Mentre ogni anno civile comincia, la Chiesa, sommessamente, collega questo evento del tempo alla memoria celebrativa della sua pienezza secondo la fede, all’anamnesis del completamento del suo colmarsi nella “donna” che viene celebrata come Deìpara, Θεοτόκος, colei che genera Dio generando il santo [1]. Ed è da questa modalità del generare santità che parto in questa riflessione che nasce dalla suggestione del titolo e dei suoi sviluppi nel libro di Massimo Cacciari, Generare Dio [2], appunto. Un lavoro di scavo fenomenologico della figura di Maria, dal pre-testo iconografico della Madonna col bambino dormiente di Andrea Mantegna ma, per assonanze iconiche, sempre più nella profondità dei testi evangelici e biblici che la connotano esistenzialmente immersa nel mistero di Dio, meditandolo nel symballein del proprio cuore, raccogliendo nella sintesi cardiaca, cioè, in unità simbolica, il thauma che l’ha colta all’ascolto e l’intendere (synìemi) ciò che ha udito [3]: «Così medita Maria, come concependo. Ella ha ascoltato, raccolto e ora matura in sé, fa maturare e lascia maturi in sé ciò che ha raccolto […] Concepirlo è metterlo alla luce, farlo ek-sistere nella sua pienezza di vita» [4].
Sorprende questa docile propensione del filosofo a sottomettere la sua attitudine di condurre a ragione il mistero dell’esserci al mistero esistenziale dell’umile fanciulla di Nazareth, così come si delinea nella dipintura della Scrittura o/e come certa avveduta iconografia ne simbolizza, a suo modo e a sua volta, la fisionomia intendendola nel verso della luce dell’epifania rivelativa che emblematizza icasticamente il rapporto dell’umanità con la trascendenza. Un rapporto mai definito completamente dalla filosofia, inessenziale per la scienza moderna, equivocato negli assetti fattuali e pragmatici della religione stessa quando mito, rito, ethos, logos, che sono le sue intrinseche componenti, sono collocati, anche teologicamente, su piani diversi ed incomunicabili nella risultanza dell’equivocità della favola, della cerimonia, del moralismo, della chiacchera futile e tautologica.
Ciò che evidenzia, nonostante gli inutili sforzi, della ragione, della volontà, del cuore la tragica frattura col mondo divino e la sua offerta sacramentale. Generare Dio è, a suo modo, una originale fenomenologia dell’alleanza, della simbolica riunione, delle nozze; non ci sono concetti medi: c’è Dio e ci siamo noi, in una storia di debolezza e di potenza della fede che si colma nel colmarsi del mistero nella fanciulla che partorisce il Figlio [5], rendendo colma con ciò la lacunale frattura mentre lo stesso colmarsi si avverte come istanza cultica che in sé trova il suo culmine e la sua fonte nella consistenza di una presenza: quel “far maturare e lasciar maturare in sé”. Perché il culto è il peculiare coltivare del divino l’umano, e viceversa, in amorosa e osmotica reciprocità; ed è dunque opus di relazionalità, di essenziale dinamica sinergia, di trascendenza e immanenza tipizzato concretamente, carnalmente in Maria e nel Figlio, indissolubilmente, indistricabilmente. Per cui Cacciari mette le mani avanti all’esordio della sua iconologia fenomenologica: «L’icona di Maria diviene; si accompagna a quella del Figlio, ma ancora più di questa sembra sfuggire a ogni astratta tipizzazione». Una «fenomenologia dell’invisibile» è per Cacciari il lavoro di scavo del suo pensare, dove tutto il mistero del tempo, della sua novità, della cultualità, della re-denzione è inquadrabile nella «rappresentazione sensibile di Maria» [6], nell’essere della sua coscienza che riflette il progetto invisibile e incredibile, il mistero nascosto da secoli che in lei deve prendere forma umana, nel tempo.
Di “che cosa”, Maria si fa tipo? Si manifesta tale tipicità nella direzione dell’astrazione o della concretezza? Si idealizza e si divinizza Maria o si trova in lei «il simbolo» che «esprime cielo e terra in uno»? [7] Si rinviene con chiarezza il modello cultuale che trova in lei la prima discepola “fedele” e capax Dei, capace di incarnare il culto esemplare in spirito e verità? E per tale tipicità ogni ente umano, ogni carne, ritrova nel culto le misure dell’assoluto?
Qui, com’è chiaro, si intende parlare di culto mariano non nel senso oggettivo, meramente estetico nella traduzione e riproduzione delle forme liturgiche tratte dai modelli religioso-culturali e ancora in uso da parte di una certa tradizione occidentale per “onorare Dio”. L’ho già fatto altrove [8]. Non solo del rito, dunque, in quanto τάξις , ordine, accordo, condizione, o se si vuole norma, o “il come” sacramentale dove il sacramentale è il “che cosa” del rituale. È questo “che cosa” che ci interessa intanto, in prima istanza; la dimensione sacramentale del culto di cui Maria è referente ed ipostasi, e in maniera non disgiunta alla modalità esemplare di un nuovo “come” che connota il culto esistenzialmente, dando luogo alla normatività etica del rito, a ciò che attiene alla giustizia che trova nel rito il suo simbolo veridico e la sua verifica del “che cosa” che accade perché accaduto, tipicamente, in Maria.
A noi occorre considerare ciò che l’estetico ha prodotto in lei in quanto propedeutico al sacramentale che è il colmare pneumatico dello spazio libero della dimensione antropica di sensibilità e spiritualità in lei rinvenuto ed abitabile. Il sacramentale come pienezza cultuale ἐν πνεύματι καὶ ἀληθείᾳ, in spirito e verità, in quanto il sacramento seleziona, distingue un evento da quanto lo circonda, dalla serie di altri eventi simili, lo isola, lo separa dall’ordinario; e mentre l’esistenza intanto, scorre, si distende come trama di eventi dai quali nessuno ne emerge come originale, fontale, lo spirito ricerca ed individua ciò che è nitido, specchio terso in cui può riflettersi totalmente la sua verità d’essere che può finalmente apparire, e che lo specchio sine macula può riflettere integralmente. Solo una coscienza immacolata può riflettere il divino.
