Stampa Articolo

Gaza Riviera: un progetto di deportazione come operazione immobiliare

Esodo palestinese, 1948

Esodo palestinese, 1948

di Chiara Sebastiani 

1. I due significati del termine deportazione 

«Ai fini del presente Statuto, per crimini contro l’umanità si intende uno qualsiasi degli atti di seguito elencati, se commesso nell’ambito di un esteso o sistematico attacco contro popolazioni civili, e con la consapevolezza dell’attacco:

d) Deportazione o trasferimento forzato della popolazione»

(Statuto di Roma della Corte penale Internazionale, Art. 7 Crimini contro l’umanità) 

Le definizioni della parola “deportazione” nei principali dizionari (Treccani, Cambridge, Merriam Webster, Oxford) si articolano intorno ad una dicotomia fondamentale: deportazione di migranti e deportazione di nativi. Nel primo caso la deportazione viene variamente argomentata ma sempre a partire dall’idea che i deportati sono “irregolari”, “illegali” comunque in situazione di contrasto con le leggi del Paese. Non a caso “deportazione” in questo senso ha un connotato specificamente penale, tant’è che può trattarsi di una condanna o una pena accessoria. Nel secondo caso si tratta invece del trasferimento forzato di popolazioni civili, variamente giustificato dalla ragion di stato o da uno stato di fatto post-bellico, e sempre legato all’individuazione, sulla base di criteri etnico-culturali, di un nemico collettivo. La deportazione, in questo secondo senso, ha per corollario l’appropriazione delle terre di quest’ultimo: suoi sinonimi eufemistici sono espropriazione o relocation.

Oggi i media ci hanno assuefatto soprattutto all’uso del termine nel primo senso: l’espulsione di migranti – intesi in senso lato come persone prive di cittadinanza o di titolo di permanenza nel Paese in cui si trovano – mediante trasferimento forzato in altri Paesi quando non è possibile il rimpatrio nel Paese di origine. Il Regno Unito ha firmato un accordo per la deportazione di migranti in Ruanda; l’Italia si accontenta di spostarli nella assai più vicina Albania. Vi sono poi le deportazioni manu militari con Paesi senza i quali non c’è nessun accordo formale: si è parlato dei migranti sub sahariani prelevati dai militari in Tunisia e abbandonati nel deserto ai confini con la Libia – una brutta storia i cui contorni sono poco chiari ma che i media hanno etichettato come “deportazione”, termine che però viene sostituito da “respingimenti” quando ad operare nelle aree di confine montagnose (Francia), marittime (Italia, Malta), forestali (Polonia, Bulgaria) sono stati membri dell’Ue.

Del resto l’indignazione occidentale per procedure che violano ripetutamente i diritti umani è apertamente selettiva: esse vengono presentate con una varietà di termini che vanno da quelli più appropriati (deportazione) a sinonimi edulcorati (respingimenti) a veri e propri eufemismi (rimpatrio o trasferimento volontario) a seconda che si stia parlando di amici o nemici. Il caso dell’Italia è tipico: basti pensare alla diversa rappresentazione data a suo tempo al memorandum di intesa con la Libia (“contrasto all’immigrazione illegale”) di Minniti e al decreto sicurezza bis (“sequestro di persona”) di Salvini.

Mentre le miserevoli polemiche ed ipocrisie sulla pelle dei migranti appaiono più strumenti di lotta politica che sincera difesa del diritto umano di spostarsi a piacimento su questa terra che non è una proprietà degli uomini ma un deposito di fiducia ad essi affidato – perché «gli uomini hanno il diritto di esistere, non gli Stati» [1]  – assai minore indignazione suscita lo sdoganamento della deportazione nel secondo significato del termine, ovvero lo spostamento forzato di massa della popolazione civile dalla propria terra di appartenenza e di legale residenza fuori dai confini sui quali uno Stato rivendica, di diritto o di fatto, la propria potestà. Anche questa pratica è familiare all’Occidente moderno e contemporaneo e non dobbiamo limitarci a ricordare il genocidio ebraico della Germania nazista o le politiche etniche dell’Urss stalinista. Questi capitoli della storia, infatti, sono stati talmente studiati, insegnati, ricordati e trasmessi che hanno finito, paradossalmente, per alimentare la buona coscienza dell’Occidente che guardando ad essi con giusto disgusto guarda poi sé stesso con compiacimento dicendo: “Io per fortuna non sono così!” 

È il caso allora di soffermarci su alcuni esempi meno conosciuti. La storia degli Indiani d’America per esempio, che ha poco a che fare con gli scontri tra cowboy e indiani che hanno formato la cultura di generazioni in Occidente attraverso libri e film. È stata una storia di vere e proprie deportazioni decretate, dall’Indian Removal Act (1830) che, per “motivi di sicurezza nazionale”, prevedeva la rimozione delle tribù native americane oltre il fiume Mississippi. Questa rimozione venne implementata attraverso marce forzate in quello che è passato alla storia come il “sentiero delle lacrime” nel corso del quale molti Indiani persero la vita per fame, freddo e malattie. Resa possibile da trattati capestro a danno dei nativi, questa espulsione degli Indiani dalle loro terre verso insediamenti molto più ristretti divenuti “riserve” è stata presentata talvolta come “emigrazione volontaria”.

