Premesse necessarie: questo articolo, scritto da chi non nutre affatto sentimenti antisemiti, non si occupa di quanto avvenuto in seguito all’attacco, sicuramente da condannare, sferrato da Hamas contro Israele il 7 ottobre 2023 e che ha provocato una reazione che pare un vero e proprio massacro degli abitanti di Gaza. Intende, invece, descrivere – certo non in maniera approfondita, come si potrebbe fare solo in un libro – la situazione di Gerusalemme Est, della Cisgiordania e della Striscia di Gaza nei decenni precedenti, perché il presente non si può comprendere, né valutare, senza una qualche conoscenza del passato. A questo scopo, mi è sembrato utile consultare le informazioni diffuse dall’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e, in particolare, il testo La prigione più grande del mondo. Storia dei territori occupati di Ilan Pappé, un autorevole storico israeliano (docente all’Università di Exeter, in Inghilterra), rappresentante della Nuova storiografia israeliana, che si propone di sottoporre a un accurato riesame la documentazione relativa alla politica israeliana degli ultimi decenni nei confronti della Palestina.
Gerusalemme Est
Dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, le grandi potenze hanno riconosciuto agli ebrei, costretti a lasciare la loro patria al tempo della grande diaspora seguita alla terza guerra giudaica (132-135 d. C.), il diritto di avere un territorio con un proprio Stato. Quale territorio? Evidentemente quello conquistato, come attesta la Bibbia, dai loro padri: la terra promessa da Yahweh. Il territorio su cui è sorto lo Stato di Israele, però, non era disabitato: in quella terra viveva da tempo il popolo palestinese, costituito da arabi di religione musulmana! I rapporti tra israeliani e palestinesi, come era ovvio, sin dall’inizio non sono stati affatto pacifici ma segnati da una serie di conflitti.
Infatti, i popoli arabi non accettarono la spartizione della Palestina decisa dalle Nazioni Unite e, già nel 1948, subito dopo la proclamazione d’indipendenza d’Israele, invasero il territorio dello Stato ebraico, subendo una prima sconfitta. In seguito agli ulteriori conflitti promossi dai Paesi arabi, lo Stato israeliano ha continuato poi a estendere il proprio potere sui territori abitati dai palestinesi. Conseguenze particolarmente rilevanti ha avuto la Guerra dei sei giorni, del maggio del 1967, grazie alla quale (preavvertiti dai servizi segreti statunitensi dell’imminente attacco) gli israeliani – sconfiggendo le forze nemiche, egiziane, giordane e siriane, che si proponevano l’annientamento dello Stato di Israele – hanno occupato, tra l’altro, Gerusalemme Est, la Cisgiordania, sostanzialmente corrispondente alle regioni designate nella Bibbia col nome di Giudea e Samaria, e la Striscia di Gaza.
Tralasciando, per limiti di spazio, di parlare degli ulteriori conflitti, che si sono ripetuti periodicamente nel corso degli anni (guerre, intifade, atti di terrorismo); delle condizioni dei profughi palestinesi, ormai diventati milioni, che si sono rifugiati soprattutto in Giordania, Siria e Libano; dei vari tentativi di pacificazione, regolarmente falliti, ci chiediamo: qual è la situazione venutasi a creare in questi tre territori? Nel novembre del 1967, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU aveva adottato una risoluzione che imponeva di ristabilire i confini antecedenti alla guerra: le cose, in realtà, sono andate in maniera ben diversa!
Israele ha anzitutto mantenuto il possesso di Gerusalemme Est, occupandola grazie a demolizioni e costruzione di nuovi quartieri riservati agli ebrei, sebbene diverse risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite definiscano Israele Potenza occupante. Nel 2017 l’amministrazione statunitense guidata da Donald Trump ha predisposto il trasferimento dell’Ambasciata degli USA da Tel Aviv a Gerusalemme ma, prendendo le distanze dalla decisione statunitense, 81 ambasciate su 83 (97,6%) hanno mantenuto la loro sede nel Distretto di Tel Aviv.
E tuttavia il 18 luglio 2018 il parlamento israeliano ha approvato una legge che definisce ufficialmente lo Stato come “la casa nazionale del popolo ebraico”. La legge, che ha valore quasi-costituzionale (nel Paese non esiste una Costituzione) – oltre a contenere anche clausole che dichiarano una “Gerusalemme unita” quale capitale di Israele – sottolinea l’importanza dello «sviluppo degli insediamenti ebraici come valore nazionale», trasformando così lo Stato israeliano in uno Stato confessionale. Non stupisce il fatto che le associazioni impegnate nella difesa dei diritti umani abbiano denunciato questa legge come discriminatoria e razzista, in quanto pone ufficialmente i non ebrei – e quindi anche gli arabo-israeliani, che rappresentano circa il 20% dei nove milioni di abitanti del Paese – in una condizione di inferiorità sotto tutti gli aspetti politici, sociali ed economici.