Il culto di Maria non è rituale. Il mero estetico rituale può illudere, perché è μίμησις, imitazione che pre-tende di essere e che per essere ciò che si illude di essere, ciò cui inessenzialmente allude, necessita di una iniziazione all’intenzionalità, una rivelazione d’altra natura, un battesimo nello spirito e nella verità, perché ciò che deve venire alla luce si mostri inequivocabilmente nella sua novità; il compito di ciò che deve manifestarsi, infatti, è di portare alla luce la vera immagine del suo esserci celata nel travaglio storico dell’ἀληθείᾳ, l’essenzialità della sua archetipicità iconica sepolta e dimenticata sotto la storia di un conflitto, di una insanata scissione di cui viene proclamata, inaspettatamente, la ricucitura, restaurata ed evidenziata la perenne bellezza. Ed è il compito del portare ad immagine l’invisibile: «Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1, 18). L’invisibile nel seno del Padre, visibile nel seno di Maria: dalla maternità metafisica di Dio, ossimoro di non contraddizione misterica, alla maternità fisica di Maria, mistero di contraddizione logica, stoltezza e scandalo per quanti non hanno «mai ascoltato la voce» di Dio né «mai visto il suo volto» (Cf. Gv 5, 37).
Sono dunque due le componenti catalizzanti l’originale svelamento cultico, le sue due fondamentali dimensioni: la parola e l’immagine che si danno per l’ascolto e la visione, in sincronia e in sintonia, atte ad innescare il processo iconologico di cui l’atto di culto si sostanzia ridonando all’estetica una complessione trasfigurata e trasfigurante. L’atto di culto in sé e per sé invisibile, metafisico, del coltivarsi divino nella pericoresi dialogica trinitaria, si manifesta visivamente agli uomini nella benevolenza (eudokia) visceralmente materna di Dio di cui l’utero di Maria si fa immagine e sede, icona di libera e trepidante accoglienza: Tu, ad liberandum suscepturus hominem, non horruisti Virginis uterum, canta di Cristo l’inno di lode, sottolineando il “come” e il “che cosa” dell’incarnazione come atto sacramentale di grazia, dell’ἐλέησον del Kyrios, che è l’amore viscerale e intimo che una madre prova per il proprio figlio. Il “che cosa” è la liberazione, e la liturgia della liberazione è il “come” delle viscere di Maria, «a motivo delle viscere di misericordia del nostro Dio», traducendo letteralmente Luca 1,78: διὰ σπλάγχνα ἐλέους θεοῦ ἡμῶν [9]. Qui la mimesis uterina della misericordia non è estetico-rituale ma salvifico esistenziale, ed anche l’estetica della Fanciulla ne è trasfigurata dalla presenza della stessa azione misericordiosa e liberante di cui si fa gestante. Ciò che si è udito lo si deve vedere nella teleologia cultica, così come canta il salmista: «Come avevamo udito, così abbiamo visto nella città del Signore degli eserciti, nella città del nostro Dio» (Sl 48, 9). Infatti, dopo la rivelazione angelica della nascita di Gesù ai pastori questi esclamano: «Andiamo fino a Betlemme e vediamo questa parola accaduta che il Signore ha fatto conoscere a noi» [10]; la loro conoscenza rivelata è la visione della parola, la parola che si rende visibile nell’evento, diventata fatto.
Ed è la dimensione estetica trasfigurata che redime una ritualità formale ed asfittica, cieca e muta, chiusa in se stessa, paga della sua stessa forma, né segno né tanto meno simbolo nell’incapacità o nell’impossibilità di farsi apposizione al mistero. Mυστήριον è ciò che sostanzia l’atto cultico, sacramentale; è telos iniziatico che si compie nella reiterazione estetico-rituale di un’azione cultica interiore che ha goduto della trasfigurazione dei sensi, della loro purificazione, perché il puro vedere è non vedere nulla, e così il silenzio per la purezza dell’udire. Dopo di che la parola risuona inaudita e l’immagine si mostra sfolgorante. La scena della Trasfigurazione di Gesù narrata dai Sinottici descrive la novità della condizione estetica nella sintesi iconologica dell’icona-luce illustrata dalla parola, dove luce e parola sono uno perché sono da Dio. E di fatto il mistero della Trasfigurazione presiede alla dinamica liturgica, all’atto cultuale nel suo farsi, nel suo crescere e svilupparsi sull’asse cronologico teleologicamente orientato all’eschaton, nella molteplicità delle sue componenti sensibili che però non possono prescindere dalla parola e dall’immagine. Si tratta della parola e dell’immagine nella loro unitaria intenzionale epifanicità: la parola come evento divino e l’immagine come riflesso di Dio nella struttura antropica individuata dalla sua parola e creata “a sua immagine e somiglianza” (Gen 1, 26-27).
Una parola che “accade” e un’immagine che mostra l’invisibilità di Dio. L’evangelista Luca traduce, ancóra, l’eventualità della parola dicendo che essa “accadde” a/su Giovanni battista (ἐγένετο ῥῆμα θεοῦ ἐπὶἸωάννην). Non è una comunicazione “rivolta a”, quanto un evento che “accade a”, il “che cosa” accade eventualmente. Mentre per l’apostolo Paolo è “Cristo l’immagine del Dio invisibile” (εἰκὼν τοῦ θεοῦ τοῦ ἀοράτου) tanto che chi vede lui vede il Padre (cf. Gv 14, 8-12). Non si disgiungono parola ed immagine, sono unite sin dall’atto di culto originario infradivino; l’una, a suo modo, illustra l’altra nella simbolica cultuale e in tale dimensione unitaria si manifestano alla coscienza che attende ed esulta al ricongiungimento simbolico, al ritrovamento del suo vero sé. Il Magnificat è il canto di esultanza di Maria per l’avverarsi delle immagini della parola nel suo seno verginale, da cui può nascere il nuovo senso e la nuova immagine del mondo nel logos fatto icona. Il suo atto di culto è iconologico come il Figlio che cresce in lei e del cui culto il Padre si compiace nella sua amabile eudokia [11]. Nel Figlio che porta alla luce, che concependo fa ek-sistere, davvero i superbi sono dispersi nei pensieri del loro cuore, i potenti sono rovesciati dai loro troni e gli umili sono innalzati, gli affamati sono ricolmati di beni e i ricchi rimandati a mani vuote. I sensi trasfigurati avvertono completamente ogni falsificazione iconologica nella rottura dia-bolica della sua ontologica simbolicità.