Nel Sudafrica contemporaneo, a sua volta, è ancora aperta la ferita della deportazione degli abitanti di District Six, un vivace multi-etnico quartiere di Città del Capo, nato nell’Ottocento. In attuazione della politica dell’apartheid sancita dal Group Areas Act (1950) nel 1966 esso fu dichiarato “territorio per soli bianchi”. 60 000 residenti vennero deportati nelle zone desertiche circostanti e ricollocati nelle townships mentre tutte le vecchie abitazioni vennero rase al suolo. Oggi un museo raccoglie le testimonianze di questa deportazione: è stato costruito con immagini, foto, memorie, oggetti che negli anni vi ha conferito una comunità decimata, a memoria di una cultura distrutta.

658e92357ddaf83a37526e47323880e7e339b4c0L’Indian Removal Act ha più di cent’anni, il Group Areas Act ne compie oggi settantacinque e ha seguito di appena due anni quella che i Palestinesi chiamano la Nakbah, la catastrofe che vide l’espulsione di almeno 700 000 palestinesi dalla loro terra in quella e che, anche per parte della più recente storiografia israeliana, fu una “epurazione etnica vera e propria” [2]. L’Indian Removal Act, il Group Areas Act e la Nakbah che non ha indossato nessuna maschera giuridica configurano tre tipi diversi di deportazione nel senso di trasferimento forzato di intere popolazioni: rispettivamente tramite occupazione, legislazione, guerra. Queste deportazioni non hanno una base penale: sono operazioni di pulizia etnica giustificate dalla “sicurezza nazionale” o anche dalla “sicurezza urbana” come nel caso di District Six, rappresentato come luogo in cui la convivenza interetnica generava conflitti e la povertà attività illegali quali il gioco d’azzardo, la prostituzione, l’alcolismo.  Normalmente, quale che sia il mezzo con le quali vengono attuate, dietro le operazioni di deportazione, ovvero di pulizia etnica, vi sono segreti o palesi appetiti per terre vergini come quelle dell’ovest americano o per aree pregiate come quella di District Six, vicina al centro della città, al mare e al porto.

Se la storia si ripete, il linguaggio però cambia e mai, prima di oggi, una deportazione è stata presentata come operazione immobiliare. Se sono tipiche della storia urbana moderna le operazioni immobiliari che comportano i trasferimenti di abitanti da quartieri destinati alla riqualificazione verso nuovi insediamenti periferici e mal serviti [3], le deportazioni collettive su base etnica fino ad oggi sono state presentate con il linguaggio della politica (ricordiamo che l’uso della forza contraddistingue lo spazio politico dallo spazio economico il cui strumento è il denaro). L’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca e la sua presentazione di un piano per Gaza quale soluzione per l’epicentro del conflitto mediorientale aprono uno scenario inedito nell’ordine mondiale: le deportazioni come occasioni di operazioni immobiliari.  

2.  “Gaza Riviera”: un progetto di pulizia etnica 

«In effect, Trump has released from the bottle the secret wishes of many Jews in Israel, who do not believe in the prospects of living alongside Arabs on the same strip of land. ‘It’s us or them,’ in the right wing’s version, or ‘us here and them over there,’ in the left wing’s formulation… The demon of ethnic cleansing that was let out of the bottle of political correctness and respect for human rights, a demon which was in hiding until now, will be hard to put back in the bottle» – Aluf Benn, Haaretz, 9-2-25 

9788829021901Il 19 gennaio del 2005 – nella fase del passaggio di consegne tra il presidente americano uscente Biden e il presidente neo-eletto Trump – una fragile tregua ha messo fine a quindici mesi di bombardamenti, invasioni via terra, massacri indiscriminati, spostamenti forzati, fame, sete e malattie della popolazione di Gaza [4]. Prevede, in più fasi, il rilascio degli ostaggi catturati il 7 ottobre in cambio della liberazione di centinaia di prigionieri politici palestinesi, la riapertura della circolazione lungo tutta la Striscia di Gaza tagliata in due dall’esercito di occupazione israeliano, il rientro degli sfollati nella zona nord della Striscia da cui erano stati espulsi, l’apertura dei valichi di frontiera all’ingresso di generi di prima necessità, e il ritiro completo dell’esercito israeliano dal territorio. Mentre i Palestinesi lo considerano una vittoria – sia pure pagata ad un prezzo altissimo – dentro Israele le voci critiche sono numerose: uno dei due ministri di estrema destra su cui si regge il governo esce dalla coalizione; dentro la stessa maggioranza si fa osservare che i termini dell’accordo sono gli stessi di quello elaborato dai negoziatori e fatto saltare dal premier israeliano mesi prima.

Gli analisti hanno detto che sono state decisive le pressioni di Trump, tramite il suo inviato, sul premier israeliano Netanyahu e che il neo-presidente si è speso di più in ventiquattro ore di quanto non abbia fatto Biden in sei mesi. Ma se qualcuno si illudeva che questo significasse la fine dell’incondizionato appoggio degli Usa ad Israele ha presto dovuto ricredersi. Trump ha semplicemente fatto capire che non sarebbe più stato Israele, come un pargolo capriccioso, ad imporre agli Usa le proprie decisioni nell’ambito del conflitto; da ora in poi sono gli Usa, come un padre ricchissimo e benevolo, a indicare al figlio prediletto la via da seguire per ottenere i propri scopi. E a Netanyahu, primo capo di stato ad essere ricevuto alla Casa Bianca dopo l’insediamento di Trump, il padre aveva preparato una sorpresa, un magnifico regalo spacchettato in diretta. Davanti ai microfoni rumoreggianti della stampa mondiale Trump ha presentato il suo piano per Gaza: il trasferimento di tutti gli abitanti (oltre due milioni) della Striscia di Gaza da una terra descritta come “un cumulo di macerie”, dove la vita sarà impossibile per i prossimi quindici anni, in qualche nuovo posto “bello e sicuro” dove potranno “ricominciare da capo”.

