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Fuochi, pupazze e distanziamento sociale

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Poggio Mirteto (RI), La Pantàsima, 2007 (ph. W. Consumati)

il centro in periferia

di Alessandra Broccolini

La vicenda che racconta Settimio Adriani sul fantoccio rituale di Fiamignano, piccolo paese montano nella provincia di Rieti, è un caso tra i molti che riguardano in generale una moltitudine di eventi festivi locali e non solo le cosiddette feste del fuoco[1], cioè quelle feste nelle quali è uso di accendere fuochi. Moltissime occasioni festive, anzi potremmo dire tutte o quasi tutte le feste locali che comportano una partecipazione forte di cittadini nello spazio pubblico, sono da anni costrette a passare dalle maglie sempre più strette della normativa securitaria, con conseguenze che sono state a volte importanti, ma che sempre più lo saranno nei prossimi mesi della post pandemia.

Su questo scenario a venire si dovrà presto fare una riflessione, che è tanto più urgente quanto più il “distanziamento sociale” è entrato e sempre più entrerà nella normativa e nella prassi burocratica, oltre che nel quotidiano, anche purtroppo nella fase di post emergenza sanitaria. Fino a ieri eravamo abituati a pensare alla partecipazione anche “fisica” dei cittadini ai contesti sociali e festivi come elemento di valore da salvaguardare, da inscrivere in una cornice patrimoniale, vero perno di un paradigma patrimoniale sempre più teorizzato e attuato a livello sia nazionale che internazionale, non senza le forti criticità che conosciamo. Su questo asse molte delle politiche del patrimonio più recenti hanno puntato per veicolare una concezione “sociale” del patrimonio e le recenti convenzioni internazionali vanno (o dovremmo dire andavano?) in questa direzione [2]. Ma è oggi sotto i nostri occhi che sta entrando in crisi, o almeno rischia fortemente di entrare in crisi, una idea di partecipazione al patrimonio intesa come partecipazione anche e soprattutto “fisica”, fatta di momenti di condivisione, di azione comune, di compartecipazione, fatta di un sentire insieme la festa e con essa la vita sociale dei territori. È probabilmente la stessa idea di comunità e di “vita sociale” che stanno cambiando e si andranno “virtualizzando” o dematerializzando. O almeno non sappiamo se e con quali conseguenze la distanza fisica tra i cittadini diverrà parte e trasformerà le pratiche sociali di molti territori. Il processo era già in atto prima del Covid19, ma lo scenario è rapidamente mutato e, direi, precipitato.

Tutto questo va oltre i fantocci rituali; è un panorama globale. Tuttavia, questi fantocci pirotecnici dalle fattezze femminili, molto locali e molto diffusi nelle feste patronali tra Lazio e Abruzzo e conosciuti con vari nomi (Pantàsima, Pupazza, Pupa, Signoraccia, Pucca, Mammoccia), sono stati particolarmente afflitti in passato dalle ansie restrittive che riguardano la sicurezza, sia per le loro dimensioni (che a volte superano i tre metri di altezza), ma soprattutto per fuochi e mortaretti che esplodono nei momenti di effervescenza festiva, ballando e “ammiccando” con il pubblico compiacente; due elementi (dimensioni e fuoco) che teoricamente potrebbero – e dico potrebbero – danneggiare il pubblico [3].