Per quanto riguarda la Cisgiordania, poi, la situazione risulta particolarmente complessa, perché, a partire dal 1994, buona parte di questa regione dipende dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), ma è al contempo rivendicata da Israele, che questi territori ha di fatto annessi, anche se abitati prevalentemente da palestinesi. Così, pur occupando illegalmente la Cisgiordania, Israele non può espellerne i palestinesi, ma nemmeno integrarli come cittadini con pari diritti, perché il loro numero e la loro crescita demografica metterebbero in pericolo la posizione preminente degli ebrei.
Allora, cosa fare? Israele ha fondato comunità e costruito case abitate solo da ebrei, rivendicando il proprio legame col territorio, sul quale esercita un controllo militare. Ancora oggi, infatti, una parte degli israeliani ritiene che quei territori appartengano al popolo ebraico per ragioni culturali e religiose, e che Israele le abbia conquistate sul campo nella Guerra dei sei giorni, respingendo perciò l’accusa di occupare una terra che appartiene ad altri. I governi permettono, specialmente ai fondamentalisti, di formare enclave teocratiche, autorizzate a svolgere un ruolo di “militarizzazione” del territorio abitato da palestinesi.
Questa politica è stata promossa da partiti di estrema destra? Affatto, sottolinea Pappé:
il «governo [che ha preso tali decisioni] era espressione del più ampio consenso sionista immaginabile: intorno a quel tavolo […] erano rappresentate ogni corrente ideologica e ogni prospettiva. […] Ciò che quei ministri decisero nella seconda metà del giugno 1967 […] è rimasto fino a oggi la pietra angolare della politica israeliana» [1].
Nel corso degli anni, infatti, i vari governi hanno messo in pratica, con maggiore o minore impegno, la cosiddetta ‘strategia del cuneo’, fondando colonie in località distanti l’una dall’altra e rivendicando poi, come esclusivamente ebraica, l’area che si frappone fra Israele e il nuovo insediamento, comprese le strade che vi conducono. Si è creata, così, una continuità territoriale tra gli insediamenti ebraici e una parallela discontinuità fra città e villaggi palestinesi, privati dell’integrità geografica, perché inseriti in un’area sempre più estesa di territori annessi a Israele.
Il risultato? I palestinesi si trovano in una condizione di inferiorità giuridica, in quanto privi dei diritti di cui godono i cittadini ebrei, il che tra l’altro li ha posti nell’impossibilità di organizzare attività imprenditoriali che favoriscano un autonomo sviluppo della loro economia. La loro principale fonte di guadagno, infatti, è costituita dai posti di lavoro offerti dagli ebrei, anche se si tratta di reclutamento di forza lavoro a basso costo, a cui si aggiungono, come unica altra risorsa, gli aiuti internazionali.
In sostanza «Nel 1967 – scrive Pappé – Israele trasformò un milione e mezzo di individui in detenuti di un mega-carcere. Non si trattava però di una prigione riservata a pochi detenuti incarcerati a torto o a ragione: essa fu imposta a una società nella sua interezza». In Cisgiordania, in effetti, fu attuata una gestione amministrativa, legale e militare modellata su quella progettata per le zone arabe all’interno di Israele. Il governo si riserva ancora oggi il diritto, per esempio, di dichiarare interi villaggi “aree militari chiuse” o di autorizzare arresti a tempo indeterminato, senza motivazioni né processo. Si realizza così la soluzione, apparentemente contraddittoria, di “annessione-non annessione”: cioè annessione della terra, ma non della gente che vi abita.
Quasi ogni città è circondata da un muro o da una recinzione, e ci si può entrare solo dopo rigidi controlli, compiuti dall’esercito o da guardie di sicurezza o dagli abitanti stessi, magari armati di mitra o altre armi da fuoco, sicché gli scontri con i palestinesi che abitano nelle zone circostanti sono, come è naturale, molto frequenti. Questi, inoltre, non hanno piena libertà di circolazione all’interno della Cisgiordania e, se è vero che essa «non si trova sotto assedio come la Striscia di Gaza, tuttavia i movimenti in ingresso e in uscita sono estremamente limitati».