Il giorno dopo, dalle cancellerie di mezzo mondo si alza “un coro di no” mentre nello spazio pubblico mediatico e virtuale è un fiorire di sarcasmi sotto forma di vignette, barzellette, murales. E tuttavia, malgrado le apparenze, la legittimazione della pulizia etnica è incominciata. Per capirlo basta passare in rassegna la stampa tra il 5 febbraio – giorno in cui Trump lancia il suo piano per Gaza – e il 16 febbraio, quando la notizia del giorno è lo scambio di altri tre ostaggi israeliani con 369 prigionieri politici palestinesi, in ottemperanza ai termini della tregua. La dichiarazione di Trump ha “aperto un dibattito”. Se la proposta ha suscitato, prevedibilmente, il plauso incondizionato di Netanyahu, se il suo ministro Smotrich l’ha definita “una grande idea”, la stampa italiana ha prodotto analisi, interpretazioni, valutazioni, scenari. In esse non vi è quasi nessun accenno al diritto internazionale anche se “Deportazione o trasferimento forzato della popolazione” figura al comma d) dell’articolo 7 dello Statuto di Roma tra i “Crimini contro l’umanità”.

I commenti si sono invece articolati in primo luogo sulle rappresentazioni di Gaza nell’immaginario trumpiano, in secondo luogo sui costi, la fattibilità, gli attori e i stakeholders del piano, in terzo luogo sulle critiche. Così in primo luogo abbiamo avuto immagini ironiche: si è parlato di “Gaza resort”, di “Riviera del Medio Oriente”, di “Parigi del Mediterraneo” (come Beirut negli anni Settanta). Sono state avanzate ipotesi intorno all’acquiescenza dei Paesi nei quali i gazawi potrebbero essere deportati, alle reazioni dei Paesi arabi, a trattative segrete, alla cifra che Trump avrebbe promesso ad presidente egiziano Al-Sisi per ogni abitante di Gaza accolto in Egitto. Nel corso di queste discussioni nessuno ricorda gli scenari precedenti la Shoah in Germania che pur sono oggetto di continua rievocazione.  Si tace così sul paradosso storico per cui le stesse nazioni occidentali che oggi prendono in considerazione la deportazione di un popolo che vuole restare sulla propria terra ieri concedevano con il contagocce i visti di ingresso agli ebrei che tentavano disperatamente di uscire dal Reich [5].  E tra i primi a definire il piano di Trump un progetto di pulizia etnica non sono né i media né i politici europei ma il quotidiano israeliano Haaretz [6].

9780691136455Gli analisti dei media parlano di “temi mediatici” come contenuti rilanciati dai media in termini problematici. Sostengono che non è importante la posizione che i diversi media prendono sulla controversia ma la risonanza data alla controversia medesima. Non è importante che cosa la pubblica opinione pensi della deportazione dei palestinesi, l’importante è che ci pensi e che ne parli perché a questo punto la prospettiva è già stata legittimata, l’impensabile è già diventato pensabile. E la deportazione viene sempre più a configurarsi come una “soluzione finale” della questione palestinese. Senza nessuna somiglianza storica, sia ben chiaro, se non altro perché Trump sposta la questione dal campo politico (che usa le armi) al campo economico (che usa il denaro). Ma la finalità in ultima analisi è la stessa. La riformulazione dell’obiettivo permette di sostenere che grazie a Donald Trump è finalmente crollata «l’idea più distruttiva degli ultimi cento anni: la Palestina” [7] dando voce e legittimità ai “desideri segreti di molti ebrei d’Israele».

La deportazione dei palestinesi viene legittimata, nell’intervento di Trump, dalla trasformazione di Gaza come territorio e quindi fatto politico – luogo di esercizio del potere legittimo e spazio di riconoscimento dei diritti di cittadinanza [8] – in terreno come fatto fondiario, quindi monetizzabile e acquisibile poiché il terreno, a differenza della terra, ha un valore puramente commerciale e può passare di mano in mano. Del resto uno slittamento semantico, in senso opposto, dal terreno come fatto fondiario al territorio come fatto politico è alle origini stesse dello Stato di Israele, un progetto promosso con l’acquisto di terreni da parte degli immigrati ebrei (e la loro vendita da parte dei latifondisti arabi) e portato a compimento con un piano di spartizione basato sul valore dei terreni [9]. Oggi Trump ripropone lo stesso slittamento semantico in senso inverso, trasformando la terra dei Gazawi – delle loro radici, delle loro memorie, delle loro case, dei loro manufatti, della loro storia – in terreno commerciabile, edificabile, valorizzabile. In questo senso la deportazione sarebbe il coronamento del processo portato avanti da anni dai colonizzatori israeliani, volto a cancellare le tracce degli abitanti precedenti, ad archeologizzare i loro villaggi, ad appropriarsi della loro cultura. 