Un pubblico che però in genere è composto da adulti del paese, che spesso amano molto giocare con questa procace bellezza dalle fattezze iper-femminilizzate e con grandi seni. Per queste ragioni, in molti piccoli paesi pupe, pupazze e pantàsime sono progressivamente scomparse negli anni, più o meno per le ragioni che indicava l’articolo di Adriani e sono sopravvissute solo ad alcune particolari condizioni, ad esempio adeguandosi in maniera a volte iperbolica alle norme di sicurezza e quindi trasformandosi radicalmente, cosa possibile solo laddove l’investimento “pubblico” è stato importante. Oppure nascondendosi dietro l’invisibilità che spesso hanno questi piccoli paesi, nella speranza di non balzare agli onori della cronaca, facendo come se; più spesso invece trovando sindaci o altri soggetti coraggiosi che semplicemente – ma neanche tanto – si sono assunti la responsabilità di farle ballare con i loro scoppiettanti (e innocui) mortaretti, grazie alla protezione delle famigerate transenne. Le transenne, altra croce degli eventi festivi, barriere respingenti e distanzianti il contatto fisico tra protagonisti e osservatori, fattore anche quello di trasformazione di feste dove il contatto fisico, dove l’essere lì e proprio lì (vicino alla statua o ai portatori tanto da poterli toccare) era parte stessa dell’esperienza festiva e della “partecipazione”. Fino a ieri le transenne sarebbero bastate, oggi non bastano neppure più quelle.

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Cappelle sul Tavo (PE), La Pupa, 2017 (ph. Broccolini)

Questi semplici fantocci di canne e cartapesta molti di noi li conoscono bene, li hanno incontrati nelle feste di questi territori, ci abbiamo anche scritto per mostrarne le modalità espressive, le forme comunicative, le variazioni locali, l’artigianalità, i giochi sul maschile e il femminile; alcuni di noi hanno anche provato il faticoso piacere di ballarci dentro [4]. Qualche anno fa, grazie all’iniziativa del Museo della Civiltà Contadina dell’Alta Valle dell’Aniene di Roviano, paese della provincia di Roma dove la tradizione della “pupazza” è particolarmente viva, è stato costituito un comitato, un Osservatorio sulle pupazze in Italia Centrale, che ha provato ad avvicinare diverse realtà tra il reatino, l’aquilano, la provincia di Pescara e altri paesi ancora, una rete di “pupazzari” [5]. Si sono allora incontrate diverse realtà, alcuni protagonisti di queste pratiche espressive, assessori di piccolissimi comuni, artisti che le pupazze le reinterpretano e le trasmettono lavorando con le scuole, studiosi, artigiani, architetti che lavorano con il design e molto altro ancora. Fatto sta che i fantocci rituali dell’Italia Centrale continuano a vivere, nonostante tutto, ma non sappiamo fino a quando e come ora si dovranno di nuovo adattare (come tutte le pratiche festive) alle nuove forme di distanziamento sociale che la pandemia globale imporrà.

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Roviano (RM), Museo della Civiltà Contadina, La Pupazza, 2017 (ph. Broccolini)

La vicenda che narra Adriani, che può sembrare così circoscritta e ad alcuni lontana, è quindi emblematica perché non riguarda, come si diceva prima, solo questa porzione di territorio e questa particolare tipologia di feste. Ma ci spinge a fare una riflessione più ampia, che anche Adriani accenna nel suo breve testo. Una riflessione che fino a qualche settimana fa mi avrebbe portato ad inquadrare la vicenda securitaria “solo” entro le maglie di una azione normativa che guarda all’incolumità delle persone da incidenti causati dal fuoco, da carichi pesanti, oppure dagli eccessi delle folle. A questo proposito un momento topico è stata la Direttiva sulle Manifestazioni Pubbliche del 2017 (Direttiva Gabrielli) [6] causata dai noti incidenti di Torino, una direttiva che già tre anni fa aveva irrigidito le pratiche festive, che sono quelle che ciclicamente (e non occasionalmente come avviene per le altre manifestazioni pubbliche) vedono la presenza di “assembamenti” in luoghi pubblici, mettendo in seria difficoltà proprio quei piccoli paesi che non avevano la forza di adeguarsi. Ma oggi, come dicevano, il quadro sta di nuovo mutando e non in meglio; si va globalizzando fino ad incorporare anche l’incolumità “sanitaria” dei partecipanti alle feste. Lo dimostra la cancellazione che c’è stata e che ci sarà di tutte le feste primaverili (e probabilmente anche di quelle estive) che si svolgono sul territorio nazionale (e oltre). Questo ingresso della dimensione “sanitaria” nelle pratiche sociali e culturali ci riguarda molto da vicino e su questo si dovrà riflettere. Certo, si dirà che è l’emergenza ad aver provocato queste cancellazioni ed è giusto così. Ma in che modo la sicurezza sanitaria, divenuta oggi un imperativo globale, si rifletterà nelle pratiche del futuro? Quanto e in che profondità le mascherine e il metro e oltre di distanza entreranno strutturalmente anche in questi ambiti della “prossimità” e della condivisione rituale e quali pratiche di “resistenza” verranno messe in atto? In diverse città e paesi già pochi giorni fa accendere i falò per S. Giuseppe è stato dichiarato un atto “da delinquenti” [7]. Ma il fuoco una volta non era purificatore?  Ciò che dico è chiaramente una provocazione, ma vuole esprimere un problema di fondo e uno scenario di cambiamento.