Nel Magnificat si sintetizza il momento noetico della cultualità mariana, della liturgia in quanto lode pura. Ciò che nella fenomenologia di Husserl è l’elemento soggettivo dell’esperienza, la pluralità degli atti con cui si coglie l’oggetto attraverso il percepire, l’immaginare, il ricordare, il giudicare; diverse forme esperienziali che possono coesistere e sovrapporsi nella concretezza dell’esperienza vissuta (Erlebnis). Ed è più del mero atto dell’intelletto (νοῦς) o conoscenza intellettiva che Aristotele distingueva dal sapere discorsivo; alla coscienza di Maria sono apparse le forme esperienziali come immagini della parola donatale, in tutta la loro essenzialità, consistenza, concretezza: troni infranti, mani vuote, sazietà dei poveri… sono la “materia” della intenzionalità religiosa di Maria che riempirà l’atto di culto, poiché i sensi e la ragione sono stati colpiti interiormente, spiritualmente; in essi si è rivelato a lei qualcosa, in questa realtà ha visto qualcosa. Il “qualcosa” che non è soltanto un senso simbolico, che pure è presente, ma, come lo chiama Husserl, il momento hyletico del vissuto, ciò che le immagini della parola suscitano nella coscienza: speranza, fiducia, stabilità, affidabilità, potenza… a questo momento si connettono le funzioni intenzionali, i materiali assumono una funzione spirituale, così come accade per le sensazioni primarie che vengono a far parte di percezioni sulle quali poi si costituiscono i giudizi percettivi [12].
Ora, non si può comprendere tale fenomenica se non si è coinvolti, in qualche modo, nell’esperienza religiosa che non è punto di arrivo ma di partenza per l’esperienza cultica. Gerardus van der Leeuw nella sua Fenomenologia della religione non approfondisce l’analisi del fatto cultico, ma procedendo da un esame comparativo e rinvenendo elementi essenziali comuni a tutte le religioni, nonostante la loro diversità, individua l’importante e comune tema della “potenza”, tema che attiene alla fenomenologia del “sacro”. Il sacro è il fenomeno indagato in profondità da Rudolf Otto [13] e descritto come substrato su cui poggia qualsivoglia forma di religiosità organizzata successivamente in maniera istituzionale. Un fenomeno che si può definire come atto religioso preistituzionale, senso globale della trascendenza in virtù del quale si muove il meccanismo dell’organizzazione delle religioni. Un trait d’union con il divino non ancora integralmente conosciuto in una situazione psicologica carica di valori antropologici primitivi e istintuali. Un prodotto dell’Homo sapiens che sul finire del paleolitico ci ha lasciato con i suoi resti fossili, i manufatti in pietra e gli utensili di ocra rossa, oltre a graffiti e pitture che, come nella grotta di Lascaux, sorta di Cappella Sistina della preistoria, rappresentano le tracce di un culto arcaico per cui l’uomo penetra un mistero che lo trascende mentre cerca di impadronirsi di forze sovrumane o quantomeno di ingraziarsele pensando di piegarle al proprio volere.
Con l’emergere alla coscienza dello scricchiolio della fragilità antropica, l’essere umano non si limita ad accettarla così come gli è data, e cerca una potenza che non trova in sé, «cerca di far penetrare nella sua vita la potenza in cui crede, cerca di elevare la sua vita, accrescerla, conquistarle un senso più ampio e più profondo» dice van der Leeuw [14]. Nasce il dramma dell’esistenza che è timore e tremore, richiamando l’omonima opera di Søren Kierkegaard in cui il filosofo riflette sul dramma di Abramo chiamato a sacrificare il figlio; e in questo dramma deve chiedere aiuto alla fede. Ma la fede non è la prima immediatezza, ma una ulteriore. La prima immediatezza è quella estetica, e la fede non è di certo il momento estetico, sta oltre la soglia. Abramo non esita nell’angoscia ma la sorregge nell’attesa che qualcuno venga, che qualcuno la sciolga, finalmente. La fede segue sempre al timore e al tremore, allo stupore e al terrore. Ed è sempre una sequenza reiterata, nel corso della vita, per una fede sempre rinnovata e mai completamente data. Maria deve comporre l’immagine dello spiegamento della “potenza del braccio di Dio” che canta nel Magnificat, con quella trafiggente della spada che le trapassa l’anima preannunciatale da Simeone. Le due immagini deve simbolizzarle nel cuore, intendere tale simbolicità con una nuova “mente”; come dirà Paolo, deve rinnovarsi nello «spirito della mente» (cf. Ef 4, 23) [15], e non è un transito indolore.
Maria Zambrano, l’eclettica filosofa spagnola, risponde a tale questione con una affermazione sorprendente, che in prima battuta ci lascia spiazzati, una affermazione filosoficamente temeraria che però getta molta luce sul nostro tema. Per la Zambrano la Vergine Maria rappresenta lo stesso pensiero filosofico che deve farsi mediatore tra la ctònicità e oscurità del sacro e la luminosità del divino; Maria, la Madre del Signore, che è stata docile al mistero, disponibile ad accoglierlo nella sua stessa vita custodendolo da madre e con la gratitudine di figlia ad un tempo, gustandolo nella sua saporitura dolce ed amara – come non richiamare il rotolo apocalittico da ingoiare, la parola – sapienza da assimilare mangiandola – è identificabile con la filosofia denotando una maternità della ragione come custode del mistero [16]. Ma bisogna stare attenti! Occorre un’altra precisazione, un altro passaggio: considerare l’asimmetricità del logos cristiano e la sua transignificazione conseguente al «rinnovarsi nello spirito della mente», del νοῦς, (o dello ionico νόος) che in Omero è collegato alla percezione visiva degli accadimenti, e che tuttavia, più che intenderlo come percezione sensoriale viene indicato come capacità di essere consapevoli in modo immediato della circostanza o dell’avvenimento a cui si assiste e di capire le vere intenzioni, al di là di ciò che appare, di qualcuno. «Il νοῦς vede, il νοῦς sente: tutto il resto è sordo e cieco» [17]. I cristiani hanno preso questa parola dai greci e le hanno dato una significazione cristica, di un vedere e sentire assoluti, nella capacità di intendere il logos e di vedere la sua luce, il suo volto. Il logos cristiano non è un’idea astratta ma una realtà personale ed agapica, essenzialmente relazionale. «Il logos è il volto del Figlio, è l’apertura alla relazione trinitaria […] la comunione degli uomini redenti e del creato trasfigurato. E questo Logos, così personale e così concreto, incarnato, costituisce poi anche il fondamento teologico dell’arte cristiana, perché ha un volto che può dipingere» [18].