Tutti, o quasi, i governi israeliani hanno di fatto favorito la creazione di tali insediamenti, garantendo ai loro abitanti i principali servizi di cui gode ogni cittadino israeliano: acqua, energia, raccolta dei rifiuti, disponibilità di case popolari e così via. Ovvio effetto di tale politica è stato l’aumento della popolazione ebraica: mentre all’inizio degli anni Novanta gli ebrei in Cisgiordania erano poco più di 100mila, secondo le ultime stime ora sono circa 450mila, a cui vanno aggiunti i circa 220mila che vivono nella zona di Gerusalemme est.
E tutto ciò è stato possibile anche grazie all’atteggiamento della comunità internazionale, e in particolare degli Stati Uniti che hanno quasi sempre concesso libertà d’azione ai governi israeliani. La concomitanza di tre obiettivi contraddittori – conservare i territori, non espellerne gli abitanti ma non concedere loro la cittadinanza – era destinata, secondo Pappé, a produrre una realtà disumana, quella appunto di una prigione imposta a una intera società.
Striscia di Gaza
Passando, infine, alla Striscia di Gaza – una regione costiera di 360 km², confinante con Egitto, Israele e Cisgiordania – va detto che questo territorio, prima controllato dall’Egitto, con la guerra del 1967 viene assoggettato, come Gerusalemme Est e Cisgiordania, all’autorità israeliana, che opera con modalità simili a quelle messe in atto nelle altre zone conquistate.
In seguito agli Accordi di Oslo del 1994 tra palestinesi e israeliani, questi ultimi cominciano a lasciare la Striscia – con un’operazione che si completerà nel 2005 – che passa così sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese. Ma nelle elezioni del 2006, svoltesi regolarmente secondo gli osservatori internazionali, questa ha un buon risultato in Cisgiordania ma perde nella Striscia, dove vince il Movimento Islamico di Resistenza (Hamas), un’organizzazione politica palestinese islamista, che non è disposta a riconoscere lo Stato di Israele e che ha un’ala militare, considerata terroristica dagli Stati Uniti e dai loro alleati. Piuttosto che accettare la collaborazione con Hamas, l’Autorità Nazionale Palestinese decide di ricorrere alle armi ma viene militarmente sconfitta, così che dal 2007 la Striscia è governata solo da Hamas, che non fa mistero di voler combattere con ogni mezzo la politica coloniale di Israele.
Il territorio di Gaza è però ancora soggetto al potere israeliano, che controlla lo spazio aereo e marittimo, lo spazio elettromagnetico e il movimento di merci e persone che entrano ed escono dalla Striscia. Israele, infatti, ha mantenuto un embargo rigoroso, controllando tutti i principali beni di consumo che vengono introdotti nell’area, allo scopo, in particolare, di assicurarsi che non siano portate armi a Gaza.
Quali le conseguenze per una regione in cui la popolazione (più di due milioni di abitanti, dei quali circa un milione e duecentomila rifugiati palestinesi) ha una densità molto elevata, superiore a 5.500 persone per km2 (per fare un confronto, in Italia la densità media è di 196 persone per km2), l’età media è inferiore ai 20 anni e i minorenni sono circa un milione, cioè quasi la metà del totale? È facile immaginare le condizioni di estrema povertà in cui vivono gli abitanti della Striscia: la situazione economica è ovviamente disastrosa, tanto che, secondo le stime dell’ONU, buona parte della popolazione dipende dagli aiuti internazionali per sopravvivere e accedere ai servizi di base. Evidenti, poi, i danni a livello psicologico, specialmente per i bambini e gli adolescenti, che non hanno mai conosciuto una vita senza il blocco o vissuto un’infanzia normale, cosicché migliaia di loro hanno un disturbo da stress post-traumatico e soffrono di depressione e paura.
Le condizioni disumane create «a Gaza hanno reso impossibile per la gente che vi abita adattarsi alla prigionia che qui Israele continua a imporre dal 1967». È inevitabile rifiutarsi di vivere in una grande prigione, e quindi Hamas ha reagito costruendo dei tunnel sotterranei, che dalla Striscia di Gaza passano sottoterra per varcare il confine con l’Egitto e per arrivare in Israele. Questi tunnel sono importanti per i civili perché consentono di fare arrivare beni di consumo e farmaci all’interno della Striscia e della città di Gaza, ma sono pure utilizzati dai gruppi armati per organizzare attentati in territorio israeliano, in risposta alle violenze e alle inaccettabili condizioni di vita. Così Hamas, se da un lato «ha dato del filo da torcere agli israeliani, dall’altro li ha anche aiutati a bollare la lotta palestinese come parte di una forza islamica globale antioccidentale impegnata in uno scontro di civiltà», facendo così, al di là delle intenzioni, il gioco di Israele.