Nei prossimi mesi avremo da lavorare molto su questi temi, non solo per raccontare vicende e mutamenti locali, ma per capire ed interpretare meglio. Infatti, al di là delle più o meno grandi vicende che hanno causato in passato questi progressivi giri di vite contro i rischi provocati da pratiche rituali ed espressive nelle quali sono coinvolti i corpi – rischio del fuoco, rischio del peso, di incidenti, del contatto fisico. Al di là del panorama locale, nazionale o globale nel quale si producono e dal quale queste dinamiche sono partite, mi pare sia necessaria una lettura più approfondita del fenomeno.

Ieri era il fuoco. Un fuoco che da compagno quotidiano delle esperienze di vita (cottura dei cibi, lavoro, lavori in campagna, esecuzioni pubbliche) si è progressivamente allontanato dalla vita quotidiana alienandosi dalle stesse pratiche rituali dove era protagonista, il fuoco dal potere distruttore o purificatore, investito di valenze simboliche, più o meno condivise. Un fuoco con il quale non vogliamo più convivere, del quale non siamo più disposti ad accettare i rischi. Un fuoco che sempre meno vediamo intorno a noi, imbrigliato, convogliato, disciplinato per evitare rischi di bruciature ed incidenti, rischi derivati dal caso a volte, ma che sempre meno accettiamo come appunto provocati dal caso e per i quali oggi vogliamo precise attribuzioni di responsabilità.

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Cappelle sul Tavo (PE), La Pupa

Ieri era il rischio di evitare incidenti, che qualcuno potesse cadere durante una processione e farsi male, stando vicino alla statua o alla macchina festiva, e questo rischio ha portato a transennare i percorsi, ad evitare il contatto, a disaggregare (un termine che si sente spesso in questo periodo), producendo una distinzione netta tra “spettacolo” rituale e folla amorfa di osservatori. Ieri era il rischio che i corpi nella festa si potessero fare male per incidenti dei singoli o per gli imprevisti delle folle; ecco allora che Vigili del Fuoco, Protezione Civile, Croce Rossa, Vie di Fuga e Vie di Esodo, ambulanze, tracciati e percorsi per regolamentare e scongiurare ogni possibilità anche minimale di rischio.

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Sambuci (RM), La Signoraccia, 2005 (ph. Broccolini)

Ma oggi, e probabilmente anche domani, sarà la sola vicinanza tra le persone a rappresentare un rischio. Oggi è la sola vicinanza tra i corpi a non essere più ammessa. E chissà se questa diventerà una percezione permanente di rischio anche nella fase post Covid19. Cosa accadrà allora alle forme espressive (e quindi festive) se la partecipazione fisica diventerà un pericoloso assembramento? I termini sono pietre e forse ci dovremo abituare a cambiare vocabolario. Ma che significato può assumere la partecipazione se la svincoliamo dal contatto fisico e la riduciamo (o comunque la trasferiamo) ad un ambito virtuale? Tutte queste paure securitarie, vecchie e nuove, seppur giuste e sicuramente ragionevoli in una fase di assoluta emergenza come quella attuale, nascondono forse una problematica più grande, che è la difficoltà o il rifiuto dei nostri mondi ipernormati ad accettare il caso e la morte come orizzonti inevitabili dell’esperienza umana e quindi sempre nuova frontiera da dominare.