È in quest’arte che non è sacra, né genericamente religiosa che Massimo Cacciari ha potuto leggere il Logos «nella rappresentazione sensibile di Maria», lo specchiarsi del suo νοῦς nella sua anima alla luce dello spirito, nell’atto fontale della rivelazione del Logos iconoforo e che in lei sussiste come radice che germoglia (radix Iesse), primizia dell’umanità nuova. Tale si mostrò il culto in spirito e verità, nella mente rinnovata dal tocco dello spirito di Maria che la parola dice «adombrata dalla potenza dell’Altissimo» (Lc 1, 35), e sincronicamente nel suo ventre come ‘enkòlpion raffigurante l’immagine del Dio invisibile nella sua carne illibata, in indelebile σφραγίς, caustico sigillo dello spirito. E Agostino commenta: «Prius concepit mente quam ventre» [19].
E Maria sa che, dalla sua religiosità di partenza, aniconica, che nessuno può vedere Dio e restare vivo e che il suo volto non lo si può vedere (cf Es 33, 20). «Il timore non viene perciò meno», prosegue Cacciari nel contemplare le immagini della parola impresse nell’anima dell’Annunziata; anzi, «si approfondisce vertiginosamente, nell’amen della giovane donna, e tuttavia non la fa vacillare: sono la doùle del Signore, avvenga secondo la tua parola. Non cerca di nascondersi come Eva. E inizia così la sua attesa, paziente quanto carica di angoscia» [20]. L’icona che il filosofo ritiene mimetica della situazione che descrive, l’icona in cui legge tale travaglio interiore è quella di Simone Martini (insieme a Lippo Memmi): l’Annunciazione dipinta per il duomo di Siena ed ora agli Uffizi. Turbamento, meditazione, dubbio, timore, obbedienza, consenso, resa alla volontà divina Cacciari li convoglia alla lettura del volto, al tratto di un volto “con-tratto” diremo, «un tratto del volto della fanciulla destinato a restare fino alla croce e oltre» [21].
Più sopra dicevo dell’iniziazione misterica di Maria, del telos iniziatico al mistero che nella ritualità eleusina comportava chiusura di occhi e di bocca in quell’unico atto del μύω o del μυεω compiuto dal μύστης, dall’iniziato che con bocca stretta ed occhi serrati esprimeva con quella postura facciale l’attesa trepidante di una impensabile rivelazione. Nel volto dell’Annunziata del Martini si può rilevare qualcosa di simile, il timore di un passaggio iniziatico ignoto alla fisicità e all’emotività e tuttavia da compiere per una volontaria adesione, per la libera decisione che qualcuno decida per lei. Ed è proprio lei la prima iniziata al mistero cristiano, la prima cristiana, coinvolta per scelta nella dinamica trasfigurativa, chicco di grano umile, piantato nell’humus della terra da cui germina il Salvatore [22] e lei con lui, nuova Eva, madre del Vivente. Così la cantava la liturgia della Chiesa:
Germinavit radix Iesse,
orta est stella ex Iacob,
virgo peperit salvatorem.
Te laudamus deus noster [23].
In lei il travaglio generativo, come il travaglio della gestazione, del parto, dell’accompagnamento silente e doloroso della vita incomprensibile del Figlio, del suo mistero messianico, la lacerazione della spada nell’animo prevista e predetta da Simeone… hanno colmato l’atto di culto nella sua totalità, nella misura dello stesso transito pasquale del Figlio, atto di culto perfetto cui lei si è unita con la stessa identica carne, la sua carne umile come trono della kenosis divina. Non c’è Pasqua senza la trasfigurazione della Passione. La Pasqua infatti è il mistero dell’atto di culto nella sua globalità; la Trasfigurazione nel suo travagliato farsi.
Non è facile la lettura fenomenologica dei vissuti, degli stati d’animo, delle impressioni, delle suggestioni, delle premonizioni, di tutto ciò, in una parola, che si “immagina” nell’animo umano. È avvincente la lettura del testo di Massimo Cacciari che decodifica il tumulto interiore della vergine di Nazareth – e potrebbe sembrare contraddittorio il rilevare tumulto in questa donna «umile, alta, più che creatura» così idealizzata da Dante – con le immagini, i simboli, le storie umane dipinte dalla Scrittura, verbalmente dipinte potremmo dire dalla poeticità del logos, con la poieticità dello stilo infuocato dello spirito per l’umana impressione. Perché sono state dipinte per noi, per la nostra illuminazione. L’arte, in genere, è sicuramente uno strumento di analisi fenomenologica importante, e l’arte cristiana, quando è tale, mette in moto quel circolo ermeneutico per la decodificazione del mistero che la ragione da sola, la teologia da sola, non riescono a compiere. Per questo probabilmente il filosofo, ogni disincantato pensatore, deve ricorrere all’arte per trovare il logos, il “senso” della vita e di ciò che la trascende, dell’essere e dell’esserci nella loro relazione.
Non a caso Cacciari parla della straordinaria armonia drammatica delle «icone dell’Occidente» [24] che hanno guidato la sua lettura dell’interiorità di Maria. E avvedutamente parla di «icone», di quel genere di pittura cioè, ma più precisamente di “scrittura” di immagini cristiane, note in Oriente per la loro forte valenza simbolica ed evocativa del mistero celebrato nella dialettica simbolica rito-mito, tra visibilità rituale e udibilità narrativa. Gli iconografi scrivono l’icona, non si inventano niente, la scrivono sotto la dettatura della parola, della liturgia e dell’esegesi dei Padri. Si tratta infatti di “arte della liturgia”, di arte che è un tutt’uno con il culto, ne assume la linguistica, la dinamica, la finalità. Un’arte essenziale, libera dai dettagli, priva di un immaginario troppo realistico, illuminata dal di dentro, trasfigurata, simbolica, che coinvolge. Perché il simbolo non si spiega razionalmente, si spiega, o, si di-spiega coinvolgendo. Non è il filosofo dunque, né il teologo capace di leggere nell’animo di Maria l’itinerario pasquale che la conduce alla gloria. Ma è filosofo e teologo vero chi si lascia rinnovare «nello spirito della mente» e trova il senso più pregnante del logos tra le armonie, le immagini, i versi della poesia. È atto di intelligere, ossia di intus legere. C’è l’arte perché c’è il mistero e senza il mistero l’arte non potrebbe esistere, né la filosofia, né la teologia. Quando queste attività dell’anima e della mente o della mente dell’anima diventano solo mente, allora mentono, diventano come un coltello tutto lama, pericoloso e inservibile.