3. L’urbicidio come strumento di pulizia etnica 

«Even if we assume for a moment that Egypt and Jordan would agree to accept Palestinians from Gaza and that the wealthy Arab states would fund their expulsion and resettlement and finance the Palestinians’ stay there over time, what would Israel do if the Gazans refused to get on the trucks and emigrate ‘voluntarily’? Would their expulsion resemble the deportation of the Armenians from Turkey or the forced displacement of millions of Caucasus inhabitants during Stalin’s era? Or would it be more like the expulsion of Germans from Poland after World War II? The answer to this question could well lead Israel to horrifying places. We must therefore hope the Arab roadblocks succeed in removing this idea from the agenda» – Zvi Bar’el 
Gaza (ph. Islamic Relief)

Gaza (ph. Islamic Relief Italia)

Questo processo culmina in quello che – con un termine diventato ormai un efficace concetto esplicativo – possiamo chiamare l’ “urbicidio” di Gaza. Che Gaza sia una realtà fondamentalmente urbana lo dicono i dati a nostra disposizione. I semplici dati geografici: oltre due milioni di abitanti, su 365 chilometri quadrati, quasi 6000 abitanti per chilometro quadro, uno degli habitat più densi del mondo. Il doppio di Bruxelles, la metà di Madrid. 40 chilometri la distanza tra nord e sud, si percorreva in mezz’ora prima della guerra. Larghezza massima 12 chilometri. E, più ancora delle immagini della città, lo dicono quelle della distruzione e i dati che le accompagnano. Non sono stati distrutti campi e villaggi ma palazzi di cemento armato, ospedali, scuole, università, moschee e chiese, negozi e mercati. Per ovvie ragioni mandano ancora oggi dati scientificamente aggiornati. È utile però, per farsi una idea sia del contesto urbano di Gaza, sia dell’entità delle distruzioni operate, leggere il report di UN Habitat, Gaza Urban Profile [10] del dicembre 2014 che dà conto dell’operazione “Margine Protettivo” tra l’8 luglio e il 26 agosto 2014 e del suo impatto sulle strutture urbane, i quartieri e gli abitanti di Gaza. Una regione altamente urbanizzata, con un 74% di popolazione urbana e un tasso di crescita urbana del 3,1%, dieci anni fa: alla vigilia del 7 ottobre la popolazione era di 2 400 000 abitanti.

Urbicidio è un concetto introdotto durante le guerre di dissoluzione della Repubblica jugoslava da Bogdan Bogdanovic, architetto ed ex sindaco di Belgrado (e forte oppositore di Milosevic), per indicare la distruzione del patrimonio storico, monumentale, abitativo e culturale del nemico.  È un «mezzo di dominazione, di atterrimento, di annichilimento, di divisione» il cui obiettivo non è la sconfitta del nemico «ma la pulizia etnica, un genocidio condotto con altri mezzi, o una riscrittura della storia dal punto di vista del vincitore» come spiega Robert Bevan, autore di un libro sull’architettura in guerra, citato da Francesco Mazzuchelli nel suo studio sulla distruzione e la ricostruzione di Belgrado, Sarajevo e Mostar (che non mette sullo stesso piano) [11]. Se la pratica di radere al suolo le città nemiche esiste fin dall’antichità, la moderna guerra aerea, che permette di attaccare il nemico dal cielo senza penetrare il territorio «ha amplificato a dismisura il potere distruttivo delle azioni indirizzate contro le città». E tuttavia, aggiunge Mazzuchelli, la logica contemporanea non è molto diversa da quella antica: «fiaccare il morale del nemico … e, soprattutto, annichilire la sua memoria collettiva attraverso la cancellazione sistematica di uno dei suoi luoghi più tipici, la città appunto, con i suoi monumenti, le sue piazze, i suoi palazzi del potere, i suoi simboli identitari».

Dopo il 7 ottobre Israele reagì con un bombardamento a tappeto di Gaza. Il progetto era quello di terrorizzare la popolazione con attacchi indiscriminati dall’alto e annichilirne la resistenza con la fame in una combinazione delle tecniche più moderne con quelle più antiche. Lo spiegava bene, poche settimane dopo il 7 ottobre, la giornalista Cecilia Sala in un servizio televisivo: se l’esercito occupante non era ancora entrato a Gaza era perché «non li hanno ancora fiaccati abbastanza». L’impatto dei bombardamenti che per quindici mesi non sono mai cessati, anche dopo che l’esercito israeliano era entrato nella Striscia, ce lo raccontano le immagini che con enormi difficoltà riuscivano ad uscire dalla Striscia, quelle che abbiamo potuto vedere dopo l’entrata in vigore della tregua, e le cifre che alcune organizzazioni incominciano a fornire: 60% di edifici danneggiati o distrutti (oltre al 70% delle strade danneggiate e distrutte e al 70% delle serre e degli alberi da frutta) sono i dati forniti nell’ottobre 2024 da un sito che si avvale di strumenti satellitari e ricercatori accademici americani [12].La BBC, citando UN Habitat, alza la stima del numero di unità abitative danneggiate o distrutte al 90% del totale all’inizio del 2025, subito dopo l’accordo sulla tregua [13].