Venendo all’oggi
Se questa è la situazione creatasi, nel corso dei decenni, dei rapporti tra israeliani e palestinesi, diventa allora chiaro che la politica dell’attuale governo non costituisce affatto una rottura con il passato. Si sta solo portando alle estreme conseguenze una linea da sempre perseguita: l’eliminazione di ogni possibilità che si formi uno Stato palestinese. Ed è perciò un puro chiacchiericcio quello dei politici e delle autorità internazionali che continuano a sostenere, ma solo a parole, la creazione di due Stati, come se non sapessero che tale soluzione è in realtà rifiutata da entrambe le parti.
Certamente non è possibile accusare gli ebrei in quanto tali di essere responsabili delle atrocità commesse in seguito all’orribile attacco di Hamas del 7 ottobre, ma non si può negare che sarebbe stato impossibile arrivare a tanto se un certo orientamento politico non avesse goduto per tanti anni del consenso di buona parte della popolazione israeliana. Come scrive Pappé, non sarebbe giusto «demonizzare la società israeliana nel suo complesso, sebbene tra i suoi membri in parecchi diano il proprio sostegno al mega-carcere mentre molti altri scelgono di chiudere un occhio».
E bisognerebbe aggiungere: oggi non si sarebbe arrivati a tanto se i Paesi che si dicono democratici, e in particolare gli Stati Uniti, non avessero chiuso per decenni tutti e due gli occhi di fronte all’espulsione di milioni di persone dalle loro case, ai territori occupati in dispregio delle delibere dell’ONU, alla pulizia etnica, agli insediamenti illegali, al regime di apartheid e alla soppressione dei diritti civili dei palestinesi. E non sarebbe accaduto che gli Stati Uniti mettessero il veto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu su una risoluzione araba per l’immediato cessate il fuoco a Gaza perché «non è il momento di una tregua permanente» (ANSA 20/2/2024). Solo il successivo 25 marzo una nuova risoluzione sarà approvata con astensione degli USA; risoluzione del resto ignorata da Israele, che proseguirà con i bombardamenti.
Non sarebbe stato certo possibile che il Ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant, annunciando per la Striscia il blocco delle forniture di cibo, acqua, elettricità e carburante, dichiarasse: «Combattiamo animali umani e agiamo di conseguenza» (ANSA 9/10/2023). Né che il Ministro delle Finanze Bezalel Smotrich affermasse che «Israele deve favorire l’emigrazione in massa dei palestinesi dalla Striscia di Gaza affinché siano accolti altrove e rifarsi così un’esistenza in maniera umana» (ANSA 31/12/2023).
Il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, non avrebbe chiesto la fine di quello che già a novembre appariva un vero e proprio massacro: «Stiamo assistendo a un’uccisione di civili che non ha eguali ed è senza precedenti in qualsiasi conflitto da quando sono Segretario Generale» (ANSA 20/11/2023). E a gennaio il Sudafrica non avrebbe denunciato alla Corte internazionale di giustizia la “violazione” della Convenzione sul genocidio da parte di Israele (ANSA 11/01/2024).
Non sarebbe stato possibile, insomma, che Israele, per sconfiggere definitivamente Hamas, provocasse la morte di oltre 30 mila uomini, donne e bambini palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza, negandone la dignità di esseri umani.
Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024
Note
[1] I. Pappé, La prigione più grande del mondo. Storia dei territori occupati, Roma 2022, ed originale 2017. Le frasi riportate tra virgolette, se non altrimenti specificato, si riferiscono a questo libro.
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Elio Rindone, docente di storia e filosofia in un liceo classico di Roma, oggi in pensione, ha coltivato anche gli studi teologici, conseguendo il baccellierato in teologia presso la Pontificia Università Lateranense. Per tre anni ha condotto un lavoro di ricerca sul pensiero antico e medievale in Olanda presso l’Università Cattolica di Nijmegen. Da venticinque anni organizza una “Settimana di filosofia per… non filosofi”. Ha diverse pubblicazioni, l’ultima delle quali è il volume collettaneo Democrazia. Analisi storico-filosofica di un modello politico controverso (2016). È autore di diversi articoli e contributi su “Aquinas”, “Rivista internazionale di filosofia”, “Critica liberale”, “Il Tetto”, “Libero pensiero”.
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