Il simbolo non attiene alla ratio, è qualcosa che è stato afferrato ed enunciato con linguaggio non discorsivo, dalla infinita pienezza del sentimento su cui fa leva ogni nozione intellettiva umana e di cui esso parla; e proprio in modo tale che tale pienezza di sentimento, inesauribile com’è per ogni intelletto umano, vi riecheggi misteriosamente. L’arte cristiana vive di questo “riecheggiare” e la sua arte visiva immagina ciò che già è stato immaginato, l’immagine del Dio invisibile splendente nel volto di Gesù di Nazareth. Il “volto”, dice Florenskij «è quasi sinonimo di manifestazione» e «lo sguardo» è la somiglianza a Dio resa presente sul volto. Nella Bibbia si distingue l’immagine di Dio dalla somiglianza; la prima è il fondamento spirituale di ogni uomo, mentre la seconda risulta offuscata dalla prosopopea egotica, talmente ampia da rendere illeggibile la stessa immagine [25]. La somiglianza si accentua col rendere limpido lo sguardo, nitida la visione dell’anima, di cui gli occhi sono simbolicamente lo specchio. «La lucerna del corpo è l’occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce; ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!» (Mt 6,22-23).
L’arte cristiana autentica è questa purificazione dello sguardo e non può nascere che da una mente anch’essa purificata nello spirito. In greco sguardo non si dice forse είδος, idea? Da Platone in avanti parola polisemica, fonte di tutte le immagini, esistenza spirituale rivelata, significato eterno contemplato, raggio penetrante che tutto discerne… l’idea nell’arte cristiana è il Logos della vita e della luce, ed essa iconizza ciò che nel credente si imprime nella vita, nell’anima della vita. E in primis in Maria e poi in tutti coloro che come lei si lasciano “scrivere” dalla luce increata che è la vita. Non ha forse detto Cristo: «Io sono la luce del mondo»? La luce per illuminare le genti che vagano nelle tenebre, la luce che brilla nelle tenebre e che le tenebre non compresero (οὐ κατέλαβεν) [26]. «Il mondo spirituale, invisibile non è in un qualche luogo lontano, ma ci circonda» dice Florenskij, e noi «siamo sommersi nell’oceano di luce, ma per l’immaturità dell’occhio spirituale non notiamo questo regno di luce, nemmeno ne sospettiamo la presenza» [27].
Ma questo è già discorso escatologico, più congeniale all’Oriente, che guarda la realtà dalla fine della sua metamorfosi, dallo splendore della Gerusalemme celeste in cui la luce è unicamente l’Agnello e l’ultima parola è stata detta da lui. Dalla frattura nella Chiesa, dopo lo scisma del 1054, l’Occidente ha percorso altra strada e l’idea-immagine così come il logos-parola sono stati confinati nell’astrazione, nel mondo del trascendente, per cui non è stato più possibile incontrare Dio nel mondo mentre il mondo si rinchiude su se stesso e l’umanesimo cristiano diventa umanismo, e l’arte del rinascimento torna al naturalismo precedente il cristianesimo. Nella natura non c’è Dio, confinato, anche lui nella sfera metafisica, e la natura, alma mater, trova in Maria presidio di ipostasi divina. Da qui la divinizzazione di Maria, più dea che donna, e se donna, principio divino femminile come nelle teologie delle religioni. La statuaria la isola e la circoscrive nell’idea astratta di Madonna, potente dispensatrice di miracoli e di grazie, di nuove rivelazioni e nuove epifanie. La statua a tre dimensioni, individuale, autonoma, prevale sulla superficie iconografica della tavola, più misterica, a due sole dimensioni, mentre anche geni come Giotto, Masaccio, Duccio, Cimabue, cominciano a rinunciare, sotto gli influssi di un incipiente intellettualismo, alla realtà misteriosa, irrazionale del mondo. Sulle loro icone introducono il prospettico, la dimensione della profondità, proprio il contrario della “prospettiva rovesciata” delle icone bizantine che conducono il mistero alla presenza, il metafisico al percepibile, al “qui innanzi”.
Su questa condizione religiosa dell’Occidente riflette Marko Ivan Rupnik che ha assorbito la lezione di Florenskij: «L’ignoto è la vita del mondo – dice Florenskij – e per questo il desiderio dei bambini è conoscere il mondo proprio in quanto incognito, senza violare il suo mistero. Ma il rinascimento ti comunica la sensazione che non c’è nessun mistero […] per il rinascimento il mistero si riduce a qualcosa di esoterico…» [28]. Sarà poi il barocco a crismare la dicotomia trascendenza/immanenza. Per vedere Dio, che sta “lassù” con la sua corte celeste, bisognerà sfondare le volte delle chiese e ammirare il miracolo di prospettive funamboliche e prodigiose che rivelano un paradiso fantastico per nulla dissimile agli Olimpi pagani dipinti sulle volte dei saloni dei potenti, laici ed ecclesiastici. La filosofia di Aristotele, sostrato della teologia dell’Occidente cristiano, con la sua fisica spiega il mondo separato, separato dal trascendente. L’intelletto estrae dalla cosa la sua idea, ma non riconduce più alla sua dimensione trascendente. Nel pensiero scolastico gli angeli sono spogliati dalla loro funzione mediatrice, “iconologica”, e sono ridotti al ruolo di “virtù”. Ci sono però, e nonostante ciò, in Occidente, artisti «felicemente in ritardo» sul loro tempo, come dice Evdokimov [29], che conservano nella loro pittura il linguaggio dei simboli e delle presenze, il pensiero indiretto prima che si faccia allegoria (ἀλληγορία) [30], cioè altro discorso, astrazione. Fra Angelico, Simone Martini, Andrea Mantegna e non molti altri dell’iconografia italiana conserveranno nelle loro opere il forte afflato misterico e il linguaggio iconologico del culto, il discorrere delle immagini e la visibilità della parola come sintesi conclusiva della storia: «Et conversus sum ut viderem vocem» (Ap 1, 12) [31].