È su queste cifre che si basa la proposta di deportazione dei Palestinesi, ormai diventata il “Piano Riviera” anche per chi ne prende le distanze. Perché urbicidio significa anche questo: il passaggio dal linguaggio della politica a quello del mercato, dalle parole degli abitanti alla terminologia degli immobiliaristi, dalla semantica delle memorie, delle tracce, dei segni di un popolo alla stima dei costi e benefici dell’investimento, al netto del costo della rimozione delle macerie, mentre il marketing urbano e il city branding di Gaza lo sta già facendo, gratis et pro bono suum, Donald Trump. Se la guerra antica era saccheggio e la guerra moderna urbicidio, forse solo con il piano del presidente americano siamo entrati in uno scenario post-moderno: dall’assoggettamento politico di una terra e di un popolo alla fondiarizzazione della prima con la deportazione del secondo come corollario.

In questo contesto l’urbicidio è la premessa per trasformare i luoghi in siti – «the place is a demolition site», un cantiere di demolizione, ha detto Trump a proposito di Gaza, che dopo la rimozione delle macerie diventerà un “sito immobiliare” – le città in locations (“Gaza is a phenomenal location”), il territorio in proprietà fondiaria che – «sono ben deciso a comperare e possedere» [14]. E prosegue: «Ciò che resta verrà abbattuto» – proprio mentre la gente di Gaza, dopo la tregua, fa ritorno a “ciò che resta” delle proprie case, dei propri quartieri, delle proprie città, scavando alla ricerca di corpi e alla ricerca di ricordi («Ho ritrovato la mia giacca preferita e questo mi ha consolato» racconta una ragazza). Lo ascoltano senza fiatare una Europa attonita dove il recupero di segni di vita dalle macerie è pratica secolare, una Germania che ha ricostruito pezzo per pezzo Dresda rasa al suolo all’immagine somiglianza della Dresda antica, un’Italia dove l’invocazione popolare «Dov’era, com’era!» riecheggia regolarmente all’indomani di catastrofi, crolli, terremoti che abbiano distrutto monumenti o interi paesi, come progetto di ricostruzione [15].

L’Europa culla della civiltà urbana, cultrice della memoria, che ha portato alla massima raffinatezza l’arte del recupero e del restauro sembra non aver nulla da dire sull’urbicidio di Gaza e sul piano di deportazione dei Palestinesi, complemento necessario dell’urbicidio affinché possa realizzarsi un progetto politico mascherato da operazione immobiliare, una pulizia etnica mascherata da intervento umanitario. Ma cosa succederebbe, scrive su Haaretz Zvi Bar’el, «se i Gazawi rifiutassero di salire sui camion ed emigrare ‘volontariamente’? … La risposta a questa domanda potrebbe portare Israele verso lidi orripilanti». Ebbene, è proprio quello che sta succedendo. Anziché “salire sui camion” e premere verso i valichi chiedendo a gran voce di uscire da quello che è stato chiamato “l’inferno di Gaza”, e prima ancora che venisse riaperto il passaggio del corridoio di Netzarim che esteso da ovest a est ha tagliato la Striscia, la gente di Gaza si è ammassata sulla via Salaheddin che collega il sud e il nord. Gli sfollati al sud si sono diretti al nord a piedi, portando le masserizie a spalla, o su carretti trainati da muli, o su automobili traballanti. «Tra i veicoli che traballavano e ondeggiavano sulla polverosa strada sterrata c’erano camion su cui si impilavano montagne di beni domestici, coperte, tappeti, mobili» [16].  E un assaggio di quello che potrebbe succedere lo hanno dato le forze dell’esercito israeliano, sparando a vista e uccidendo tre palestinesi che si erano avvicinati alla fascia di sicurezza intagliata dagli occupanti all’interno della Striscia – una fascia profonda un chilometro in un territorio che nel suo punto più largo misura dodici chilometri. 

4. Le voci di Gaza 

Bisogna continuare a trasmettere immagini e parole di Gaza (Wael Al-Dahdouh, 11-2-2025) 
Gaza (ph. Islamic Relief)

Gaza (ph. Islamic Relief Italia)

Le voci di Gaza – cioè degli abitanti di Gaza – che si alzano da questo scenario apocalittico sono flebili, quasi sommerse dalle voci dei signori della terra e della guerra che ancora una volta discutono dei palestinesi come se essi non esistessero, della loro terra come res nullius. La Striscia è sigillata da quindici mesi e i giornalisti non possono entrarvi. I giornalisti palestinesi che in questi quindici mesi a Gaza hanno operato lo hanno fatto a rischio della loro vita. Duecento giornalisti sono morti, alcuni fatti oggetto di attacchi mentre lavoravano in diretta. Hanno tentato in tutti i modi di attirare l’attenzione del mondo, dei loro confratelli, hanno pubblicato video di protesta cui i media occidentali non hanno dato quasi nessuno spazio. Un operatore della Ong Islamic Relief, nel corso di un incontro con alcuni sostenitori, dopo l’entrata in vigore della tregua, ha detto: «Ciò che arriva ai media è soltanto il 50% di quello che a Gaza succede davvero, di quello che la gente vive realmente. Nel nord di Gaza ci siamo dovuti spostare venticinque volte. E la gente qui mangia le foglie. Distribuire pasti caldi è una priorità assoluta».

