paesi africani riflette lo straniamento per un conflitto anomalo come la Guerra delle sabbie; nell’ormai classico studio di Fassin sull’AIDS in Sudafrica abbiamo la diffidenza verso certi “doni” della popolazione bianca alla luce dell’oppressione razziale.
In Tunisia una certa inquietudine nasce probabilmente dagli aiuti finanziari internazionali, che per molti Stati africani si sono rivelati un’arma a doppio taglio e che, più nello specifico, una parte della società tunisina teme possa minare l’autonomia del proprio Stato. Alla luce della difficili condizioni socio-economiche, il Fondo Monetario Internazionale ha proposto alla Tunisia un pacchetto finanziario, ma le condizioni richieste «in particolare modo l’eliminazione delle sovvenzioni statali che riguardano determinati beni di prima necessità [...] non sono state accettate dal Presidente Kais Saied, che ha evocato il rischio di una nuova cosiddetta “rivolta del pane”, che si ebbe nel dicembre 1983 proprio in seguito all’eliminazione delle sovvenzioni sui prodotti cerealicoli» (Frana 2023).
Sarebbe riduttivo considerare il rifiuto di Saied verso le condizioni vincolanti al prestito del FMI solo come un gesto autocratico e nazionalista; seguendo gli studi di Copertino, ritroviamo in questa affermazione di autonomia rispetto alle interferenze economiche internazionali una delle sfumature del concetto di karama; ideale chiave per il pubblico politico tunisino all’epoca della Rivoluzione. Karama può essere tradotto con “dignità” ma il suo spettro culturale è decisamente più ampio, arrivando a comprendere una progettualità economica ed etica nei confronti della popolazione. Del resto, «sebbene il movimento-partito islamico Ennahda si sia a lungo battuto contro il dominio politico ed economico occidentale, dopo la rivoluzione esso ha dovuto fronteggiare pragmaticamente il rischio della fuga dei capitali europei. Negli anni in cui il partito islamico ha costituito la principale forza governativa (2011-2014), esso ha cercato di mantenere le corporazioni multinazionali nel paese» (Copertino 2020: 81).
Scartato il finanziamento del Fondo Monetario, pochi mesi dopo la Tunisia si è assicurata comunque dei fondi rilevanti attraverso l’accordo con l’Unione Europea, notoriamente meno rigida del FMI per quanto riguarda il piano di riforme. Un esempio di come le strategie di esternalizzazione dei confini comunitari vengano integrate strutturalmente nelle economie dei Paesi cui è delegata la gestione dei flussi migratori in partenza verso l’Europa. Le vicissitudini socio-economiche della Tunisia vengono così legate a doppio filo alla permanenza di una duplice condizione d’emergenza: una esterna, legata alle continue “emergenze migratorie” che anno dopo anno si ripropongono nel bacino Mediterraneo e che giustificano il ricorso ad accordi di partenariato e delega della securizzazione; l’altra interna, con la persistenza di uno stato d’emergenza nazionale che giustifica le misure autoritarie del presidente Saied (Giuffré, Denaro, Raach 2022). A farne le spese sono sia i cittadini tunisini sia le migliaia di migranti che rimangono compressi e compromessi in queste frontiere stratificate e appesantite dai riverberi di immaginari cospirazionisti.
Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023
Note
[1] EU comprehensive partnership package with Tunisia (June 2023), https://neighbourhood-enlargement.ec.europa.eu/news/european-union-and-tunisia-political-agreement-comprehensive-partnership-package-2023-07-16_en [controllato il 31/07/23]
[2] Forum Tunisien pour les Droits Economiques e Sociaux, Rapport annuel Émigration non règlementaire depuis la Tunisie 2017, https://ftdes.net/emigration2017/ [controllato il 31/07/23]
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Nicola Martellozzo, dottorando presso la Scuola di Scienze Umane e Sociali (Università di Torino), negli ultimi due anni ha partecipato come relatore ai principali convegni nazionali di settore (SIAM 2018; SIAC 2018, 2019; SIAA-ANPIA 2018). Con l’associazione Officina Mentis conduce un ciclo di seminari su Ernesto de Martino in collaborazione con l’Università di Bologna. Ha condotto periodi di ricerca etnografica nel Sud e Centro Italia, e continua tuttora una ricerca pluriennale sulle “Corse a vuoto” di Ronciglione (VT). Ha pubblicato recentemente la monografia Traduzioni del potere, Quaderni di “Dialoghi Mediterranei” n. 2, Cisu editore (2022).
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