Per Florenskij nella creazione artistica l’anima è sollevata dal mondo terreno ed entra nel mondo celeste, è «un transito attraverso la frontiera dei mondi». L’artista può creare «immagini della salita», che rivelano tutto ciò che di lui affiora quando è preso dalla sua ispirazione, il soggettivo, il naturalismo, il fantastico, ed è un’arte costruita meccanicamente, che rivela i segni del tempo e della cultura da cui è partita. Si può indagare fenomenologicamente, ma è fenomenologia del soggetto, dell’individuo nella sua complessione psicologica. A noi servono invece le «immagini della discesa», dice Florenskij, che sono «il cristallizzarsi sul confine dei mondi della esperienza della vita mistica» che si coagula in simbolismo che «incarna in immagini reali una diversa esperienza, e offrendocele crea una realtà più alta». Le immagini della discesa sono come «i sogni antelucani, portati dal refrigerio dell’azzurro eterno» [32]. Appartengono a questa tradizione iconografica le icone selezionate da Massimo Cacciari, e la sua esegesi fenomenologica muta con ciò stesso il significato abituale del termine “iconologia” che non è semplicemente la branca della storia dell’arte che si occupa di ricercare la spiegazione delle immagini, dei simboli e delle figure allegoriche dell’arte stessa, ma il principio ermeneutico fontale della decodificazione iconografica inscritta nell’iconografare cristiano, simbolico del fenomeno cristiano nella sua aurorale epifania che ebbe nel culto la sua più alta ed autentica espressione. Il principio iconologico fonda, in altri termini, l’esperienza cristiana, plasma la sua estetica e la sua etica, il suo mito e il suo rito, la sua teologia, informa la cultura che a tale esperienza vuole conformarsi:
«Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono!» (Mt 13, 16-17).
La mancata conformazione a tale principio ermeneutico non può non condurre al didascalico, al concettuale, all’ideologico, e mai all’esistenziale sguardo unitario che supera il dualismo spirito-materia e «recupera una visione integrata della materia, che include la creazione e la trasfigurazione e che pensa il ruolo della materia come indispensabile per la vita spirituale dell’uomo. Solo l’uomo spirituale può acquisire quello sguardo che vede l’orientamento della materia, perché altrimenti la materia è continuamente soggetta alla possessione, dato che l’uomo la usa per nutrire la propria passionalità» [33]. Ma è forse una condizione ideologico culturale dell’Occidente che costringe ad una miopia ermeneutica che esige altra focalizzazione? o forse, in difesa dell’Occidente, si tratta solo della condizione antropica che la narrazione biblica ci consegna:
«Così si compie per loro la profezia di Isaia che dice:
Udrete, sì, ma non comprenderete,
guarderete, sì, ma non vedrete.
Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile,
sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi,
perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi
e non comprendano con il cuore
e non si convertano e io li guarisca!» (Mt 13, 14-15).
Nelle icone mariane selezionate Cacciari rileva la vera ontologia della luce, e non nell’antinomia luce-tenebre della logica filosofica, ma nella sofianica e simbolica trascrizione biblica della coniugabilità della assoluta, essenziale inaccessibilità di Dio con l’immanenza delle sue energie partecipabili che non sono un’astrazione ma la luce della sua rivelazione, luce che acceca e purifica il vedere. «Dio è chiamato luce non secondo la sua Essenza, bensì secondo la sua Energia» afferma Gregorio Palamas [34]. E Dio, di conseguenza, «si manifesta come ombra illuminante» dice Cacciari apprestandosi a considerare questa dicotomica simbolicità nell’animo di Maria così come la ritrae mistericamente l’icona di Andrea Mantegna. La vita di Maria è all’ombra della luce di Dio, sotto la stessa nube luminosa che comparirà nell’evento della Trasfigurazione. Dall’annunciazione l’ombra della potenza dell’altissimo (Lc 1,35) la adombrerà fino alla fine. L’onnipotenza di Dio «si fa ombra e soltanto all’ombra di questa ombra la cosa si rivela nella propria realtà» [35] continua il filosofo.
Lo “schema mariano” è così posto fuori dalla logica umana e religiosa e il sì di Maria è la premessa di un dramma che non avrà rappresentazione e conclusione rituale; si compirà solo col suo strazio sotto la croce dove lei ammutolita “stabat”, all’ombra della croce, lei, l’adombrata del Signore, sotto l’ombra «di vita opposta a quella della morte. E tuttavia inseparabili: la spada profetizzata da Simeone sta a significarlo […] Ombra di vita è perciò quella della grande pittura che, appunto, non si dà senza ombra» [36]. Le due icone mariane del Mantegna segnalate da Cacciari partecipano ancora della concezione evangelica della luce, massimamente di quella emblematica del Prologo giovanneo: «La luce splende nelle tenebre». Le immagini sono collocate su fondo nero, così come il corpo del bambino fasciato è disteso contro il fondo nero della grotta nelle icone della natività bizantine. Le fasce del bambino hanno la foggia delle bende funebri, le bende mortuarie che profetizzano la morte vinta dalla morte, e il loro candore contro il fondo scuro la vita luminosa del Verbo risorto sceso nel buio degli inferi a dissipare le tenebre dello Sheol. Luce che splende nelle tenebre: il simbolismo misterico racconta due pasque: la Pasqua della Natività e la Pasqua della Risurrezione. Sono gli eventi cultuali che adombrano la vita di Maria e la illuminano.
Per concludere devo ricordare che questo mio saggio non è esaustivo di una fenomenologia del culto mariano, né potrebbe esserlo in questa sede; è solo una proposta per una sua attuazione, una pista che può avere positive ricadute non solo sul senso oggettivo del culto mariano, sul suo celebrarsi cioè, ma sul culto cristiano stesso che sembra aver perso il senso del simbolico e del misterico scadendo nel ritualismo e in un tradizionalismo ideologico che ha sostituito l’allegoria al simbolo. Solo l’indagine fenomenologica del culto mariano in senso soggettivo, del vissuto cultuale di Maria cioè, della percezione dell’ombra luminosa e dello specchiarsi di essa nello specchio immacolato della sua anima, può condurre all’atto fondativo dell’epifania cultica del cristianesimo; il cristianesimo infatti deve ritrovare in Maria protoiniziata, protoilluminata, protodiscepola, protorisorta la normatività etica del suo culto in spirito e verità. Dire dunque fenomenologia del culto mariano è come dire fenomenologia del culto cristiano.