Lo conferma Wael al-Dahdouh, capo redazione di Al Jazeera, oggi un eroe del giornalismo di guerra, in apertura di una conferenza stampa alla Camera dei Deputati di Roma l’11 febbraio, a ridosso della fragile tregua in corso. Proprio perché ciò che esce da Gaza in termini di notizie è una minima parte di ciò che si vive dentro, la missione dei giornalisti palestinesi è quella di «raccontare fuori cosa succede dentro Gaza assediata, accerchiata». Di far uscire le voci di Gaza e farle giungere al mondo, perché dal 7 ottobre e fino ad oggi, fino alla tregua, «a Gaza le porte erano chiuse». E i giornalisti si “aggrappavano alla ricerca di ogni notizia”, pur sapendo che fare il giornalista a Gaza significa “mettere in conto la morte”, la propria e quella dei propri familiari: Al-Dahdouh ne ha persi dodici, tra cui la moglie e tre figli. E un nipotino di sei mesi che ha raccolto tra le macerie della sua casa distrutta, dopo un bombardamento. Il suo racconto, lontano da ogni intimismo, è la sobria testimonianza di quello che ha vissuto per quindici mesi una popolazione di due milioni e mezzo di abitanti. «Quando sono arrivato era tutto buio, un buio totale. Non c’erano soccorsi, non c’era gente. Ho trovato solo Adan. La gente non pensava ci fossero vivi sotto quelle macerie. Una delle mie figlie è stata scaraventata dall’esplosione sotto il lavello della nostra cucina, poi il soffitto dell’appartamento le è crollato addosso. Ha perso conoscenza, si è risvegliata, ha urlato. È così che l’hanno sentita. Ma non sapevano come tirarla fuori, sotto i blocchi di cemento armato. Un vicino si è accorto che il muro della cucina era un muro esterno: per salvarla le hanno abbattuto il muro addosso. Per sei mesi abbiamo cercato di convincerla a vivere sotto un tetto. Non ci siamo riusciti». In un filmato Al-Dahdouh, chino sui corpi dei familiari morti, accarezza il volto del figlio adolescente Mahmoud. Ora racconta: «Studiava da giornalista alla scuola americana. Da ragazzino faceva video, l’ultimo l’ha fatto sotto le macerie».

Nella sua testimonianza c’è un continuo alternarsi tra la vita del giornalista che fa il suo mestiere – «Dobbiamo spremere la nostra anima per dare una notizia» – e la vita degli abitanti di Gaza sotto uno dei più feroci assedi dei nostri tempi, di cui «Bisogna continuare a trasmettere immagini e parole». Quando gli viene chiesto: «Qual è la domanda che avrebbe voluto sentire e che non le è stata fatta?» risponde: «Sono tante ma quella che desidero più di ogni altra è quella sulla vita della gente. Perché non ci chiedete com’è il bagno? Ve lo spiego: ci tratteniamo dal bere per non dovere andare in bagno. Avevo deciso di costruirne uno personalmente. Avete idea di quello che è costato in termini di tempo, soldi, rischi un solo piccolo bagno sotto una tenda? La guerra è la vita degli sfollati, quella delle donne e dei bambini. Noi giornalisti corriamo dietro all’evento ma la guerra vera è dove vivono gli sfollati. Mentre io faccio un servizio a Rafah le mie due figlie, ambedue ferite, mi telefonano da Dar Al-Balah. Il vento ha strappato la loro tenda, entra l’acqua a fiotti, non ci sono altre tende. Per telefono mando loro un amico, in macchina. Hanno passato la notte in quella macchina come unico rifugio dalla pioggia. E non c’era la mamma a fare ciò che fanno tutte le mamme in questi casi».

Poco dopo l’inizio dell’assedio di Gaza – quando insieme alle bombe cadevano i volantini ingiungendo alla popolazione di spostarsi, ora di qua, ora di là, verso sud ma ancora in prossimità delle proprie abitazioni – e incominciava a crescere la massa degli sfollati, un uomo ha raccontato: «Mia figlia è morta sotto le bombe perché dopo settimane era voluta tornare alla nostra casa. Per fare una doccia. È morta per una doccia». 

5. Sumud o la resistenza quotidiana 

Bientôt un étranger, inconnu du village,
Viendra, l’or à la main, s’emparer de ces lieux
Qu’habite encor pour nous l’ombre de nos aïeux …
De Lamartine, Milly ou la terre natale 
«… i trasferimenti a Roma sono chiamati deportazioni. Gli sradicati delle baraccopoli sono chiamati sfollati …
il sindaco Clelio Darida, che aveva ordinato gli sgomberi, e che li ricordava così: «Queste operazioni di sgombero erano operazioni che addirittura sembravano le SS. Cioè, arrivavano i camion, caricavano le masserizie, e gli abitanti, con la polizia; contemporaneamente, le ruspe demolivano, in maniera che non si riproducesse il fenomeno».
Stefano Portelli, Il diritto di restare, 2024 
«Sumud si manifesta in attività concrete quali la costruzione e ricostruzione di case malgrado il rischio di demolizione»
“Sumud”, Interactive Encyclopedia of the Palestinian Question 
Gaza (ph. Islamic Relief)

Gaza (ph. Islamic Relief Italia)

Quando si parla dell’80% di edifici distrutti – case e scuole, università e ospedali, moschee e chiese – vuol dire che la gente torna e non trova niente. Quel niente ha un significato psicologico e non solo materiale. «E’ stato distrutto lo spazio pubblico – le scuole, le moschee, i mercati – lo spazio della vita in comune» spiega Guido Veronese, che a Gaza ha lavorato per anni, in un incontro, in dicembre 2024, con un gruppo di psicoanalisti a Milano [17]. Sono state cancellate le tracce storiche delle comunità; di villaggi palestinesi che esistevano pochi anni fa rimangono solo cimiteri, quasi si trattasse di popolazioni estinte da secoli, secondo una linea politica che è quella di “archeologizzare gli spazi”. Al loro posto sono sorti kibbutz con casette dai tetti rossi, che riproducono le abitazioni della Romania da cui provengono i loro abitanti.