Dialoghi Mediterranei, n. 43, maggio 2020
Note
 [1] Ad es. Buttitta 1999; Galli 2002; Galli & Achilli 2003.
[2] Si vedano a questo riguardo le Convenzioni internazionali; la Convenzione UNESCO per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale (2003) e la Convenzione Quadro sul Valore del Patrimonio Culturale per la Società del Consiglio d’Europa (2005).
[3] Broccolini (2017)
[4] Broccolini, 2013.
[5] https://www.museoroviano.it/2018/03/13/al-museo-di-roviano-nasce-losservatorio-pupazza/ (08.04.2020).
[6] https://www.interno.gov.it/it/amministrazione-trasparente/disposizioni-generali/atti-generali/atti-amministrativi-generali/documenti/direttiva-sulle-manifestazioni-pubbliche (08.04.2020)
[7] Per esempio a Taranto: https://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/taranto/1212789/coronavirus-taranto-accendere-i-fuochi-di-s-giuseppe-e-da-delinquenti.html. Oppure a Bari: http://www.baritoday.it/cronaca/coronavirus-sporcaccioni-rifiuti-decaro.html.  O ancora sulle “vampe” per S. Giuseppe a Palermo: https://palermo.repubblica.it/cronaca/2020/03/18/news/il_virus_non_ferma_le_vampe_sette_falo_spenti_a_palermo-251639837/
  Riferimenti bibliografici
Broccolini, Alessandra, “Pantàsime e altre pupazze”, in A. Broccolini & E. Migliorini (a cura), Santi, Pantàsime e signori. Feste della Bassa Sabina, Roma, Espera, 2013.
Broccolini, Alessandra, “Pupe, pupazze e altri fantocci rituali. Creatività, marginalità e resistenza tra Lazio e Abruzzo”, in E. Migliorini (a cura), Il Ballo della Pupazza. Fantocci e giganti rituali nelle feste dell’Italia centrale, Museo della Civiltà Contadina, Roma, Ed. Efesto, 2017: [7]13-40.
Buttitta, Ignazio E., Le fiamme dei santi: usi rituali del fuoco nelle feste siciliane, Roma, Meltemi, 1999.
Galli, Laura (a cura), Il fuoco rituale. Documenti del folklore religioso, Roma, EDUP, 2002.
Galli, Laura, A. Achilli (a cura), Il fuoco rituale, Roma, EDUP, 2003.
Migliorini, Emiliano (a cura), Il Ballo della Pupazza. Fantocci e giganti rituali nelle feste dell’Italia centrale, Museo della Civiltà Contadina, Roma, Ed. Efesto, 2017.

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Alessandra Broccolini, antropologa, docente di Antropologia Culturale presso la facoltà di Sociologia dell’Università “La Sapienza di Roma”.  Ha collaborato con l’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, con la Regione Lazio e con altri Enti in materia di catalogazione del patrimonio etnografico materiale e immateriale e per alcune candidature Unesco per la Lista Rappresentativa del Patrimonio Culturale Immateriale. Attualmente è presidente di Simbdea (Società Italiana per la Museografia e i Beni Demoetnoantropologici) e membro della redazione della rivista Antropologia Museale. Si occupa di politiche dell’identità, città, migrazioni, feste e rituali, artigianato, patrimonio culturale immateriale, saperi tradizionali e politiche Unesco (Lazio, Campania, Napoli, Roma). Ha pubblicato diversi saggi sui temi dell’antropologia del patrimonio culturale e un lavoro monografico sull’artigianato del presepe a Napoli: Scena e retroscena di un patrimonio. Turismo, artigianato e cultura popolare a Napoli, Verona 2008.

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