Ci aiuta molto, anche nella prospettiva dell’approfondimento, l’itinerario di Cacciari nel suo testo complesso, non sempre immediatamente accessibile, ma chiaro nella visione e nell’intenzione: rendere a Maria la sua piena creaturalità, rilevando in lei la coscienza piena e limpida della creaturalità che nasce dalla terra, e in lei diviene ek-sistenza humilis. E il suo ruolo insostituibile, ma umano, nell’opera della redenzione che è dissipazione delle tenebre che attanagliano il cuore dell’essere umano: «Nessun Logos potrebbe farsi carne da sé. Questo figlio è a sua immagine» puntualizza Cacciari; e ancora, più filosoficamente: «Se la vita intradivina si fosse manifestata nella carne soltanto per forza e per virtù propria, questa carne non avrebbe potuto apparire reale e si sarebbe trattato di una “semplice” epifania del divino, già implicita nel suo essere Logos». La salvezza si compie dunque nel processo del co-immaginarsi: del Figlio nella Madre e della Madre nel Figlio che comporta la sovra-naturalità della figura di Maria, «in cui il sovra trasfigura, metamorfizza, eleva il naturale, non lo cancella» [37].
Si rivela inoltre metodologicamente esemplare l’approccio alle immagini dell’arte per sciogliere i nodi che la riflessione intellettuale, da sola, non sa né può risolvere, soprattutto quello che vuole indagare il legame tra l’essere finito e l’essere eterno. Il nervo scoperto della filosofia di Heidegger messo in luce da Edith Stein, sua collega a Friburgo, che si allontana dalla sua filosofia dell’esistenza notando come il filosofo «si chiude nella necessaria ed essenziale finitezza dell’essere e di ogni ente, senza comprendere che lo svelarsi del nulla nel nostro proprio essere significa insieme l’aprirsi da questo nostro essere finito, da questo essere nulla, all’essere infinito, puro, eterno» [38]. Heidegger, però, intuisce che i sentieri dell’arte dischiudono un senso del linguaggio che non è strumentale, ma rivelativo, perché l’arte usa le cose solo per esporle nella loro verità. L’opera d’arte è, così, opera della verità: «Nell’opera è all’opera la verità e non soltanto qualcosa di vero. […] È questo il modo in cui viene illuminato l’essere che da sé si nasconde. La luce così diffusa ordina il suo apparire nell’opera. L’apparire ordinato nell’opera è il bello. La bellezza è un momento in cui si fa presente la verità come non nascondimento. Ecco dunque chiarita l’essenza della verità in un modo più preciso. Sarà ora più chiaro anche ciò che nell’opera è all’opera» [39]. In sintesi, è il linguaggio poetico che apre l’apertura all’incontro, all’unificazione.
L’itinerario di Cacciari si conclude, con la rilettura della decima lettera del La colonna e il fondamento della verità di Pavel Florenskij [40] in cui il teologo scienziato e filosofo russo denuncia l’impostazione scettica della ragione trascendentale moderna, stante l’impossibilità logica di poter catturare e contenere una verità che sia espressione della pienezza della vita nella sua antinomicità. La verità non nasce dalla discorsività, ma per una rivelazione libera della stessa verità triipostatica, per una visita in grazia fatta all’anima dallo Spirito Santo e che ha in Maria la sua piena manifestazione. La teologia di Florenskij non spiritualizza l’idea di incarnazione ma ne ritrova la radice “alta” nella creazione della Sophia, la Sapienza descritta nel libro dei Proverbi e si tramuta, così, in sofiologia. Sophia è creatura e non ipostasi divina consustanziale; è però colei da cui trae vita ogni essente, la generazione della molteplicità degli essenti. Per un parallelismo non debole, come la Madre-Sophia ha collaborato all’opera della creazione, così la Madre-Maria a quella della redenzione. Ed anzi Sophia trova il suo perfetto farsi carne in Maria; «il suo sigillo è Maria stessa» [41].
Maria Colonna e fondamento della verità, iconizzata da Piero della Francesca nella sua Annunciazione di Arezzo, dove sembra lei a benedire l’angelo, è la stessa Maria atterrata, atterrita dal dolore mortale che le fa assumere la stessa postura della carne straziata e morta del Figlio, che è la sua medesima carne, nella Deposizione di Rogier van der Weyden, o ancóra eretta e incrollabile Odigitria che indica il mistero della croce inscritto nell’impenetrabilità trinitaria nella Trinità di Masaccio. In queste immagini Cacciari scava con occhio culturalmente disincantato, per la sua «fenomenologia dell’invisibile», per coglier tra le antinomie iconiche il vero senso della mariologia e del cristianesimo, oltre le precomprensioni culturali e cultuali.
Saremo noi capaci di mettere in atto l’opportuna epochè, ossia quella “riduzione fenomenologica” che pone tra parentesi il nostro mondo culturale sospendendo il giudizio, per consentire al thauma della novità evangelica di emergere e dare nuova connotazione all’esistente? A quello che Husserl ha chiamato Lebenswelt, mondo-della-vita? Anche i dogmi che appaiono spesso come superfetazioni ideologiche potrebbero sciogliersi in più fenomeniche evidenze della nostra esistenza che ha la stessa consistenza di quella di Maria. Lei che in terra è stata ciò che avrebbe dovuto essere in cielo, l’Immacolata e l’Assunta, senza soluzione di continuità, nella sua anima.
Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022
Note
[1] Riferimento a Lc 1, 35; la traduzione italiana dice: «Perciò quello che nascerà sarà chiamato santo, Figlio di Dio», mentre il testo greco parla di colui che «è generato santo», cioè «τὸ γεννώμενον ἅγιον», che cambia completamente il senso della frase.
[2] M. Cacciari, Generare Dio, Il Mulino, Bologna 2017.
[3] Lc 2, 19: «ἡ δὲ Μαριὰμ πάντα συνετήρει τὰ ῥήματα ταῦτα συμβάλλουσα ἐν τῇ καρδίᾳ αὐτῆς».
[4] Cacciari fa riferimento al thauma che provoca l’atto del pensare filosofico e che in Maria provoca il desiderio del senso che ha quell’irrompere irrazionale del metafisico nella sua vita, nella stessa carne sua e del bambino, concepito e dato alla luce per l’assenso a quello stesso senso. Cf. M. Cacciari, Generare Dio, cit.: 28-29.
[5] Gal4,4: «ὅτε δὲ ἦλθεν τὸπλήρωμα τοῦ χρόνου, ἐξαπέστειλεν ὁ θεὸς τὸν υἱὸν αὐτοῦ, γενόμενον ἐκ γυναικός».
[6] M. Cacciari, Generare Dio, cit.: 7. 11.
[7] Ivi, 89.
[8] Vedi il mio articolo Il culto di Demetra e i suoi possibili influssi sul culto mariano, pubblicato sul n. 52 di «Dialoghi Mediterranei», novembre 2018.