Le città sono più del territorio. Il territorio è bidimensionale, è terra e confini; le città sono tridimensionali, sono terra e spazio costruito, e lo spazio costruito è spazio simbolico, spazio della memoria. La cancellazione sistematica – attraverso la distruzione dei manufatti umani – delle coordinate spazio-temporali delle vite individuali e della vita collettiva produce, aggiunge Veronese, un “profondo spaesamento”. Quello che gli sfollati descrivono quando tornano al nord di Gaza e non sono nemmeno in grado di orientarsi perché la distruzione ha mutato il paesaggio. Lo racconta ancora Al-Dahdouh: «Mio fratello mi ha mandato le foto. Della mia casa, non c’era più niente. Non c’erano più i fiori, i frutti che la circondavano. Non c’erano più i ricordi». E aggiunge: «Dalle foto non riconoscevo più i tratti somatici del mio quartiere». Il trauma, dice Veronese, a Gaza coinvolge la carne, la psiche e il paesaggio – quella che lo psicanalista Hillman chiama “l’ anima dei luoghi” [18].

815jlcecofl-_ac_uf10001000_ql80_Ma è proprio perché esiste un’anima dei luoghi che i palestinesi vogliono restare anziché «ricostruirsi una bella vita altrove» come suggerisce Trump. Oggi, secondo Veronese, «ci rendiamo conto del fatto che è diventato quasi impossibile continuare a vivere in quelle zone». Non solo per la dimensione materiale della distruzione ma per il suo impatto psicologico. Le voci che arrivano da Gaza, che circolano sui social, rendono conto di questa contraddizione. Da un lato ci sono voci riassumibili nell’espressione “questa volta non ce ne andremo.” Sono voci di quelli che hanno vissuto la Nakbah – la partenza senza ritorno di centinaia di migliaia di Palestinesi. [19]. E sono voci di giovani che l’hanno solo sentita raccontare ma che, come scrive a Trump un giovane scrittore «nato e cresciuto a Gaza» [20], rivendicano con orgoglio «radici profonde, una storia lunga … Gaza è la nostra casa, la nostra terra, la nostra eredità» ”. Ci sono anche le voci, sommesse, di quanti da Gaza vorrebbero uscire: spesso voci di capifamiglia che non sanno più come garantire la sopravvivenza di coloro di cui sono responsabili. «Ho fatto male a tornare» scrive uno sfollato dopo aver visto ciò che resta del nord di Gaza.

In quanto psicologo, Veronese traccia un quadro pessimista del futuro di Gaza. Ma sempre in quanto psicologo evoca anche “sintomi di resilienza” condensati nella parola araba sumud, traducibile con fermezza, solidità, perseveranza. Una parola «entrata nel discorso politico come simbolo nazionale negli anni 60» e oggetto di una serrata dialettica politica tra i sostenitori della resistenza non-violenta ed i critici di un approccio considerato troppo passivo o addirittura collaborazionista, che ha portato più volte ad una sua ridefinizione [21]. La psichiatra palestinese Samah Jabr rifiuta l’associazione di sumud al termine “resilienza” – peraltro ormai inflazionato al punto da slittare verso accezioni distanti o opposte – e ne rivendica il significato di “resistenza” [22].

Gaza (ph. Islamic Relief)

Gaza (ph. Islamic Relief Italia)

Immagini che escono da Gaza rendono questa seconda accezione più convincente. Abbiamo visto circolare quelle di bambini a Gaza che vanno a scuola. La “scuola” è uno spiazzo ricavato in mezzo alle macerie, sgomberato a mano dai detriti. E Guido Veronese si interroga: «Fare scuola in mezzo alle macerie è sintomo di una patologica ‘normalizzazione’ dell’inaccettabile, o si tratta invece di un atto di resistenza?» Per Samah Jabr non ci sono dubbi: la cura dei traumi conseguenti alla brutalità di una dominazione coloniale non passa dalla patologizzazione degli individui ma dalla ricostituzione del tessuto sociale quale «lavoro eminentemente politico» [23].

Si capisce allora come la guarigione di ciò che gli psichiatri etichettano come disturbo post-traumatico da stress non passa dalla deportazione ma dalla ricostruzione, nei luoghi stessi delle radici, delle memorie, del quotidiano. Passa dalle scuole negli spiazzali di fortuna, dalle tende che gli sfollati di ritorno piantano davanti alle loro case, mettendosi a scavare tra le macerie, passa dal rimuovere detriti e innalzare nuove mura. Stranamente, del resto, vediamo oggi come quella forma altissima di resistenza che passa attraverso le parole – la letteratura, la poesia, il reportage, il racconto – cresce sulle macerie come i fiori su un terreno fertile. Lo esprimono in modo diverso, accanto ai versi diventati celeberrimi del poeta Refaat Alareer “Se devo morire tu devi vivere”, tanto la voce dolente di Al-Dahdouh – «Dobbiamo restare aggrappati a questa terra, questo è ciò che dobbiamo vivere” quanto quella irridente del giovane Hassan Abou Qamar: «Gaza in passato era già la Riviera del Medio Oriente. I nostri antenati l’hanno costruita … dopo ogni brutale aggressione i Palestinesi l’hanno ricostruita». 

Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025 
Note
[1] Peter Beinart, “States Don’t Have a Right to Exist. People Do”, New York Times, 25-1-2025 https://www.nytimes.com/2025/01/27/opinion/israel-state-jewish.html
[2] Marcella Emiliani, La terra di chi, Bologna, Casa editrice Il Ponte, 2007.
[3] Stefano Portelli, Il diritto di restare, Roma, Carocci, 2024.
[4] Afp, Tregua a Gaza: Israele rilascia 90 palestinesi dopo la liberazione d tre ostaggi, Internazionale, 20-01-2025 https://www.internazionale.it/ultime-notizie/2025/01/20/gaza-tregua-liberati-ostaggi-e-prigionieri
[5] Si veda tanto il classico della narrativa sionista in Occidente, Exodus, quanto il (più bello) La famiglia Moskat (Milano, Longanesi, 1965) del grande scrittore in lingua yiddish Isaac Bashevis Singer.
[6] Gur Megiddo, “Israel’s Opposition Leaders Gantz and Lapid Can’t Even Say ‘No’ to Ethnic Cleansig”, Haaretz, 6-2-2025, https://www.haaretz.com/opinion/2025-02-06/ty-article-opinion/.premium/israels-opposition-leaders-cant-even-say-no-to-ethnic-cleansing/00000194-d7d6-d6d4-a3d6-f7fe3b5a0000 
[7] Lee Smith, autore di The Strong Horse,  cit.  in Il Foglio, 10-2-2025
[8] Cfr. Saskia Sassen,  Territory, Authority, Rights, Princeton, Princeton University press, 2006.
[9] Marcella Emiliani, La terra di chi, cit.
[10] Non sono ovviamente ancora disponibili dati scientificamente aggiornati sulle distruzioni avvenute in quindici mesi.  È  utile però leggere Un-Habitat, Gaza Urban Profil, December 2014
[11] Citato da Francesco Mazzucchelli, Urbicidio, Bologna, Bononia University Press, 2010, p. 31.
[12] https://www.npr.org/2024/10/09/g-s1-27175/israel-hamas-war-gaza-map
[13] https://www.bbc.com/news/world-middle-east-20415675
[14] Reuters, 10-2-2025 inhttps://www.repubblica.it/esteri/2025/02/10/video/taylor_swift_fischiata_al_super_bowl_trump_si_intesta_i_buuu_maga_non_perdona-423992721/?ref=vd-auto&cnt=1
[15] Vedi ad esempio il caso del crollo del campanile cinquecentesco di Venezia nel 1902: https://pochestorie.corriere.it/2016/07/14/dovera-e-comera-la-ricostruzione-del-campanile-di-venezia/ 
[16] https://www.france24.com/en/live-news/20250209-palestinians-back-on-key-gaza-road-as-israel-withdraws 
[17] L’incontro si è svolto presso il Centro Italiano di Psicologia Analitica di Milano e aveva per tema “La guerra tra storia e violenza: quali nuovi racconti costruire?” (Cipa, 14-12-2024, Milano), https://www.milano.cipajung.it/registrazione-la-guerra-tra-storia-e-violenza/
[18] L’espressione è dello psicanalista James Hillman, L’anima dei luoghi. Conversazione con Carlo Truppi, Milano Rizzoli, 2004.
[19] Malek A. Tantesh e Emma Graham-Harrison, “This time we stay”, The Guardian, 9-2-2025.
[20] Hassan Abo Qamar, “A letter from Gaza to Mister Trump”, Al Jazeera, 18-2-2025, https://www.aljazeera.com/opinions/2025/2/18/a-letter-from-gaza-to-mr-trump
[21] Runa Johannessen, Sumud. Steadfastness as Everyday Resistance, Interactive Encyclopedia of teh Palestine Question,  www.palquest.org 
[22] Samah Jabr, Sumud. Resistere all’oppressione, Roma, Sensibili alle Foglie, 2021.
[23] Maria Nadotti, “Samah Jabr, psichiatra a Gaza”, Doppiozero, 25 novembre 2024, https://www.doppiozero.com/samah-jabr-psichiatra-gaza 

_____________________________________________________________ 

Chiara Sebastiani, sociologa, politologa, psicoanalista, è professore Alma Mater dell’Università di Bologna. Tra i suoi temi di interesse le politiche delle città, lo spazio pubblico, le questioni di genere. Ha vissuto e insegnato in Tunisia dove dal 2011 ha seguito sistematicamente le trasformazioni in corso, scrivendo numerosi articoli e un libro (Una città una rivoluzione. Tunisi e la riconquista dello spazio pubblico, Cosenza, Pellegrini Editore, 2014). Tra le sue altre pubblicazioni: La politica delle città, Bologna, Il Mulino, 2007 e La sfida delle parole. Lessico antiretorico per tempi di crisi, Bologna, Editrice Socialmente, 2014. Collabora a diverse riviste e webmagazines e lavora come psicoterapeuta a Milano.

______________________________________________________________

 

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Società. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>