[9] Eléeson è l’imperativo aoristo di eleéo, col significato di far grazia, provare compassione, consolare. Traduce, nella Bibbia, l’ebraico rhm, il cui corrispondente sostantivo, rehem, denota l’utero femminile. Nell’A. T. sia il verbo che il sostantivo vengono riferiti a Dio, indicando le sue «viscere di misericordia».
[10] Lc 2,15: Διέλθωμεν δὴ ἕως Βηθλέεμ καὶ ἴδωμεν τὸῥῆμα τοῦτο τὸ γεγονὸς ὃ ὁ κύριος ἐγνώρισεν ἡμῖν.
[11] Eὐδοκία, vocabolo presente nel Nuovo Testamento solo una decina di volte e raramente attestato nel greco non cristiano precedente, contemporaneo e successivo all’età apostolica. Composto dalle radici εὐ (eu, “bene”) e δοκέω (dokeo, “pensare”, “immaginare”); viene interpretato come “pensare bene”, “di buona volontà”, “benevola” o “benevolenza”.
[12] Cfr A. Ales Bello, Culture e religioni, una lettura fenomenologica, Città Nuova, Roma 1997: 81ss
[13] R. Otto, Das Heilighe, Oscar Beck, Munchen 1936; tr. it. di E. Buonaiuti, Il sacro, Feltrinelli, Milano 1992.
[14] G. van der Leeuw, Fenomenologia della religione, Bollati Boringhieri, Torino 19922: 536.
[15] Nel testo greco: πνεύματι τοῦ νοὸς.
[16] Cf. Maria Zambrano, Quasi un’autobiografia, «Aut, aut», 279 (maggio-giugno 1997): 125-134. Anna Maria Pezzella, in una nota al suo studio, Maria Zambrano.Per un sapere poetico della vita, Messaggero ed., Padova 2004, evidenzia l’estrema originalità dell’accostamento della Vergine Maria al sapere filosofico da parte della pensatrice spagnola, sulla scorta di una omelia dello Pseudo Epifanio, che chiama Maria la mensa intellettuale della fede, affermazione ripresa da Giovanni Paolo II nell’enciclica Fides et Ratio, in cui viene ripreso il concetto del philosophari in Maria. Ivi: 105.
[17] Epicarmo. fr. 249, Georg Kaibel.
[18] Marco Ivan Rupnik, Il rosso della piazza d’oro, Lipa ed. Roma 2013: 68-69.
[19] A. Augustinus, Sermo 215, 4. PL 38, 1074.
[20] M. Cacciari, Generare Dio, cit.:17.
[21] Ivi: 19.
[22] È la Trasfigurazione secondo Giovanni.
[23] Antifona dei vespri In circumcisione Domini, in Liber usualis Missae et Officii pro Dominicis et Festis cun cantu gregoriano, a Solesmensibus monachis diligenter ornato, Typis soc. s. Joannis ev., Parisiis, Tornaci, Romae 1953. Usata nella liturgia preconciliare ed ora non più in uso.
[24] M. Cacciari, Generare Dio, cit.: 55.
[25] Cf. P. Florenskij, Le porte regali, saggio sull’icona, Adelphi, Milano 19812: 42-44.
[26] Il verbo greco katélaben, da katalambáno, significa ricevere e anche conquistare. L’Occidente, con la Vulgata segue il primo significato. L’Oriente, con Origene, il secondo: «le tenebre non l’hanno vinto».
[27] P. Florenskij, Le porte regali, cit.: 59.
[28] M. I. Rupnik, Il rosso della piazza d’oro, cit.: 152.
[29] Cf. P. N. Evdokimov, Teologia della bellezza, Edizioni Paoline, Roma 19812: 173.
[30] Composto di ἄλλος «altro» e tema di ἀγορεύω «parlare».
[31] Nel testo greco: βλέπειν τὴν φωνὴν.
[32] P. Florenskij, Le porte regali, cit.: 34-35.
[33] M. I. Rupnik, Il rosso della piazza d’oro, cit.: 253.
[34] Gregorio Palamas, Antirrheticus contra Akindynos, PG, 150, 893.
[35] M. Cacciari, Generare Dio, cit.: 37.
[36] Ivi: 38.
[37] Cf. ivi: 18. 91. 100.
[38] E. Stein, La ricerca della verità. Dalla fenomenologia alla filosofia cristiana, Città Nuova, Roma 1994, cit. in A. A. Bello, Edith Stein. La passione per la verità, Edizioni Messaggero, Padova 20032: 26.
[39] M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in U. Galimberti, Heidegger e il nuovo inizio. Il pensiero al tramonto dell’Occidente, Feltrinelli, Milano 2020: 208.
[40] P. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, Rusconi, Milano 1974. Il titolo dell’opera è ricavato da un versetto della prima lettera di Paolo a Timoteo 3,15: στῦλος καὶ ἑδραίωμα τῆς ἀληθείας.
[41] Cf. Massimo Cacciari, Generare Dio, cit.: 89-93.
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Leo Di Simone, teologo, scrittore, esperto di musica liturgica e di arte sacra, ha insegnato Antropologia culturale e Liturgia presso la Facoltà Teologica di Sicilia (Palermo), l’Istituto di Scienze Religiose di Mazara del Vallo e l’Istituto Teologico di Scutari (Albania). È presbitero della Diocesi di Mazara del Vallo e docente stabile di teologia presso la Scuola Diocesana di Teologia. Nella stessa Diocesi coordina il progetto “Operatori di pace” e dirige l’Ufficio Diocesano per i Migranti. Attualmente è Referente diocesano per il Sinodo dei Vescovi. Tra le sue pubblicazioni, si segnalano i seguenti volumi, editi da Feeria (Panzano in Chianti – Firenze): Liturgia secondo Gesù. Originalità e specificità del culto cristiano. Per il ritorno a una liturgia più evangelica (2003); Vexilla Regis. La croce dipinta di Mazara del Vallo. Icona pasquale della liturgia (2004); Beato Angelico. L’estetica del Verbo incarnato (2004); Le rotte dei Misteri. La cultura mediterranea da Dioniso al Crocifisso (2008); Liturgia medievale per la Chiesa postmoderna? La questione del “rito antico” nel racconto del “rito romano” (2013). Ha curato, per i tipi de Il Colombre, il volume Trasfigurazione. La Basilica Cattedrale di Mazara del Vallo. Culto Arte e Storia (2006). L’ultimo suo volume è un saggio biografico su Thomas Merton: Il romanzo di Thomas Merton. Un umanista cristiano nell’era postcristiana, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani (2018).
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